Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 1136 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 1136 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 22/09/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME nato il 20/09/1939
avverso la sentenza del 07/04/2022 della CORTE APPELLO di BARI
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
udito il Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’inammissibilità o, in subordine, il rigetto del ricorso.
Udito il difensore dell’imputato, Avv. COGNOME> NOME COGNOME il quale, riportandosi ai motivi di ricorso, ha insistito per l’accoglimento dello stesso.
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Ritenuto in fatto
1. È oggetto di ricorso la sentenza del 7 aprile 2022, con cui la Corte d’appello di Bari, pronunciandosi a seguito dell’annullamento con rinvio disposto dalla Corte di cassazione, ha confermato il giudizio di condanna di NOME COGNOME per i delitti di cui agli artt. 81, 110 cod. pen., 1 e 7 della I. 895 del 1967 e, limitatamente ai fatti commessi successivamentè al 30 aprile 2010, per il delitto di cui all’art. 12 della I. 110 del 1975, con aggravamento di entrambe le fattispecie ai sensi dell’art. 61 bis cod. pen., dichiarando non doversi procedere per intervenuta prescrizione in relazione ai restanti delitti di falso (ard. 459, 468, 469, 477, 482, 494 cod. pen.), e ha rideterminato la pena inflitta ir primo grado dal Tribunale di Trani in anni quattro e mesi di tre di reclusione ed euro 12.000 di multa.
Secondo la rubrica, l’imputato, in qualità di titolare di un’armeria (la RAGIONE_SOCIALE.) situata nella Repubblica di San Marino, ha venduto per corrispondenza, previo rilascio di nulla osta da parte della locale gendarmeria, una consistente quantità di armi da sparo (per un totale di 247 unità) a soggetti residenti in Italia e risultati inesistenti, ai quali non erano mai state rilasciate le licenze di porto d’armi allegate in copia alle richieste di acquisto. I reali destinatari delle armi, che non avevano provveduto a denunciarne la detenzione all’autorità di pubblica sicurezza italiana, erano stati individuati nelle persone di NOME COGNOME e NOME COGNOME soggetti residenti in Puglia, i quali avevano speso false generalità e avevano prodotto, per giustificare gli acquisti, copie di falsi documenti realizzati utilizzando come modello una licenza di porto di fucile, originariamente rilasciata a NOME COGNOME dalla Questura di Bari e successivamente revocata. Ciò rivelava -secondo l’ipotesi accusatoria- che l’imputato non aveva mai preso visione di alcun documento in originale idoneo a legittimare le transazioni commerciali.
In primo grado, l’imputato era stato altresì condannato per il reato associativo di cui all’art. 416 cod. pen., oltre che per vari reati-fine di falso e violazione di disciplina delle armi. A seguito di appello dell’imputato, la Corte di appello di Bari, con sentenza del 12 aprile 2018, aveva assolto l’imputato dal reato associativo di cui all’art. 416 cod. pen., per non aver commesso il fatto, e dalle residue imputazioni, perché il fatto non costitutiva reato. Avverso tale decisione, il Procuratore generale della Corte d’appello aveva proposto ricorso per cassazione, limitatamente alla assoluzione dell’imputato dai reati di falso e dai reati per violazione della disciplina delle armi, deducendo con unico mol:ivo violazione di legge e carenza di motivazione.
La Corte di cassazione, con sentenza del 17 maggio 2019, aveva accolto il ricorso del Procuratore generale, rilevando, nella motivazione della sentenza assolutoria della Corte d’appello, l’assenza di un adeguato confronto col percorso logico-argomentativo della sentenza di primo grado, con particolare riguardo al profilo – valorizzato dal Tribunale di Trani – della consapevole volontà dell’imputato di concorrere nei reati di falso e di illecita introduzione di armi comuni da sparo nel territorio italiano. Secondo la Cassazione, la Corte territoriale aveva trascurato l’esame puntuale degli obblighi derivanti dalla legge n. 40 del 13 marzo 1991, vigente, all’epoca dei fatti, nella Repubblica di San Marino e, più in particolare, dell’obbligo del titolare dell’armeria di identificare l’acquirente tramite un documento personale di riconoscimento e di verificare la titolarità, in capo allo stesso, di un valido titolo d’acquisto.
Avverso la sentenza -sopra indicata- della Corte d’appello del 7 aprile 2022, ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, per il tramite del proprio difensore, Prof. Avv. NOME COGNOME affidando le proprie censure ai cinque motivi di seguito enunciati nei limiti richiesti dall’art. 17:3 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con i primi due motivi, si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 110 cod. pen’ e alla legge n. 40 del 1991 della Repubblica di San Marino, non risultando da tale legge alcun obbligo in capo al titolare dell’armeria di procedere all’identificazione personale dell’acquirente, bensì soltanto un onere di fornire alla Gendarmeria la documentazione acquisita. Dal combinato disposto dei primi quattro articoli della legge citata, si evincerebbe che l’unico obbligo di controllo incombe sulla Gendarmeria, che deve rilasciare un nulla-osta alla vendita, ciò che, nel caso di specie, puntualmente era avvenuto. Inconferente, pertanto, sarebbe il rilievo della Corte territoriale, che ha definito l’imputato quale “esperto nel settore delle armi”, con ciò intendendo riferirsi alla competenza dello stesso in tema di normativa sulla vendita di armi e con riguardo al significato da attribuire alle relative disposizioni legislative. Alla specificità de motivo di appello su tali profili, la Corte d’appello avrebbe replicato con una motivazione del tutto carente.
2.2 Con il terzo motivo, si eccepisce violazione di legge in riferimento alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo dei reati contestati, nonché vizio di motivazione, per avere la Corte territoriale trascritto interi brani di motivazione della sentenza di primo grado, in luogo di argomentare adeguatamente in relazione ai motivi di doglianza, e per avere evitato il rinnovato esame del materiale probatorio. Nel rendere una motivazione puramente apparente, la Corte d’appello non avrebbe adempiuto al peculiare dovere motivazionale che incombe sul giudice del rinvio, a seguito di annullamento da parte della Cassazione.
2.3 U quarto motivo ha a oggetto la contestata circostanza aggravante di cui all’art. 61 bis cod. pen., ritenuta non soggetta al giudizio bilanciamento ex art. 69 cod. pen. Entrambi i profili sono censurati dal ricorrente, non ricorrendo il requisito, indicato da Sez. U. Adami del 2013 (n. 18374 del 31/01/2013, Rv. 255038 – 01), della immedesimazione tra il gruppo criminale organizzato transnazionale e l’associazione a delinquere di cui all’art. 416 cod. pen. Neppure ricorrerebbe il requisito di una dinamica solidale che possa essere sussunta nella definizione di “gruppo criminale organizzato”, a partire da quello della “stabilità degli adepti”. L’errore nell’applicazione del diritto e l’incongruenza motivazionale sono argomentati dalla difesa muovendo dalla sentenza di assoluzione, pronunciata in secondo grado di giudizio, in relazione al reato di associazione a delinquere. Atteso che tale punto non è stato oggetto di ricorso del Procuratore generale davanti la Cassazione, esso – osserva il ricorrente – deve ritenersi ormai definito e passato in giudicato. La Corte territoriale, nell’impugnata sentenza, avrebbe dovuto quantomeno motivare in ordine alla circostanza della transnazionalità in termini diversi da quanto fatto in primo grado, anziché reiterare ì motivi così come esposti dal Tribunale di Trani. Per i medesimi motivi, si censura anche l’esclusione della contestata circostanza aggravante dal giudizio bilanciamento con le concesse attenuanti generiche.
2.4 Col quinto e ultimo motivo, ci si duole di violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento al computo e all’applicazione degli aumenti di pena inflitti per effetto del riconoscimento della continuazione cd. interna ed esterna ex art. 81 cod. pen., in quanto computati con unico aumento generico per tutti i reati in continuazione.
All’udienza del 22 settembre 2023 si è svolta trattazione orale del ricorso. Il Sostituto Procuratore generale, Dott. ssa NOME COGNOME ha chiesto pronunciarsi l’inammissibilità o, in subordine’ il rigetto del ricorso. La difesa dell’imputato ha insistito per l’accoglimento dei motivi di ricorso.
Considerato in diritto
I primi due motivi sono manifestamente infondati, eludendo, il ricorrente, il confronto critico ed effettivo con le argomentazioni -giuridicamente corrette e prive di vizi logici- adoperate dalla Corte d’appello per disattendere le censure difensive.
Sulla base di una ben ponderata interpretazione del combinato disposto dell’art. 17 del d. Igs. n. 110 del 1975, da un lato, e della legge n. 40 del 1991 della Repubblica di San Marino, dall’altro, la Corte territoriale ha coerentemente
ritenuto che l’imputato abbia violato il divieto di vendita d’armi per corrispondenza (posto nel citato art. 17 della legge interna che ne consentiva -all’epoca dei fatti, prima delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 104 del 2018- e ne consente tuttora l’effettuazione solo al ricorrere di stringenti condizioni certamente insussistenti nella specie), non ottemperando al dovere di verificare direttamente la reale identità personale degli acquirenti e destinatari delle armi, nonché l’effettiva titolarità, in capo agli stessi, di validi titoli di acquisto rilasciati dalle compete autorità italiane di pubblica sicurezza (si veda, a tal proposito, l’art. 12 della I. n. 110 del 1975, intitolato Importazione definitiva di armi comuni da sparo, per il riferimento alle licenze e autorizzazioni di cui l’importatore di armi deve necessariamente munirsi).
Contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, dall’interpretazione -sia letterale sia sistematica- delle citate disposizioni (oltre che delle norme di cui agli artt. 31 e 31 bis del r.d. n. 773 del 18 giugno 1931) deve desumersi non già l’onere, bensì l’obbligo, in capo al venditore-titolare dell’armeria, di procedere all’identificazione personale dell’acquirente e alla verifica dell’effettiva titolarità, i capo allo stesso, di validi titoli di acquisto rilasciati dalle competenti autorità italiane di pubblica sicurezza, in vista della realizzazione di una cooperazione con gli organi pubblici preposti alla verifica della legale e trasparente circolazione delle armi e alla compiuta identificazione dei loro acquirenti.
La medesima istanza di controllo è posta dagli artt. 1 e 2 della I. n.40 del 1991 della Repubblica di San Marino: norme non già facoltizzanti, bensì tese a rimarcare gli obblighi del venditore di armi in tema di identificazione, esibizione e registrazione dei documenti che autorizzino il legittimo possesso in capo agli acquirenti. Il ricorrente, pur citando tutti gli articoli della legge in parola, focalizza l’attenzione, innanzi tutto, sull’ultimo comma dell’art. 1, a mente del quale il Comando della Gendarmeria è tenuto a compiere tutti gli accertamenti ritenuti opportuni sulla autenticità, la veridicità e la validità dei documenti personali di riconoscimento di cui al secondo comma, chiedendo anche che sia esibita e conservata fotocopia degli stessi.
La previsione di tali controlli è la diretta conseguenza del fatto che l’armiere non ha il monopolio della verifica della legittimità dei titoli e giustifica le attivit pubblicistiche di controllo dell’operato del primo da parte della Gendarmeria. Da ciò, tuttavia, come si diceva in principio, non può affatto desumersi l’esonero dell’armiere dal dovere dei necessari controlli in sede di compravendita delle armi, quali si evincono dalla doverosa tenuta del registro di carico e scarico di cui al citato secondo comma dell’art. 1, che non può – a meno di renderlo, illogicamente, un adempimento meramente burocratico e nonostante la specifica tipologia dei beni oggetto delle transazioni e la loro intrinseca pericolosità – che essere
accompagnato dalla concreta verifica dell’identità del soggetto acquirente e della sua coincidenza con il titolare del titolo abilitativo.
Si legge appunto, nell’art. 1, secondo comma, che “ogni operatore economico abilitato al commercio all’ingrosso o al dettaglio di armi da fuoco è obbligato a tenere un registro ed uno schedario, controfirmati in ogni pagina ed in ogni scheda dal Comando della Gendarmeria, indicanti il carico delle armi e le operazioni giornaliere. Nel registro e sullo schedario dovranno essere trascritti tutti gli elementi di identificazione e la provenienza di ogni arma, le generalità e il domicilio delle persone con le quali le operazioni di carico e di scarico vengono compiute, il numero e la data di rilascio di un documento personale di riconoscimento con l’indicazione dell’ente, autorità o ufficio che l’ha rilasciato”.
La migliore riprova dell’esattezza di tale lettura si trae – ma trattasi di indicazione meramente esemplificativa, posto che l’interpretazione qui sostenuta riposa sul significato dell’art. 1, secondo comrna della legge – dall’art. 2, primo comma, della legge citata, a norma del quale “per la vendita, da parte degli operatori economici di cui all’articolo precedente, di armi lunghe con canna o canne ad anima liscia – ed altresì per la vendita di armi lunghe con canna o canne ad anima rigata purché a ripetizione ordinaria – è richiesta l’esibizione e la registrazione del documento che ne autorizzi d legittimo possesso. In difetto la vendita può essere autorizzata soltanto dal nulla osta del Comando della Gendarmeria, previo il controllo e la registrazione dei documenti di cui all’art. 1”.
Che tali obblighi non siano stati adempiuti dal ricorrente è stato adeguatamente esplicato nelle due sentenze di merito, dove, non a caso, si è altresì ricordato come l’imputato abbia tenuto a precisare -falsamente- di aver visto fisicamente le persone intenzionate ad acquistare le armi -ciò che, razionalmente, la Corte d’appello ha inteso come indice della consapevolezza dell’imputato della cogenza degli obblighi in parola- benché tale dichiarazione sia stata smentita da tutti gli atti di causa, secondo l’accertamento dei giudici di merito.
Il terzo motivo è inammissibile per manifesta infondatezza e assenza di specificità, dal momento che, alla luce delle modalità operative sopra ricordate e in assenza di qualunque ragionevole spiegazione alternativa, razionalmente la Corte territoriale ha desunto la piena coscienza e volontà dell’imputato di porre in essere i reati attribuitigli -e, in particolare, di ricevere ordinativi di armi da soggetti in realtà inesistenti e di ricevere via fax documenti contraffatti- da una serie di indizi compiutamente elencati nelle pagine da 11 a 14 della sentenza impugnata, con i quali il ricorso omette di confrontarsi in termini puntuali.
Il quarto motivo è inammissibile per manifesta infondatezza e assenza di specificità, dal momento che la circostanza aggravante della transnazionalità anche a prescindere dalle preclusioni che avevano indotto la sentenza di annullamento con rinvio a darne per accertata l’esistenza ai fini del calcolo della prescrizione demandato al giudice del rinvio – non ha perso il proprio fondamento a seguito dell’assoluzione per il reato associativo.
Come chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte (Sez. U, n. 18374 del 31/01/2013, COGNOME, Rv. 255035 – 01, in motivazione), quanto alla nozione “gruppo criminale organizzato” – che il legislatore non ha ritenuto di definire – non può che farsi riferimento alla definizione offerta dalla stessa Convenzione, che, del resto, proprio in forza della legge di ratifica ed esecuzione n. 146 del 2006, è stata recepita, nella sua interezza, nel nostro ordinamento giuridico. Orbene, a mente dell’art. 2, punto a) della cosiddetta TOC Convention, “gruppo criminale organizzato” è «un gruppo strutturato, esistente per un periodo di tempo, composto da tre o più persone che agiscono di concerto al fine di commettere uno o più reati gravi o reati stabiliti dalla presente convenzione, al fine di ottenere, direttamente o indirettamente, un vantaggio finanziario o un altro vantaggio materiale». Il punto e) dello stesso art. 2, reca, poi, la definizione di “gruppo strutturato”, da intendere come gruppo «che non si è costituito fortuitamente per la commissione estemporanea di un reato e che non deve necessariamente prevedere ruoli formalmente definiti per i suoi membri, continuità nella composizione o una struttura articolata».
Si tratta, allora, di nozione composita, dai tratti descrittivi ben distinti da quelli che connotano le nozioni di concorso di persone nel reato di cui all’art. 110 cod. pen. e di associazione per delinquere di cui all’art. 416 cod. pen. “Gruppo organizzato” è, in altri termini, certamente, un quid pluris rispetto al mero concorso di persone (Sez. 6, n. 7470 del 21/01/2009, COGNOME, Rv. 243038), ma è – con pari certezza – un minus rispetto alla associazione per delinquere. Per la sua configurazione è, infatti, richiesta soltanto una certa stabilità dei rapporti, un minimo di organizzazione senza formale definizione dei ruoli, la non occasionalità o0 estemporaneità della stessa; invece, ai fini della configurazione del reato di cui all’art. 416 cod. pen., anche alla luce di ricorrente lettura cli questa Corte, occorrono un’articolata organizzazione strutturale, seppure in forma minima od elementare, tendenzialmente stabile e permanente, una precisa ripartizione dei ruoli e la pianificazione di una serie indeterminata di reati (tra le altre, Sez. 6, n. 3886 del 07/11/2011, dep. 2012, Papa, Rv. 251562).
Il quinto motivo è inammissibile per assenza di specificità, poiché del tutto genericamente critica la modalità di calcolo degli aumenti in continuazione senza
introdurre in termini puntuali la questione della congruità della pena, alla luce delle precisazioni operate in motivazione da Sez. U, n. 47127 del 24/06/2021, COGNOME, Rv. 282269 – 01 (par. 10 del Considerato in diritto, che, pur riferito all’appello, contiene principi che valgono a identificare il requisito della specificità delle impugnazioni in generale).
Alla pronuncia di inammissibilità consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 22/09/2023
Il Consigliere estensore
Il Presidente