Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 23202 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 23202 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 05/03/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME COGNOME, nato a Sorrento il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 16/11/2022 della Corte di appello di Napoli
Visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso; udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME; letta la requisitoria del AVV_NOTAIO NOME COGNOME, che ha concluso chiedendo di rigettare il ricorso
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 16 novembre 2022 la Corte di appello di Napoli, in riforma della sentenza emessa il 29 settembre 2020 dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere nei confronti di NOME COGNOME, ha rideterminato la pena nella misura di anni diciassette di reclusione ed euro 16.300,00 di multa e ha
confermato nel resto la pronuncia impugnata, con cui l’imputato è stato condannato per i reati di cui ai capi a), c), d) ed e).
L’imputato è stato ritenuto responsabile per aver fatto parte, con la qualifica di promotore e organizzatore, del RAGIONE_SOCIALE, operante nella zona di San Cipriano D’Aversa e comuni limitrofi, inizialmente quale luogotenente, braccio destro di NOME COGNOME, e, successivamente alla collaborazione con la giustizia quest’ultimo, quale capo delle altre famiglie componenti la stessa associazione sull’intera provincia di Caserta e zone vicine. È stato ritenuto responsabile, inoltre, dei reati di violenza privata e di estorsione ai danni dei NOME COGNOME e di un’altra estorsione ai danni di NOME COGNOME, tutti aggravati dal metodo mafioso e dal fine di agevolare il RAGIONE_SOCIALE.
Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, che ha dedotto i motivi di seguito indicati.
3.1. Violazione ed erronea applicazione degli artt. 192, comma 1, 530 e 533 comma 1, 546, lett. e), cod. proc. pen. nonché motivazione illogica e contraddittoria anche per travisamento della prova, con riferimento a tutti i capi di imputazione. Secondo il ricorrente, la condanna relativamente ai reati di cui ai capi c), d) ed e) sarebbe stata fondata soltanto sulle captazioni e dichiarazioni delle persone offese, senza il rispetto dei criteri di valutazione delle loro dichiarazioni. La motivazione in ordine alla condanna per il reato associativo sarebbe illogica e contraddittoria, perché avrebbe ritenuto che le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e le sentenze di condanna, pur se risalenti nel tempo, fossero sufficienti ad ancorare la condotta del ricorrente al contesto attuale di riferimento, addirittura con il ruolo di capo organizzatore. La Corte territoriale non avrebbe valutato, inoltre, la circostanza secondo cui, per i giudici del merito, il ricorrente avrebbe partecipato personalmente agli episodi contestati e tale dato contrasterebbe con l’attribuito ruolo di organizzatore. Inoltre, le sentenze di condanna non potrebbero avere rilievo in quanto non concernenti vicende legate alla criminalità organizzata.
3.2. Nullità della sentenza per violazione ed erronea applicazione dell’art. 500 cod. proc. pen. con riferimento a tutti i capi di imputazione e conseguente violazione degli artt. 530 e 533 cod. proc. pen. nonché motivazione illogica per omessa valutazione comparativa delle dichiarazioni rilasciate al Pubblico ministero con quelle rese in dibattimento. La Corte di appello avrebbe trascurato di considerare che, a seguito delle contestazioni, la testimonianza della persona offesa sarebbe ambigua, incerta e non supererebbe il ragionevole dubbio.
3.3. Violazione ed erronea applicazione degli artt. 192, commi 1, 2, 3, 530 e 533, comma 1, 546, lett. e), cod. proc. pen. nonché motivazione illogica e contraddittoria con riferimento al reato di violenza privata ai danni dei NOME COGNOME (capo c). La Corte di appello avrebbe omesso di considerare le dichiarazioni di NOME COGNOME, contrastanti con quelle di NOME COGNOME in ordine alla responsabilità del ricorrente.
3.4. Violazione ed erronea applicazione degli artt. 192, comma 1, 530 e 533, comma 1, 546, lett. e), cod. proc. pen. nonché motivazione illogica e contraddittoria con riferimento al reato di tentata estorsione ai danni dei NOME COGNOME (capo d). La Corte di appello non avrebbe dato risposta al rilievo difensivo secondo cui il COGNOME, di cui parlano i NOME COGNOME nella conversazione intercettata, fosse NOME COGNOME, fratello del più noto NOME COGNOME, come si desumerebbe dal riferimento che i conversanti avevano fatto ai NOME del COGNOME detenuti, mentre i NOME del ricorrente sono incensurati.
3.5. Violazione ed erronea applicazione degli artt. 192, comma 1, 530 e 533, comma 1, 546, lett. e), cod. proc. pen. nonché motivazione illogica e contraddittoria con riferimento al reato di estorsione ai danni di NOME COGNOME (capo e). La Corte di appello avrebbe travisato la captazione trascritta, da cui non emergerebbe un intervento del ricorrente nella vicenda.
3.6. Violazione ed erronea applicazione degli artt. 62 bis e 133 cod. pen., per non avere la Corte territoriale, nel negare le attenuanti generiche, considerato gli elementi specifici, dedotti dalla difesa, e la condotta effettiva dell’imputato, che non avrebbe usato violenza o minaccia.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
Il primo motivo è, in parte, privo di specificità e, in parte, teso a sollecitare una diversa e non consentita rivalutazione degli elementi probatori, posti a base dell’affermazione della responsabilità per il delitto associativo.
2.1. Deve essere disattesa, in primo luogo, la censura concernente la valutazione delle dichiarazioni delle persone offese dei reati fine, che la Corte territoriale avrebbe posto a fondamento della responsabilità dei reati fine, pur non avendo effettuato un vaglio penetrante e pur non essendovi riscontri esterni.
La doglianza muove da una interpretazione non corretta dei principi dettati da questa Corte in tema di testimonianza.
Al riguardo, secondo l’orientamento oramai consolidato, la deposizione della persona offesa può essere assunta, anche da sola, come prova della
responsabilità dell’imputato, purché sia sottoposta a vaglio positivo circa la sua attendibilità e senza la necessità di applicare le regole probatorie di cui all’art. 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen., che richiedono la presenza di riscontri esterni; tuttavia, qualora la persona offesa si sia anche costituita parte civile e sia, perciò, portatrice di pretese economiche, il controllo di attendibilità deve essere più rigoroso rispetto a quello generico cui si sottopongono le dichiarazioni di qualsiasi testimone e può rendere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi (ex multis: Sez. 5, n. 12920 del 13/02/2020, Ciotti, Rv. 279070 – 01).
Contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, secondo cui sarebbero sempre necessari un controllo rinforzato e i riscontri, tuttavia, il senso di tali principi è quello di imporre un vaglio più rigoroso dell’attendibilità solo nell’ipotesi del testimone costituitosi parte civile e portatore di un astratto interesse a rilasciare dichiarazioni etero accusatorie (ipotesi che non ricorre nella specie, non essendosi le persone offese costituite parti civili). Anche in tal caso, però, non si nega l’autonomo valore probatorio delle dichiarazioni ma, qualora possa risultare opportuna l’acquisizione di positive conferme esterne, queste possono consistere in qualsiasi elemento idoneo a escludere l’intento calunniatorio del dichiarante, non dovendo risolversi in autonome prove del fatto, né assistere ogni segmento della narrazione.
Ad ogni modo, la doglianza difetta di specificità, atteso che si limita a richiamare i principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di testimonianza resa dalla persona offesa, anche in caso di sua costituzione come parte civile, senza effettuare alcun riferimento specifico al vaglio positivo, compiuto in modo conforme da entrambi i Giudici del merito, in ordine alla credibilità soggettiva e oggettiva delle persone offese escusse, che – come detto – neanche si sono costituite parti civili, e senza specificamente illustrare le ragioni per cui l’iter logico-giuridico, che ha condotto i Giudicanti alla soluzione adottata, fosse viziato e suscettibile di sindacato da parte di questa Corte.
2.2. Con riguardo alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia poste a fondamento dell’affermazione della responsabilità per il reato associativo, invece, la deduzione difensiva, nel sottolineare che i menzionati collaboratori avevano riferito circostanze relative a eventi non attuali, non mette invero in discussione il vaglio di attendibilità compiuto dalla Corte territoriale, ma contesta la valenza probatoria attribuita alle anzidette dichiarazioni in relazione ai fatti di causa: valenza che, per le ragioni che si diranno, è stata correttamente e concordemente riconosciuta da entrambi i giudici del merito.
2.3. Deve rilevarsi, in secondo luogo, che, contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente sempre nel primo motivo del ricorso, nessun appunto può
muoversi alla sentenza impugnata laddove ha confermato la responsabilità del ricorrente per il reato associativo.
La Corte di appello ha rilevato che l’articolazione territoriale, già capeggiata da NOME COGNOME e NOME COGNOME, era stata oggetto di accertamento con sentenza emessa dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere il 12 giugno 2012, che ha riconosciuto l’esistenza e l’operatività del RAGIONE_SOCIALE di camorra facente capo, nel periodo considerato, a COGNOME NOME, operante nei territori di Napoli e Caserta con estensione delle attività economiche in regime monopolistico anche nel Lazio ed altre zone del territorio nazionale, quale gruppo confederato nella più ampia organizzazione camorristica denominata RAGIONE_SOCIALE.
La partecipazione del ricorrente al sodalizio era stata affermata da numerosi collaboratori di giustizia. Estremamente rilevanti e qualificate, poiché provenienti dall’ex capo promotore del sodalizio criminoso, secondo la Corte d’appello, erano le propalazioni di NOME COGNOME, divenuto nelle more collaboratore di giustizia, stante la diretta conoscenza del contesto associativo riferibile al gruppo criminale capeggiato dallo stesso fino a un’epoca non molto risalente (la scelta collaborativa è del 13 maggio 2014). NOME COGNOME, nel ricostruire l’organigramma del gruppo, aveva definito NOME COGNOME uomo a sua disposizione, a lui strettamente legato nella direzione del RAGIONE_SOCIALE, e aveva dichiarato sia di avergli affidato anche la gestione delle armi nella disponibilità del RAGIONE_SOCIALE sia di averlo incontrato durante i periodi di comune latitanza: privilegio riservato soltanto a poche persone entrate nel gruppo. A lui COGNOME, percettore di uno stipendio, poteva rivolgersi per qualunque necessità condividendo la direzione del RAGIONE_SOCIALE.
Analoga importanza la Corte di appello ha attribuito alle dichiarazioni di NOME COGNOME, che aveva confermato l’affiliazione di COGNOME al RAGIONE_SOCIALE, evidenziandone il ruolo apicale e definendolo quale braccio destro di NOME COGNOME, aggiungendo che, in qualità di gestore della cassa unitaria del RAGIONE_SOCIALE tra il 2010 e il 2014, COGNOME percepiva lo stipendio.
Anche altri collaboratori avevano riferito della partecipazione dell’imputato al RAGIONE_SOCIALE, tra cui NOME COGNOME, uomo del gruppo di NOME COGNOME e detentore per un breve periodo della cassa del RAGIONE_SOCIALE, il quale aveva riferito che verso la metà del 2015 aveva incontrato NOME COGNOME, da cui aveva appreso che questi aveva già ricostituito un gruppo camorristico capitanato da NOME COGNOME.
Oltre alle significative propalazioni di NOME COGNOME, anche NOME COGNOME e NOME COGNOME avevano confermato la continuità della permanenza nell’associazione dell’imputato nei periodi successivi all’arresto di quest’ultimo. NOME COGNOME, infatti, aveva riferito che era stato compulsato da tale NOME COGNOMEo putecaro” per il pagamento dello stipendio a COGNOME, avendo questi preso in
mano le redini dell’organizzazione criminale a seguito dell’arresto di NOME COGNOME nel novembre 2010; NOME COGNOME aveva riferito di una riunione tenutasi nel giugno del 2016 a cui sarebbe stato presente il ricorrente per individuare l’elenco dei detenuti al 41 bis, cui far pervenire lo stipendio e per gestire le estorsioni sui cantieri nei territori sottostanti al controllo egemonico del RAGIONE_SOCIALE. NOME COGNOME, poi, aveva ricostruito il quadro organizzativo criminale sussistente al momento della sua scarcerazione nell’anno 2014, individuando l’imputato come referente del RAGIONE_SOCIALE nella zona di San Cipriano d’Aversa.
La Corte di appello ha rimarcato, quindi, che le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, oltre ad essere convergenti sulla partecipazione associativa del ricorrente con un ruolo di vertice e a riscontrarsi reciprocamente, risultavano confermate dai provvedimenti giudiziari versati in atti e consentivano di accertare la permanente militanza dell’imputato nel RAGIONE_SOCIALE nel periodo 2005-2018, tenuto conto dei tre mesi di latitanza da maggio a luglio 2018, del sequestro nel 2018 delle armi a lui riconducibili.
Alla luce di siffatte argomentazioni deve rilevarsi che la Corte di appello ha ritenuto il ricorrente partecipe dell’associazione anche nel periodo successivo alla sua scarcerazione, avvenuta nel 2013, dopo essere stato arrestato in data 11 febbraio 2010, e ciò sulla base delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, passate in rassegna, da cui emergono con evidenza il contenuto di novità dei menzionati contributi dichiarativi e l’infondatezza dell’assunto difensivo, reiterato in questa sede, teso a sminuire la portata dimostrativa di tali contributi, ritenuti generici, assertivi, riferiti a conoscenze di informazioni già acquisite agli atti d altri precedenti processi e, dunque, costituenti un patrimonio conoscitivo noto.
Deve rilevarsi, inoltre, che la Corte territoriale, al pari del primo Giudice, ha individuato fatti concreti rivelatori dello stabile inserimento del ricorrente con un ruolo attivo nel sodalizio, avendo ritenuto provato che egli aveva offerto un contributo significativo alla sopravvivenza dell’associazione, partecipando attivamente alla realizzazione delle condotte con le quali sul territorio si manifestava l’egemonia del gruppo criminale. Durante il periodo di detenzione, peraltro, egli aveva continuato a percepire lo stipendio dal RAGIONE_SOCIALE, come riferito da più collaboratori, a riprova della sua persistente, reiterata adesione ai valori e alle attività dell’associazione di stampo mafioso, in cui risultava stabilmente inserito.
Di contro, al cospetto della motivazione della sentenza impugnata il ricorrente non ha individuato passaggi o punti della decisione idonei a disarticolare o, comunque, a porre in crisi la complessiva tenuta del discorso logico-argomentativo delineato dal Collegio d’appello, limitandosi a svilire il narrato dei collaboratori e così sollecitando questa Corte a effettuare
un’inammissibile rivisitazione di tipo alternativo, ovvero una rilettura di merito, del complesso delle emergenze probatorie: operazione incompatibile con la natura del giudizio di legittimità.
3. Il secondo motivo è privo di specificità.
Il ricorrente ha dedotto la violazione dell’art. 500 cod. proc. pen., senza però indicare specificamente in relazione a quale prova assunta ed utilizzata al fine della decisione i Giudici di merito fossero incorsi in tale violazione e quale fosse l’incidenza di essa nel complessivo compendio probatorio, ricco ed articolato.
Il terzo, quarto e quinto motivo, con cui il ricorrente ha reiterato censure in ordine all’affermazione della sua responsabilità per i delitti fine contestatigli sono tesi a sollecitare un’inammissibile rivalutazione degli elementi probatori con particolare riferimento alle conversazioni intercettate, trascurando però di considerare che la giurisprudenza di questa Corte (tra le tante, Sez. 6, n. 17619, dell’8/01/2008, Gionta, Rv. 239724 – 01) è ferma nel ritenere che, in tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, l’interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, è questione di fatto rimessa all’apprezzamento del giudice di merito e si sottrae al giudizio di legittimità se – come nel caso in esame – la valutazione risulta logica in rapporto alle massime di esperienza utilizzate.
Né può convenirsi con il ricorrente sull’inadeguatezza della motivazione della sentenza impugnata, emergendo, invece, da essa che la Corte di appello ha analiticamente e diffusamente passato in rassegna gli elementi probatori posti a base del giudizio di colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio e ha avuto cura di disattendere le deduzioni difensive.
Con riguardo al reato di cui al capo c), infatti, la Corte di Appello, richiamate le dichiarazioni rese dal teste oculare, sentito ex art. 210 cod.proc. pen., ha evidenziato gli elementi di riscontro emergenti dal contenuto di un colloquio, captato nella Casa circondariale di Napoli Secondigliano, e dal contenuto delle conversazioni intercettate, comprovanti gli interventi minatori posti in essere dall’imputato.
Con riferimento al reato di cui al capo d), il Collegio di appello ha espressamente dato risposta al rilievo difensivo secondo cui il NOME, cui si fa riferimento in una intercettazione, non sarebbe il ricorrente. Dalla lettura della intera conversazione la Corte territoriale ha desunto che il colloquio verteva su tale NOME, che voleva incominciare a comandare e prendere il posto del fratello, che era detenuto in carcere, mentre NOME andava inteso come COGNOME
NOME COGNOME, la cui autorità come capo risultava indiscussa e riconosciuta. Emblematico, come particolare individualizzante, era poi il riferimento alla bicicletta, che il soggetto indicato come NOME soleva utilizzare. Invero, COGNOME, all’atto della scarcerazione, era stato sottoposto alla sorveglianza speciale di Pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno nel comune di residenza e gli era stata revocata la patente di guida.
Corroboravano tale dato la conversazione del 2 maggio 2017, in cui NOME COGNOME, intercettato, aveva parlato della bicicletta che utilizzava in passato e dell’intenzione di acquistarne un’altra, nonché la successiva conversazione del 3 luglio 2017 tra NOME COGNOME e il rivenditore.
Con riferimento al reato di cui al capo e), la Corte di appello, dando risposta ai rilievi difensivi, in relazione, in particolare, alla dedotta sussistenza del riconducibilità a pregressi rapporti tra le parti delle richieste, ha operato una lettura delle conversazioni utilizzate e delle immagini delle videocamere, dalle quali emergeva il tentativo di rintraccio della persona offesa, la prospettazione di un’azione violenta, l’invio, poi risultato decisivo, a casa della persona offesa di un altro soggetto, compagno del ricorrente.
La motivazione della sentenza impugnata sfugge, dunque, a ogni rilievo censorio, non presentando affatto quegli aspetti di carenza, contraddittorietà o macroscopica illogicità del ragionamento del giudice di merito che, alla stregua del consolidato insegnamento elaborato da questa Corte, potrebbero indurre a ritenere sussistente il vizio di cui alla lett. e) del comma primo dell’art. 606 cod. proc. pen. (anche nella sua nuova formulazione).
5. Il sesto motivo è privo di specificità.
La Corte di appello, nel disattendere la richiesta di concessione delle attenuanti generiche, tenuto conto, in particolare, del ruolo di spicco rivestito dall’imputato nell’ambito della consorteria criminosa, in quanto fedelissimo di NOME COGNOME, suo luogotenente ed alter ego, si è correttamente conformata al consolidato orientamento di questa Corte, per la quale, al fine di ritenere o escludere la configurabilità delle attenuanti generiche, il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente e atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio: anche un solo elemento, attinente alla personalità del colpevole o all’entità del reato e alle modalità di esecuzione di esso, può, pertanto, risultare all’uopo sufficiente (così, ex multis, Sez. 2, n. 23903 del 15/7/2020, COGNOME, Rv. 279549 – 02; Sez. 2, n. 3609 del 18/1/2011, COGNOME e altri, Rv. 249163 01).
Di contro, il ricorrente si è limitato ad affermare che non era st commesso alcun tipo di violenza o di minaccia, senza però confrontarsi con gli specifici elementi valorizzati dalla Corte di appello al fine del diniego menzionate circostanze.
In definitiva, il ricorso è inammissibile e ciò comporta, ai sensi del 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spes processuali nonché – non sussistendo ragioni di esonero (Corte cost., 13 giugno 2000 n. 186) – della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende a titolo di sanzione pecuniaria.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento dell spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa dell ammende.
Così deciso il 5/3/2024