Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 17009 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 17009 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 02/04/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da
Liquori NOMECOGNOME nato a Napoli il 17/10/1982
avverso l’ordinanza del 03/01/2025 del Tribunale di Napoli;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con l’ordinanza impugnata, il Tribunale del riesame di Napoli ha confermato l’applicazione della custodia cautelare in carcere nei confronti di NOME COGNOME per il delitto di partecipazione, con il ruolo di “co-reggente”, al clan di “camorra” delle famiglie COGNOME–COGNOME, operante nel territorio dei comuni di Melito e Mugnano di quell’area metropolitana.
Il Tribunale ha fondato il proprio giudizio sulle dichiarazioni rassegnate dai collaboratori di giustizia, ritenute attendibili e convergenti tra loro sul partecipazione di COGNOME a quel sodalizio e sul ruolo di vertice da lui ricoperto
all’interno di esso, nonché riscontrate dalla condanna irrevocabile di costui per partecipazione a quel clan e ad altra associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, emessa dalla Corte di appello di Napoli nell’ottobre del 2018.
Ricorre avverso l’ordinanza di riesame l’indagato, con atto del proprio difensore, lamentando violazione di legge e vizi di motivazione, in quanto le dichiarazioni dei collaboranti sarebbero generiche, non convergenti, prive di riscontri individualizzanti, per lo più riguardanti notizie da essi apprese de relato nonché relative a periodi precedenti rispetto a quello cui si riferisce l’incolpazione (giugno 2021 – settembre 2024).
Quindi, il ricorso passa in rassegna le dichiarazioni di ciascuno di costoro, rilevando, con particolare riferimento a quelle ritenute più significative dal Tribunale, che quelle di NOME COGNOME sono caratterizzate da una «progressione accusatoria deduttiva», avendo egli riferito solo in via ipotetica del coinvolgimento di COGNOME nel sodalizio, senza indicare alcuna condotta concreta da questi tenuta; mentre quelle di NOME COGNOME, oltre a non contenere neanch’esse riferimenti a condotte specifiche dell’indagato, si presentano incoerenti, perché, se, da un lato, questo collaborante lo descrive come persona assai accorta e riservata, ne riferisce tuttavia la presenza in occasione dell’arrivo di un ingente carico di droga (episodio che, peraltro, non colloca nel tempo).
Inoltre, il riserbo del COGNOME, il suo atteggiamento distaccato e la sua scarsa propensione a prendere parte a riunioni con molti aderenti al clan, evidenziati dai collaboratori, mal si conciliano con il ruolo di “capo” attribuitogli, risultando perc illogica la motivazione dell’ordinanza impugnata.
Infine, il ricorso contesta la valenza, quale elemento di riscontro, della precedente condanna, poiché la partecipazione di COGNOME alla consorteria, con quella accertata, si ferma a luglio del 2014, data della sentenza di primo grado emessa in quel processo, ed egli è stato detenuto in carcere per quei reati, senza interruzioni, dal 2013 a giugno del 2022, potendo da ciò dedursi l’avvenuta rescissione di ogni suo legame con il sodalizio.
In conclusione, secondo la difesa, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia evidenzierebbero, al più, una semplice partecipazione del ricorrente a quel gruppo criminale, non trovando riscontro in alcuna sua condotta specifica l’affermazione del Tribunale secondo cui egli sarebbe stato dotato di «autonomia e discrezionalità decisionale».
Ha depositato requisitoria scritta il Procuratore generale, concludendo per l’inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile, perché proposto per motivi non consentiti in sede di legittimità.
Esso, infatti, non denuncia contraddittorietà o cesure logiche del percorso giustificativo del provvedimento impugnato, né evidenzia palesi fraintendimenti o pretermissioni di circostanze riferite dai collaboratori di giustizia e decisive per un diverso esito del giudizio, bensì si limita a pure e semplici manifestazioni di dissenso dalla valutazione di quei contributi dichiarativi compiuta dai giudici del riesame: i quali, invece, correttamente ne hanno evidenziato la convergenza sull’inserimento del COGNOME nei ranghi della consorteria, sulle regole di successione a vertici di essa (riservati ai più stretti familiari – come COGNOME, appunto – dei c storici) e sulla perdurante operatività della stessa anche in epoca successiva alla scarcerazione di esso ricorrente.
2.1. Peraltro, non è dato rilevare alcuna contraddizione logica tra il riserbo da lui osservato, la conseguente limitazione dei suoi contatti allo stretto giro del “luogotenenti” ed il suo ruolo di vertice, tanto più allorché si tratti, come nel caso in esame, di compagini criminali storiche, radicate sul territorio, con numerosi aderenti ed un’articolata struttura organizzativa, che perciò non necessita della presenza dei capi in occasione delle singole attività delittuose o di contatti personali tra gli stessi ed i loro manutengoli.
2.2. Nient’affatto illogica, inoltre, si presenta l’attribuzione di una valenza d elemento confermativo dell’accusa alla precedente sentenza definitiva di condanna. Benché riferita ad un arco di tempo significativamente anteriore a quello oggetto del presente procedimento, essa dev’essere valutata, infatti, al lume del dato di esperienza costituito dalla tendenziale perpetuità del vincolo mafioso, pur in pendenza di un periodo intermedio, più o meno lungo, di detenzione: caratteristica che è ancor più ragionevole attendersi nei casi, come quello in esame, di associazioni criminali a base familiare, nonché in assenza di qualsiasi dato di fatto di segno divergente.
2.3. Con riferimento, da ultimo, al ritenuto ruolo dirigenziale nell’ambito del sodalizio, deve rilevarsi che comunque non è ravvisabile un interesse dell’indagato a coltivare il relativo motivo di ricorso, non potendo a lui derivare alcun effetto favorevole dall’eventuale accoglimento dello stesso, una volta ritenuta la gravità indiziaria per la sua partecipazione a quell’associazione criminale: anche per il semplice partecipe, infatti, opera la presunzione di esistenza di esigenze cautelari e di esclusiva adeguatezza della custodia in carcere per la loro salvaguardia, di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen.; nonché identici sono i termini di durata
della misura cautelare (sull’esistenza di un interesse ad impugnare soltanto allorché l’impugnazione sia in concreto idonea a determinare, con l’eliminazione
del provvedimento impugnato, una situazione pratica più favorevole per chi la proponga, avuto riguardo alla prospettazione ivi rappresentata ed a prescindere
dall’effettiva fondatezza della pretesa azionata, vds. Sez. U, n. 28911 del
28/03/2019, Massaria, Rv. 275953).
3. L’inammissibilità del ricorso comporta obbligatoriamente – ai sensi dell’art.
616, cod. proc. pen. – la condanna del proponente al pagamento delle spese del procedimento e di una somma in favore della cassa delle ammende, non
ravvisandosi una sua assenza di colpa nella determinazione della causa d’inammissibilità (vds. Corte Cost., sent. n. 186 del 13 giugno 2000). Detta
somma, considerando la manifesta assenza di pregio degli argomenti addotti, va fissata in tremila euro.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen..
Così deciso in Roma, il 2 aprile 2025.