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Visto di conformità: la responsabilità del commercialista

La Corte di Cassazione ha confermato una misura cautelare interdittiva a carico di un commercialista per il suo ruolo in una vasta frode legata al Superbonus 110%. Secondo la Corte, l’apposizione del visto di conformità senza adeguate verifiche non è una mera formalità, ma un contributo essenziale al reato, configurando la partecipazione ad un’associazione per delinquere. La difesa basata sulla buona fede e sulla fiducia verso un parente è stata respinta, sottolineando la natura sistematica e non occasionale della condotta.

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Pubblicato il 10 dicembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Visto di Conformità: quando la firma del professionista diventa reato

La recente sentenza della Corte di Cassazione n. 42866/2024 getta una luce severa sulla figura del professionista e sul suo ruolo di garante della legalità, specialmente nell’ambito dei bonus fiscali. La decisione chiarisce che l’apposizione del visto di conformità non è un atto meramente formale, ma un’attività che comporta precise responsabilità. Un commercialista che omette i dovuti controlli, fidandosi ciecamente di un cliente o intermediario, può essere considerato a tutti gli effetti partecipe di un’associazione per delinquere. Analizziamo insieme i dettagli di questo caso emblematico.

I Fatti: Una Frode Milionaria sul Superbonus

Il caso nasce da un’indagine su una complessa associazione per delinquere finalizzata alla commissione di truffe aggravate ai danni dello Stato, sfruttando il meccanismo del cosiddetto Superbonus 110%. Il perno del sistema era un soggetto che, pur non avendo le competenze professionali, aveva creato un reticolo societario per predisporre pratiche di detrazione fiscale fittizie, intestate a soggetti terzi del tutto ignari.

Il profitto illecito superava i 37 milioni di euro. In questo schema, il ruolo di un commercialista, cugino del promotore della frode, era cruciale. Il suo compito era apporre il visto di conformità sulle pratiche, attestando la regolarità della documentazione. Questo passaggio era indispensabile per accedere alle detrazioni fiscali. Tuttavia, secondo l’accusa, il professionista avrebbe agito senza mai verificare l’effettiva esistenza dei lavori o della documentazione necessaria, interfacciandosi unicamente con il suo parente e mai con i presunti beneficiari dei bonus.

La Difesa e il Ricorso in Cassazione

Inizialmente sottoposto agli arresti domiciliari, il commercialista aveva ottenuto dal Tribunale del Riesame la sostituzione della misura con il divieto di esercitare la professione per un anno. Non soddisfatto, ha presentato ricorso in Cassazione, sostenendo due punti principali:

1. Assenza di dolo: Ha affermato di essersi limitato a un’attività formale, fidandosi del cugino e senza essere a conoscenza dell’irregolarità delle pratiche. A suo dire, non vi era prova della sua partecipazione consapevole al sodalizio criminale.
2. Mancanza del pericolo di reiterazione: Ha sottolineato il lungo tempo trascorso dall’ultima condotta contestata e il suo comportamento professionale irreprensibile nel periodo successivo, elementi che avrebbero dovuto escludere l’attualità del pericolo di commettere nuovi reati.

La Decisione della Corte: il Visto di Conformità non è un atto di fede

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso manifestamente infondato, confermando la visione del Tribunale. I giudici hanno smontato la linea difensiva, evidenziando come l’apporto del professionista fosse stato ‘costante e indispensabile’ per la riuscita della frode.

Secondo la Corte, il professionista non può trincerarsi dietro una presunta buona fede. Apporre il visto di conformità su un numero considerevole di pratiche (coinvolgendo 42 soggetti inconsapevoli) senza mai curarsi di verificare l’esistenza della documentazione o di contattare i beneficiari non è un atto formale, ma un comportamento che denota piena consapevolezza e partecipazione all’illecito. Le intercettazioni, inoltre, dimostravano che il commercialista vedeva nel rapporto con il cugino non un semplice incarico, ma una ‘opportunità di guadagno’.

Le motivazioni

La motivazione della sentenza si fonda su un principio di diritto cruciale: il professionista incaricato di certificare la regolarità di una pratica fiscale assume un ruolo di garanzia. Non può delegare la sua funzione di controllo né affidarsi ciecamente alle dichiarazioni di terzi, soprattutto quando le circostanze (come un numero elevato di pratiche provenienti da un unico intermediario) dovrebbero suggerire una maggiore cautela. La Corte ha ritenuto la ricostruzione del Tribunale logica e coerente, respingendo la versione del ricorrente come un mero tentativo di fornire una lettura alternativa dei fatti, priva di riscontri probatori. L’aver sistematicamente omesso ogni tipo di verifica su decine di pratiche è stato interpretato non come negligenza, ma come un elemento indiziario grave della sua piena partecipazione all’associazione criminale. Anche la tesi della condotta occasionale è stata rigettata, poiché l’attività illecita si era protratta per oltre due anni, con ingenti profitti e un attivismo che non si era fermato neppure dopo i primi sequestri a carico del promotore del gruppo.

Le conclusioni

Questa sentenza rappresenta un monito fondamentale per tutti i professionisti del settore fiscale e contabile. Il rilascio del visto di conformità non è una semplice formalità burocratica, ma un atto che impegna la responsabilità personale e professionale del certificatore. La decisione della Cassazione ribadisce che il professionista ha un dovere di diligenza e controllo che non può essere eluso. Ignorare i campanelli d’allarme e agire con superficialità, soprattutto in contesti ad alto rischio di frode come quello dei bonus edilizi, può costare non solo una sanzione disciplinare, ma anche una grave imputazione penale per concorso in reati gravissimi.

Un professionista può essere ritenuto penalmente responsabile per aver apposto un visto di conformità basandosi solo sulla fiducia verso il cliente o un intermediario?
Sì. Secondo questa sentenza, l’apposizione del visto senza effettuare le dovute verifiche sulla documentazione sottostante, specialmente in un contesto sistematico, non è considerata una mera negligenza ma un contributo attivo e indispensabile al reato, sufficiente a configurare la partecipazione ad un’associazione per delinquere.

Il legame di parentela con il promotore di una frode può essere considerato un’attenuante per il professionista coinvolto?
No, al contrario. Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che il rapporto para-familiare non diminuisse la responsabilità del professionista, ma anzi rafforzasse l’idea del suo coinvolgimento consapevole, avendo egli sfruttato tale legame come una chiara ‘opportunità di guadagno’.

Un lungo periodo di condotta lecita dopo i fatti contestati è sufficiente a escludere l’applicazione di una misura cautelare?
Non necessariamente. La Corte ha stabilito che, a fronte di una condotta criminale sistematica, protratta nel tempo (oltre due anni) e fonte di ingenti profitti, il rischio di reiterazione del reato può essere considerato ancora concreto e attuale, giustificando la misura cautelare, nonostante sia trascorso del tempo dall’ultima azione illecita.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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