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Violenza per costringere: Cassazione su art. 611 c.p.

La Corte di Cassazione ha esaminato un caso di violenza per costringere a commettere reato, originariamente qualificato come intralcio alla giustizia. Un imputato è stato condannato per aver minacciato un testimone al fine di fargli ritrattare delle accuse. La Suprema Corte ha confermato la condanna, chiarendo che la riqualificazione del reato da art. 377 a art. 611 c.p. è legittima quando il nucleo della condotta (violenza o minaccia) rimane invariato. Ha inoltre precisato che per la sussistenza del reato non è necessario che il crimine-fine venga effettivamente commesso. La pena è stata ridotta per un errore di calcolo relativo al rito abbreviato. L’appello di un coimputato, il cui reato era stato dichiarato prescritto, è stato giudicato inammissibile.

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Pubblicato il 31 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Violenza per costringere a commettere reato: quando la minaccia cambia veste giuridica

La recente sentenza della Corte di Cassazione, n. 6343 del 2024, offre un’importante analisi sulla corretta qualificazione giuridica di condotte intimidatorie. Il caso esaminato riguarda la violenza per costringere a commettere reato, un delitto previsto dall’art. 611 del codice penale, e la sua relazione con altre figure criminose come l’intralcio alla giustizia (art. 377 c.p.). La Corte chiarisce i confini applicativi della norma e i principi che governano la riqualificazione del fatto in corso di processo.

I fatti del caso

La vicenda trae origine da una complessa operazione immobiliare tra due nuclei familiari, caratterizzata da profili anomali che avevano portato all’accusa di estorsione nei confronti di un soggetto. Nel corso del procedimento, il fratello di quest’ultimo veniva accusato di aver posto in essere una condotta intimidatoria nei confronti del testimone chiave, al fine di indurlo a ritrattare le sue dichiarazioni. L’accusa iniziale per questo secondo soggetto era di subornazione, ovvero intralcio alla giustizia.

Il percorso processuale e la riqualificazione del reato

Il processo ha avuto un iter complesso. In primo grado, il Tribunale aveva assolto entrambi gli imputati. La Corte d’Appello, tuttavia, ha riformato la decisione. Per il primo imputato, ha dichiarato l’intervenuta prescrizione del reato di estorsione. Per il secondo, ha operato un passaggio giuridico cruciale: pur confermando la natura illecita della sua condotta, l’ha riqualificata. Il fatto non è stato più considerato intralcio alla giustizia (art. 377 c.p.), bensì violenza per costringere a commettere reato (art. 611 c.p.), giungendo a una pronuncia di condanna. Contro questa decisione, entrambi gli imputati hanno proposto ricorso in Cassazione.

L’analisi della Cassazione sulla violenza per costringere a commettere reato

La Suprema Corte ha esaminato distintamente i due ricorsi, giungendo a conclusioni diverse.

La legittimità della riqualificazione giuridica

Il punto centrale del ricorso dell’imputato condannato riguardava la presunta violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza. Egli sosteneva di essere stato condannato per un reato diverso da quello contestatogli, con lesione del suo diritto di difesa. La Cassazione ha respinto questa tesi, richiamando un orientamento consolidato. Non vi è violazione di tale principio quando i due reati (quello contestato e quello ritenuto in sentenza) hanno in comune il nucleo essenziale della condotta, ovvero l’uso di violenza o minaccia per costringere la vittima a un determinato comportamento. Poiché l’imputato si era difeso proprio dal fatto storico della minaccia, i suoi diritti non sono stati pregiudicati.

Gli elementi costitutivi del reato

Un altro aspetto fondamentale chiarito dalla Corte riguarda la perfezione del delitto di cui all’art. 611 c.p. Per la sussistenza di tale reato, non è necessario che il crimine-fine (in questo caso, la falsa testimonianza) venga effettivamente commesso o tentato. È sufficiente che la violenza o la minaccia esercitata sia, nel momento in cui viene posta in essere, idonea a determinare la vittima a commettere il reato. Il focus della norma è sulla condotta coercitiva dell’agente, non sul risultato ottenuto.

Le motivazioni

La Corte ha ritenuto infondate quasi tutte le doglianze dell’imputato condannato. La ricostruzione dei fatti operata dalla Corte d’Appello è stata giudicata logica e coerente, evidenziando come l’intimidazione si inserisse in un contesto già viziato da un anomalo rapporto economico. Le argomentazioni relative alla riqualificazione del reato e agli elementi costitutivi della violenza per costringere a commettere reato sono state ampiamente supportate dalla giurisprudenza. Tuttavia, il ricorso ha trovato accoglimento su un unico punto, di natura puramente tecnica: la Corte d’Appello aveva omesso di applicare la riduzione di un terzo della pena prevista per il rito abbreviato. Per questo motivo, la Cassazione ha annullato la sentenza limitatamente alla pena, rideterminandola direttamente in 8 mesi di reclusione. Il ricorso del primo imputato, volto a ottenere un’assoluzione nel merito nonostante la prescrizione, è stato dichiarato inammissibile per genericità e manifesta infondatezza.

Le conclusioni

Questa sentenza ribadisce due principi importanti. In primo luogo, la flessibilità del sistema nel qualificare giuridicamente un fatto, purché non venga alterato il suo nucleo storico e sia garantito il diritto di difesa. In secondo luogo, la natura di pericolo del reato di cui all’art. 611 c.p., che si consuma con la sola condotta coercitiva idonea, a prescindere dal comportamento successivo della vittima. La decisione sottolinea infine l’importanza del rigore formale nel calcolo della pena, un errore che, seppur tecnico, può avere conseguenze dirette sulla libertà personale dell’imputato.

È possibile condannare un imputato per un reato diverso da quello inizialmente contestato?
Sì, secondo la sentenza è possibile. Questa operazione, detta ‘riqualificazione del fatto’, è legittima a condizione che il nucleo storico della condotta contestata rimanga invariato (ad esempio, l’uso di minaccia) e che sia stato pienamente garantito il diritto di difesa dell’imputato su quel fatto.

Per il reato di violenza per costringere a commettere un reato (art. 611 c.p.) è necessario che la vittima commetta effettivamente il reato?
No. La Corte ha chiarito che per la configurabilità di questo delitto è sufficiente che la violenza o la minaccia sia idonea, cioè capace, a costringere la vittima a commettere un reato. Non è richiesto che il reato-fine sia poi effettivamente consumato o tentato.

Un imputato il cui reato è stato dichiarato prescritto può ricorrere in Cassazione per ottenere un’assoluzione piena?
Sì, può farlo, ma il suo ricorso è soggetto a condizioni molto stringenti. Deve dedurre motivi specifici che dimostrino, in modo evidente e non contestabile, l’esistenza di una causa di assoluzione nel merito (ad esempio, la prova della sua innocenza). Un generico riesame delle prove non è sufficiente e porta a una dichiarazione di inammissibilità.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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