Violazione Sigilli: Quando il Responsabile di Fatto Paga per Tutti
La violazione sigilli è un reato che tutela l’autorità delle decisioni della pubblica amministrazione e della magistratura. Ma chi ne risponde penalmente quando in un’azienda coesistono una figura di rappresentante legale formale e un gestore di fatto? Una recente ordinanza della Corte di Cassazione chiarisce che, ai fini della responsabilità penale, ciò che conta è la situazione reale e non quella meramente formale, evidenziando come chi esercita concretamente il potere decisionale e di controllo non possa nascondersi dietro uno schermo societario.
Il Caso: Sigilli Infranti in un’Azienda Alimentare
I fatti traggono origine da un controllo effettuato dal servizio veterinario locale presso un’azienda di lavorazione carni. A seguito di accertamenti, le autorità avevano apposto dei sigilli su alcune celle frigorifere contenenti carni suine, in attesa di ulteriori analisi. In un momento successivo, veniva accertato che i sigilli erano stati infranti e che parte della merce sottoposta a sequestro era sparita.
Per questi fatti, veniva condannato per il reato di violazione di sigilli un soggetto che operava all’interno dell’azienda. La condanna veniva confermata anche in appello.
Il Ricorso in Cassazione e la Difesa del “Socio di Fatto”
L’imputato presentava ricorso in Cassazione, basando la sua difesa su un unico motivo: un’errata valutazione della sua posizione all’interno della società. Egli sosteneva di non essere il responsabile legale della struttura, ruolo formalmente ricoperto da un’altra persona, ma di essere semplicemente un socio di fatto o un referente per gli operai. Secondo la sua tesi, la responsabilità penale per la violazione sigilli avrebbe dovuto essere attribuita al legale rappresentante e non a lui.
La Valutazione della Suprema Corte sulla violazione sigilli
La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, rigettando completamente la linea difensiva. I giudici hanno chiarito che le argomentazioni del ricorrente non rientravano tra i motivi per cui è possibile rivolgersi alla Suprema Corte. Egli, infatti, non lamentava una violazione di legge, ma contestava la ricostruzione dei fatti e la valutazione delle prove, attività che sono di esclusiva competenza dei giudici di primo e secondo grado.
Gli Indizi del Ruolo di Fatto
La Corte ha sottolineato come la decisione dei giudici di merito fosse basata su una motivazione logica, completa e ben argomentata. Dalle testimonianze era emerso chiaramente che il ricorrente era la vera figura di riferimento all’interno dell’azienda. Nello specifico, era stato provato che:
– Era costantemente presente in azienda, a differenza del legale rappresentante che non era mai stato visto.
– Tutti i dipendenti prendevano ordini direttamente da lui.
– Aveva la disponibilità delle chiavi dello stabilimento.
– Era perfettamente a conoscenza dell’apposizione dei sigilli e ne era il custode di fatto.
Questi elementi, nel loro complesso, delineavano un quadro in cui l’imputato esercitava un potere gestionale e di controllo effettivo, che andava ben oltre la mera qualifica formale.
Le Motivazioni della Decisione
La Corte di Cassazione ha ribadito un principio fondamentale del processo penale: il giudizio di legittimità non è un “terzo grado” di merito. La Corte non può sostituire la propria valutazione delle prove a quella compiuta dai giudici delle fasi precedenti, a meno che la motivazione della sentenza impugnata non sia palesemente illogica, contraddittoria o del tutto assente. Nel caso in esame, la motivazione era solida e fondata su prove concrete che dimostravano il ruolo dominante e la responsabilità diretta del ricorrente nella gestione dei beni sigillati. Tentare di attribuire la colpa al legale rappresentante formale è stato visto come un tentativo, tardivo e infondato, di sottrarsi alle proprie responsabilità.
Conclusioni: La Prevalenza della Sostanza sulla Forma
Questa ordinanza conferma un principio di cruciale importanza: nel diritto penale, la realtà fattuale prevale sempre sulla forma giuridica. Non ci si può nascondere dietro cariche formali per eludere le proprie responsabilità. Chi, di fatto, gestisce un’attività, ne controlla i beni e impartisce le direttive, è anche colui che deve rispondere delle conseguenze penali delle sue azioni, inclusa la violazione sigilli. La decisione serve da monito per tutti coloro che, pur operando come veri e propri amministratori, cercano di schermarsi utilizzando prestanome o figure di facciata. L’ordinamento giuridico guarda a chi detiene il potere effettivo, attribuendogli onori e oneri, compresa la responsabilità penale.
Chi è considerato responsabile per la violazione di sigilli in un’azienda?
La responsabilità penale ricade su chi ha la disponibilità materiale e il controllo effettivo del bene sigillato. Nel caso di specie, è stato ritenuto responsabile il soggetto che, pur non essendo il legale rappresentante, agiva come referente aziendale, dava ordini, aveva le chiavi ed era costantemente presente.
È possibile contestare in Cassazione la valutazione dei fatti compiuta da un giudice di merito?
No, non è possibile. Il ricorso in Cassazione è limitato alla verifica di errori di diritto (violazioni di legge). La ricostruzione dei fatti e la valutazione delle prove, se supportate da una motivazione logica e completa, non sono sindacabili dalla Suprema Corte.
Cosa succede se un ricorso in Cassazione viene dichiarato inammissibile?
Se il ricorso è dichiarato inammissibile, il ricorrente viene condannato al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria a favore della Cassa delle ammende, come previsto dall’art. 616 del codice di procedura penale.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 35744 Anno 2025
Penale Ord. Sez. 7 Num. 35744 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 30/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato a PALERMO il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 26/11/2024 della CORTE APPELLO di PALERMO
dato avviso alle parti; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
COGNOME NOME ricorre per cassazione avverso la sentenza in epigrafe indicata, con la quale è stato condannato per il reato di cui all’art. 249 cod.pen. per aver violato i sigilli dal RAGIONE_SOCIALE sulle celle frigorifere contenenti mezzene di suino, in a dell’effettuazioni di analisi.
Il ricorrente presenta un unico motivo di ricorso, violazione di legge e mancanza o manifest illogicità della motivazione della sentenza impugnata in ordine all’affermazione de responsabilità e alla qualificazione del ricorrente ora come socio di fatto della società RAGIONE_SOCIALE e ora come referente aziendale per gli operai, essendo il signor COGNOME NOME NOME della struttura.
La doglianza non rientra nel numerus clausus delle censure deducibili in sede di legittimit investendo profili di valutazione della prova e di ricostruzione del fatto riservati alla cog del giudice di merito, le cui determinazioni, al riguardo, sono insindacabili in cassazione ove s sorrette da motivazione congrua, esauriente ed idonea a dar conto dell’iter logico-giurid seguito dal giudicante e delle ragioni del decisum. Nel caso di specie, il giudice a qu evidenziato che il teste COGNOME COGNOME affermato che il ricorrente era continuamente present all’interno dell’azienda, che tutti prendevano ordini da lui, e di non aver mai visto i rappresentante COGNOME. Il giudice ha evidenziato che il ricorrente era nella disponibilità tithiavi dello stabilimento ed era perfettamente informato dell’apposizione dei sigilli, che referente dei lavoratori e dei medici, e che egli, al momento delle contestazioni dell’aper della cella su cui erano apposti i sigilli e della constatazione dell’assenza delle parti sottoposte a sequestro, non ha neppure indicato quale referente un altro soggetto.
Stante l’inammissibilità del ricorso, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., non ravvisan assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. Sent. n. 18 del 13/06/2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura, ritenuta equa, di 3.000 euro in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma il 30/05/2025
consigliere estensore
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Il Presidente