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Videosorveglianza pubblica: non serve autorizzazione

Un soggetto in custodia cautelare per reati di armi aggravati dal metodo mafioso, basati su prove video, ricorre in Cassazione contestando la legittimità della videosorveglianza pubblica senza autorizzazione del giudice. La Suprema Corte rigetta il ricorso, stabilendo che le riprese in luoghi pubblici costituiscono prova atipica ammissibile. Viene inoltre confermato che fornire un’arma a un’altra persona, con la consapevolezza del suo utilizzo, configura concorso nel reato di porto d’armi.

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Pubblicato il 26 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Videosorveglianza pubblica: quando è legittima senza autorizzazione del GIP?

La Corte di Cassazione, con una recente sentenza, torna a pronunciarsi su un tema di grande attualità e rilevanza: l’utilizzo della videosorveglianza pubblica come strumento di indagine. La decisione chiarisce i confini tra la necessità di accertare i reati e la tutela della privacy, confermando un principio fondamentale: le riprese effettuate in luoghi aperti al pubblico non necessitano di un’autorizzazione preventiva del giudice. Analizziamo insieme i dettagli di questo importante caso.

I fatti alla base del ricorso

Il caso trae origine da un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa nei confronti di un soggetto, indagato per detenzione e porto illecito di armi, con l’aggravante del metodo mafioso e di aver agevolato un’associazione criminale. Le indagini, scaturite da una faida tra gruppi rivali, si erano avvalse in modo determinante di telecamere installate dalla polizia giudiziaria che inquadravano una strada comunale e la finestra di un locale terraneo (“basso”), considerato la base logistica del gruppo.

Le immagini avevano ripreso l’indagato mentre passava un’arma a un complice attraverso la finestra e, in un’altra occasione, durante uno scambio di armi tra occupanti di due autovetture, una delle quali in uso allo stesso indagato. L’uomo, tramite il suo difensore, ha proposto ricorso in Cassazione lamentando tre principali violazioni.

I motivi del ricorso e la decisione della Corte

La difesa ha articolato il ricorso su tre punti principali:

1. Violazione procedurale: Si contestava la mancata trasmissione al Tribunale del riesame del decreto di autorizzazione alla videosorveglianza, ritenendolo un atto fondamentale.
2. Carenza di prove: Si sosteneva l’assenza di elementi a dimostrazione che l’indagato avesse effettivamente “portato” l’arma in luogo pubblico e si contestava la sussistenza dell’aggravante mafiosa.
3. Insussistenza delle esigenze cautelari: Si riteneva che la valutazione del pericolo di reiterazione del reato fosse errata.

La Corte di Cassazione ha rigettato integralmente il ricorso, fornendo importanti chiarimenti su ciascuno dei punti sollevati.

La legittimità della videosorveglianza pubblica come prova atipica

Sul primo e più significativo motivo, la Suprema Corte ha ribadito un orientamento consolidato. Le attività di videosorveglianza pubblica, ovvero quelle eseguite in luoghi esposti al pubblico e visibili da chiunque (come una strada, una piazza), rientrano nella categoria delle “prove atipiche” previste dall’art. 189 del codice di procedura penale.

Questo significa che, non comportando alcuna indebita intrusione nel domicilio o nella sfera di privata dimora di un individuo, tali attività non necessitano di un decreto di autorizzazione del Giudice per le Indagini Preliminari (GIP). L’operato della polizia giudiziaria in questi contesti è equiparabile a un’attività di appostamento e rientra nella sua autonomia investigativa. Di conseguenza, la mancata trasmissione di un eventuale (e non necessario) decreto autorizzativo è del tutto irrilevante ai fini dell’utilizzabilità delle prove raccolte.

Le motivazioni

La Corte ha smontato punto per punto le argomentazioni difensive. Per quanto riguarda il concorso nel reato di porto d’armi, i giudici hanno chiarito che non è necessario portare materialmente l’arma in un luogo pubblico per essere ritenuti responsabili. Nel caso di specie, l’indagato, custodendola e mettendola a immediata disposizione del complice con la piena consapevolezza che sarebbe stata portata all’esterno per essere utilizzata, ha fornito un contributo materiale e consapevole alla realizzazione del reato. Ha quindi agito come concorrente nel reato di porto d’armi.

In relazione all’aggravante mafiosa, la Corte ha dichiarato il motivo inammissibile per carenza di interesse, poiché l’accusa contestava sia il metodo mafioso sia l’agevolazione dell’associazione. Contestare solo una delle due declinazioni dell’aggravante non avrebbe portato alcun beneficio concreto all’indagato. Infine, riguardo alle esigenze cautelari, la motivazione del tribunale è stata ritenuta logica e congrua, data la gravità dei fatti, la disponibilità di armi in un covo e il contesto criminale di riferimento, elementi che rendono concreto e attuale il pericolo di reiterazione dei reati e giustificano la misura della custodia in carcere.

Le conclusioni

La sentenza in esame offre due importanti spunti di riflessione. In primo luogo, consolida il principio secondo cui la videosorveglianza in luoghi pubblici è uno strumento investigativo legittimo e utilizzabile anche senza un preventivo vaglio giurisdizionale, bilanciando efficacemente le esigenze di indagine con il diritto alla riservatezza, che in tali contesti subisce una naturale compressione. In secondo luogo, ribadisce un’interpretazione estensiva della nozione di concorso nel reato di porto d’armi, includendovi anche la condotta di chi, pur non muovendosi dal luogo di detenzione, rende l’arma disponibile a terzi per l’uso immediato. Una decisione che conferma la linea dura della giurisprudenza nei confronti dei reati legati alla criminalità organizzata.

Le riprese video in un luogo pubblico richiedono sempre l’autorizzazione di un giudice?
No, la Cassazione ha chiarito che le videoriprese in luoghi pubblici (come una strada) sono “prove atipiche” e non necessitano di autorizzazione preventiva del giudice, in quanto non ledono il domicilio o la privata dimora.

Chi custodisce un’arma per conto di altri e gliela consegna commette il reato di porto d’armi?
Sì, secondo la Corte, chi detiene armi per conto terzi e le consegna loro sapendo che le porteranno con sé, risponde di concorso nel reato di porto d’armi, anche se non le ha portate personalmente in luogo pubblico.

È possibile contestare in Cassazione la valutazione delle prove fatta dal giudice di merito?
No, il controllo della Corte di Cassazione è limitato alla legittimità del provvedimento. Non può riesaminare i fatti o sostituire la propria valutazione delle prove a quella del giudice di merito, a meno che la motivazione di quest’ultimo non sia manifestamente illogica o assente.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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