Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 3130 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 3130 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 30/11/2023
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
COGNOME NOME, nato a Palermo il DATA_NASCITA
COGNOME NOME, nato a Palermo il DATA_NASCITA
COGNOME NOME, nato a Palermo il DATA_NASCITA
COGNOME NOME, Nato a Palermo il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 15/12/2022 della Corte d’appello di Palermo visti gli atti, il provvedimento impugnato, i ricorsi e i motivi nuovi presentat dall’AVV_NOTAIO, difensore di COGNOME NOME;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME, la quale ha concluso chiedendo che i ricorsi siano dichiarati inammissibili;
lette le conclusioni dell’AVV_NOTAIO, difensore di COGNOME NOME, la quale, nel replicare alle conclusioni del Pubblico Ministero, ha insistito per l’accoglimento del ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 15/12/2022, la Corte d’appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza del 24/05/2022 del G.u.p. del Tribunale di Palermo, emessa in esito a giudizio abbreviato: a) confermava la condanna di NOME COGNOME,
NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME per il reato di rapina aggravata (dall’essere state la violenza e minaccia commessa da più persone riunite) in concorso a danni di NOME COGNOME; b) ritenute le già concesse circostanze attenuanti generiche equivalenti, oltre che alla circostanza aggravante di cui al n. 1) del terzo comma dell’art. 628 cod. pen., anche alla contestata recidiva, rideterminava la pena irrogata ai quattro menzionati imputati in due anni e dieci mesi di reclusione ed C 660,00 di multa ciascuno.
Avverso l’indicata sentenza del 15/12/2022 della Corte d’appello di Palermo, hanno proposto ricorsi per cassazione, con distinti atti e per il tramite dei propri rispettivi difensori, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME.
Il ricorso di NOME COGNOME è affidato a un unico motivo con il quale il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., con riferimento all’art. 133 cod. pen., il vizio della motivazione con riguardo alla determinazione della misura della pena.
Il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Palermo non avrebbe dato conto del percorso logico che aveva seguito per determinare la misura della pena irrogata, alla luce dei parametri previsti dall’art. 133 cod. pen., e non avrebbe preso in considerazione gli elementi positivi che, nella prospettiva dell’anzidetta determinazione, erano stati evidenziati nel proprio atto di appello, costituiti dalle proprie disagiate condizioni economiche e dal non particolare disvalore della propria condotta, così rendendo una motivazione manifestamente illogica.
Il ricorso di NOME COGNOME è affidato a due motivi.
4.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione e falsa applicazione degli artt. 110, 56 e 628, terzo comma, n. 1), cod. pen., con riferimento agli artt. 624 e 625, primo comma, n. 2), cod. pen., e all’art. 49 cod. pen., nonché la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione, con riguardo alla qualificazione del fatto come tentata rapina in concorso anziché come tentato furto in concorso aggravato dall’uso di volenza sulle cose.
Il ricorrente contesta l’argomentazione della Corte d’appello di Palermo secondo cui «Ma rottura del finestrino era prodromica alla minaccia verso la persona offesa, al fine evidente di tramortirla», e deduce al riguardo che, con tale argomentazione, la Corte d’appello di Palermo avrebbe individuato «il quid pluris, necessario a convertire un’ipotesi di furto in rapina, nella violenza esercitata contro un oggetto, il finestrin dell’auto» e avrebbe illogicamente ricavato dall’elemento «neutro» della rottura del finestrino dell’automobile della persona offesa gli ulteriori elementi, che non si erano nella realtà giunti a verificare, della minaccia alla persona offesa e della
finalizzazione della stessa minaccia al tramortimento della vittima, anziché alla mera sottrazione del borsello della stessa.
Il ricorrente rappresenta inoltre che con la confessione degli imputati, valorizzata dalla Corte d’appello di Palermo, gli stessi avevano riconosciuto il loro intento predatorio ma non avevano specificato quali sarebbero state le concrete modalità dell’azione.
4.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione e falsa applicazione dell’art. 61, n. 6) (recte: 62, n. 6), cod. pen., con riguardo al diniego della sussistenza della circostanza attenuante, prevista da tale disposizione, dell’avere, prima del giudizio, risarcito interamente il danno.
Il ricorrente deduce che la Corte d’appello di Palermo, nell’escludere la sussistenza di tale circostanza attenuante, da un lato, avrebbe errato nel non riconoscere alla mancata costituzione di parte civile, in una con l’accettazione dell’offerta reale, un sintomo dell’avvenuta soddisfazione della persona offesa in ordine alla somma (di € 250,00 ciascuno) che le era stata corrisposta dagli imputati al fine di risarcire il danno che essa aveva subito e, dall’altro lato, post che non era mai stato quantificato il danno subito dall’autovettura del COGNOME né era stato accertato né quantificato l’asserito stress psico-fisico che egli avrebbe subito, la stessa Corte d’appello «avrebbe dovuto motivare non in ordine al rapporto tra offerta e danno ma tra offerta e indice di resipiscenza», tenendo anche conto della condizione economica non agiata degli imputati.
Il ricorso di NOME COGNOME è affidato a un unico motivo con il quale il ricorrente prospetta censure identiche a quelle che sono state avanzate da NOME COGNOME nel proprio ricorso e delle quali si è dato conto al punto 3.
Il ricorso di NOME COGNOME è affidato a due motivi.
6.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione e falsa applicazione dell’art. 628 cod. pen., e la mancanza della motivazione «circa la direzione della violenza verso la persona», con riguardo alla qualificazione del fatto come tentata rapina in concorso anziché come tentato furto in concorso.
Anche il COGNOME contesta l’argomentazione della Corte d’appello di Palermo secondo cui «[ha rottura del finestrino era prodrornica alla minaccia verso la persona offesa, al fine evidente di tramortirla», atteso che, con tale assertiva argomentazione, che si connoterebbe come una motivazione apparente, la stessa Corte d’appello non spiegherebbe quali elementi l’avevano indotta a ritenere che la rottura del finestrino dell’automobile della persona offesa si dovesse intendere «come indirettamente rivolta alla persona col fine di tramortirla» e non, invece, all’apprensione del borsello di sua proprietà.
6.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione e falsa applicazione dell’art. 114, primo comma, cod. pen., e il difetto della motivazione «circa l’esclusione della marginalità del contribuito del COGNOME rispetto all’esecuzione del reato».
Il ricorrente contesta l’argomentazione con la quale la Corte d’appello di Palermo ha escluso la sussistenza della circostanza attenuante della minima importanza dell’opera da lui prestata nella preparazione o nell’esecuzione del reato – secondo cui egli avrebbe contribuito «in modo rilevante» alla realizzazione della rapina «avendo all’uopo seguito la persona offesa nei suoi spostamenti, tenendosi logicamente in contatto con i correi» – e lamenta in proposito che tale argomentazione sarebbe viziata: sia in quanto «priv del riferimento agli atti a sostegno»; sia in quanto si porrebbe in contrasto con le emergenze processuali, atteso che sarebbe «incontestato che alle fasi ideative e preparatorie il COGNOME partecipò finché, già individuata l’odierna persona offesa ed ideato il piano, si rese indispensabile reperire un complice per il furto delle vetture (reato che sarà giudicato con separato giudizio)», con il conseguente travisamento della prova.
NOME COGNOME ha presentato un motivo nuovo, con il quale deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione e falsa applicazione dell’art. «61» (recte: 62), n. 6), cod. pen., e il vizio della motivazione, con riguardo al diniego della sussistenza della circostanza attenuante, prevista da tale disposizione, dell’avere, prima del giudizio, risarcito interamente il danno.
Il ricorrente prospetta censure sostanzialmente sovrapponibili a quelle che sono state avanzate da NOME COGNOME con il secondo motivo del suo ricorso e delle quali si è dato conto al punto 4.2.
CONSIDERATO IN DIRITTO
In ordine logico, si devono anzitutto esaminare il primo motivo del ricorso di NOME COGNOME e il primo motivo del ricorso di NOME COGNOME. Tali motivi, concernendo entrambi la qualificazione giuridica del fatto come tentata rapina in concorso anziché, come sostenuto dai ricorrenti, come tentato furto in concorso, possono essere esaminati congiuntamente.
I motivi sono manifestamente infondati.
Si deve premettere che costituisce un orientamento consolidato della Corte di cassazione quello secondo cui, ai fini del controllo di legittimità sul vizio d motivazione, ricorre la cosiddetta “doppia conforme” quando la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado sia attraverso ripetuti richiami a quest’ultima sia adottando gli stessi criteri utilizz nella valutazione delle prove, con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale
(tra le tante: Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218-01; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, COGNOME, Rv. 257595-01; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, dep. 2012, NOME, Rv. 252615-01).
Nel caso in esame, il G.u.p. del Tribunale di Palermo, con la sentenza del 24/05/2022 – che, in punto di responsabilità, è stata confermata dall’impugnata sentenza della Corte d’appello di Palermo – aveva ritenuto di qualificare il fatto attribuito agli imputati come rapina in quanto aveva ravvisato, nello stesso fatto, l’utilizzo: a) sia della minaccia, in considerazione della valenza intimidatoria che, a suo avviso, si doveva riconoscere al blocco dell’autovettura della persona offesa che era stato realizzato dagli imputati mediante il posizionamento di due autovetture, una davanti e una dietro a quella condotta dal COGNOME, così da impedirgli la fuga, e alla rottura del finestrino anteriore sinistro dell’autovettu dello stesso COGNOME, «dunque proprio in faccia alla vittima»; b) sia della violenza, in quanto il menzionato blocco dell’autovettura della persona offesa ne aveva volutamente neutralizzato la libertà di movimento, tanto che il COGNOME aveva dovuto ricorrere a sua volta alla violenza, tamponando e speronando le due autovetture in uso ai rapinatori, per sottarsi al blocco da essi attuato e darsi alla fuga.
A tale proposito del ritenuto utilizzo della violenza, si deve rammentare che, secondo la Corte di cassazione, in tema di rapina, integra il requisito della violenza non soltanto l’esplicazione di energia fisica, in senso costrittivo, direttamente sulla persona del soggetto passivo, ma anche qualsiasi atto o fatto posto in essere dall’agente che si risolva comunque in una coartazione della libertà fisica, o anche solo psichica, del medesimo, conseguentemente indotto, contro la sua volontà, a fare, tollerare od omettere qualche cosa (Sez. 2, n. 23888 del 06/07/2020, COGNOME, Rv. 279587-01, relativa a una fattispecie in cui gli imputati, tamponando intenzionalmente l’autovettura della persona offesa, costringevano la stessa a scenderne, così da poterle agevolmente sottrarre il veicolo, con cui si allontanavano; Sez. 2, n. 28389 del 27/04/2017, COGNOME, Rv. 270180, relativa a una fattispecie di rapina impropria).
In conformità con tale principio, la stessa Corte di cassazione ha specificamente affermato che, in tema di rapina, configura l’elemento materiale della «violenza alla persona» il frapporre un ostacolo alla libertà di locomozione della vittima, che marci alla guida di un veicolo, onde costringerla ad arrestare la marcia per sottrarle una cosa mobile (Sez. 2, n. 1176 del 11/10/2012, dep. 2013, Z., Rv. 254126-01, relativa a una fattispecie nella quale l’imputato, in concorso con altro soggetto giudicato separatamente, si era gettato, a bordo di un ciclomotore, dinanzi all’autovettura guidata dalla persona offesa, costringendola
ad arrestare la marcia per evitare l’impatto, e aveva approfittato di ciò per sottrarle la borsa).
Orbene, nel caso in esame, secondo la non contestata ricostruzione del fatto che è stata operata dai giudici di merito, la condotta degli imputati era consistita proprio nel frapporre un ostacolo alla libertà di locomozione del COGNOME, mediante il blocco dell’autovettura da lui condotta che era stato realizzato dagli agenti mediante il posizionamento di due autovetture, una davanti e una dietro a quella guidata dalla persona offesa, così da impedirle la fuga, con ciò, evidentemente, coartandone la libertà fisica.
Alla luce dei ricordati principi, affermati dalla Corte di cassazione, si deve perciò ritenere la sussistenza dell’elemento materiale del reato di rapina della «violenza alla persona», con la conseguente correttezza della qualificazione giuridica del fatto, appunto, come rapina e non come furto aggravato dall’uso di violenza sulla cosa.
Sempre in ordine logico, si deve ora passare a esaminare il secondo motivo del ricorso di NOME COGNOME e il motivo nuovo presentato da NOME COGNOME. Tali motivi, concernendo entrambi il diniego della sussistenza della circostanza attenuante, prevista dall’art. 62, n. 6), cod. pen., dell’avere, prima del giudizio risarcito interamente il danno, possono essere esaminati congiuntamente.
Essi sono manifestamente infondati.
La circostanza attenuante del risarcimento del danno, quantunque fondata anche su una valutazione positiva della resipiscenza del colpevole e quindi su una sua minore pericolosità sociale, ha altresì una componente obiettiva che si rivela nel tenore letterale della disposizione laddove il termine «interamente», riferito alla riparazione del danno cagionato dal reato, dimostra la finalità dell’attenuante di assicurare l’eliminazione degli effetti lesivi della condotta (Sez. 6, n. 9737 de 13/07/2000, COGNOME, Rv. 217651-01; Sez. 1, n. 6490 del 02/02/1998, COGNOME, Rv. 210758-01).
Pertanto, ai fini del riconoscimento dell’attenuante dell’integrale riparazione del danno, il risarcimento deve essere integrale ed effettivo, con la conseguenza che, in caso di riparazione parziale o inadeguata, non può giovare all’imputato la dichiarazione liberatoria resa dalla persona offesa o la considerazione degli sforzi economici affrontati per effettuarla (Sez. 5, n. 7826 del 30/11/2022, dep. 2023, COGNOME, Rv. 284224-01; Sez. 5, n. 13282 del 17/01/2013, COGNOME, Rv. 25518701).
La valutazione della congruità del risarcimento del danno – comprensivo non solo di quello patrimoniale ma anche di quello morale – è rimessa all’apprezzamento del giudice di merito (Sez. 2, n. 9143 del 24/01/2013, COGNOME,
Rv. 254880-01), il cui giudizio, se congruamente motivato, non è sindacabile in sede di legittimità (Sez. 1, n. 923 del 22/06/1982, COGNOME, Rv. 157229-01).
Nel caso in esame, la Corte d’appello di Palermo ha argomentato che, posta l’assenza di una dichiarazione di avvenuta soddisfazione da parte della vittima, la somma di C 250,00 che era stata versata da ciascun imputato alla stessa non si potesse ritenere congrua, atteso che tale somma non appariva sufficiente a compensare il danno patrimoniale che era stato cagionato all’autovettura del COGNOME – il quale, come è stato evidenziato, per sottrarsi ai rapinatori, era stato costretto e tamponare e speronare ripetutamente le autovetture che erano state utilizzate dagli imputati per bloccare la sua automobile – e non era, comunque, sufficiente a compensare tale danno e quello morale (evidentemente, equitativamente valutato) derivante dallo stress psico-fisico che il COGNOME aveva inevitabilmente patito nel subire una rapina con le modalità che si sono descritte.
Tale apprezzamento si deve ritenere congruamente motivato e, perciò, non sindacabile in questa sede di legittimità, atteso anche che, contrariamente a quanto è stato sostenuto dai ricorrenti, la mancata costituzione di parte civile non costituisce, logicamente, motivo per ritenere l’avvenuta integrale soddisfazione della vittima e che, come si è detto, non può giovare agli imputati lo sforzo economico affrontato per effettuare una riparazione solo parziale.
Deve essere ora esaminato il secondo motivo del ricorso di NOME COGNOME.
Esso è manifestamente infondato.
A tale proposito, è sufficiente rammentare il principio, costantemente affermato dalla Corte di cassazione, secondo cui la circostanza attenuante della partecipazione di minima importanza nella preparazione o nell’esecuzione del reato, prevista dall’art. 114 cod. pen., non trova applicazione – oltre che nell’ipotesi aggravata di cui all’art. 112 cod. pen. (numero dei concorrenti pari almeno a cinque) – quando il numero dei partecipanti al reato sia considerato come circostanza aggravante speciale (Sez. 1, n. 37277 del 23/04/2015, COGNOME, Rv. 264565-01, che, in motivazione, ha precisato che la clausola di riserva «salvo che la legge disponga altrimenti», contenuta nell’art. 112 cod. pen., non solo sta a indicare la prevalenza delle norme speciali sulla regola generale, ma consente anche di escludere l’applicabilità dell’attenuante in presenza di siffatte norme speciali. Nello stesso senso: Sez. 3, n. 17180 del 05/03/2020, COGNOME, Rv. 279014-01; Sez. 2, n. 18540 del 19/04/2016, COGNOME, Rv. 266852-01; Sez. 6, n. 6250 del 17/10/2002, Emmanuello, Rv. 225925-01).
Poiché il caso in esame riguarda una fattispecie di rapina aggravata dalla circostanza, a effetto speciale, dell’essere la violenza o minaccia stata commessa da più persone riunite, ne consegue, sulla base del principio che si è appena
ricordato, l’inapplicabilità dell’invocata disposizione di cui al primo comma dell’art. 114 cod. pen.
Si devono infine esaminare l’unico motivo del ricorso di NOME COGNOME e l’unico motivo del ricorso di NOME COGNOME. Tali motivi, prospettando, come si è detto, censure identiche, possono essere esaminati congiuntamente.
Essi sono manifestamente infondati.
La giurisprudenza della Corte di cassazione è costante nell’affermare che la determinazione della pena tra il minimo e il massimo edittale rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito ed è insindacabile nei casi in cui la pena sia applicata in misura media e, ancor più, se prossima al minimo, anche nel caso in cui il giudicante si sia limitato a richiamare criteri di adeguatezza, di equità e simil nei quali sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen. (tra le tante, S 4, n. 46412 del 05/11/2015, COGNOME, Rv. 265283-01).
Anche successivamente, è stato ribadito che la graduazione della pena rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale, per assolvere al relativo obbligo di motivazione, è sufficiente che dia conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 1 cod. pen. con espressioni del tipo: “pena congrua”, “pena equa” o “congruo aumento”, come pure con il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere, essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale (Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, Mastro, Rv. 271243-01).
Nel caso di specie, la pena irrogata di due anni e dieci mesi di reclusione, così diminuita in ragione della scelta del giudizio abbreviato, si colloca intorno alla misura media di quella edittale per il tentativo di rapina, con la conseguenza che l’obbligo di motivazione ben può ritenersi assolto dalla Corte d’appello di Palermo mediante il riferimento, da essa operato, all’impiego dei criteri previsti dall’art 133 cod. pen.
Pertanto, i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili, con la conseguente condanna dei ricorrenti, ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento nonché, essendo ravvisabili profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento della somma di € 3.000,00 ciascuno in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 30/11/2023.