Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 30443 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 1 Num. 30443 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 14/05/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D’APPELLO DI ROMA nel procedimento a carico di: COGNOME NOME nato a LATINA il 09/02/1986 inoltre: COMUNE DI LATINA
avverso la sentenza del 10/10/2024 della CORTE RAGIONE_SOCIALE di ROMA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
uditi i difensori:
avvocato NOME COGNOME che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso;
avvocato COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
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RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza emessa in data 27 novembre 2023, la Corte di assise di Latina dichiarava NOME COGNOME responsabile del delitto di omicidio volontario premeditato in danno di NOME COGNOME, commesso a Borgo Sabotino (LT) 1’8 marzo 2014 in concorso con NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME NOME COGNOME – già giudicati separatamente e condannati con sentenze irrevocabili – e, esclusa l’aggravante di cui all’art. 416-bis.l. cod. pen., concesse le attenuanti generiche, ritenute equivalenti alle residue contestate aggravanti (della premeditazione e della recidiva), lo condannava alla pena di ventuno anni di reclusione, con le pene accessorie di legge e le statuizioni civili.
Con la medesima sentenza il coimputato NOME COGNOME veniva assolto per non aver commesso il fatto.
L’affermazione di penale responsabilità dell’imputato veniva fondata dalla Corte di Latina sulle dichiarazioni accusatorie rese dai collaboratori di giustizia NOME COGNOME e NOME COGNOME siccome corroborate da plurimi elementi di riscontro.
NOME COGNOME aveva assecondato la volontà, esternatagli da NOME COGNOME di uccidere il COGNOME, con il quale era maturato un contrasto legato a un giro di prostituzione, approvando l’omicidio e dando ad esso, al contempo, un contributo materiale essenziale.
Quanto al primo aspetto, il consenso di COGNOME all’omicidio doveva considerarsi essenziale per i fratelli COGNOME, avendo costoro la necessità, per commettere un delitto così grave nel territorio di Latina, di avere l’assenso e il supporto di una personalità criminale pari a quella dell’imputato, con il quale NOME COGNOME aveva uno stretto rapporto collegato al traffico di stupefacenti.
Inoltre, i due COGNOME avevano necessità di un aiuto concreto che si era sviluppato, anzitutto, nel reperimento delle armi e della vettura, rubate, usate per l’omicidio e ritirate proprio nel quartiere “Q4”, di cui NOME COGNOME era capo zona.
Ancora, l’imputato aveva dato un supporto anche prima e dopo l’omicidio.
In primo luogo, incontrando i COGNOME, a Borgo Sabotino, subito prima dell’agguato, incontro che non avrebbe potuto avere ad oggetto altro che l’imminente delitto; in secondo luogo, COGNOME, in ausilio all’azione dei tre esecutori materiali, si era posto con la sua autovettura Smart “Brabus” bianca nelle immediate vicinanze del luogo dove poi sarebbe stato commesso l’omicidio, per successivamente transitarvi, dopo l’agguato, al fine di intervenire in caso di necessità.
Pur non essendo l’omicidio del COGNOME strettamente legato alle sue attività criminali, le ragioni del coinvolgimento in esso di NOME COGNOME dovevano ricondursi, come riferito anche dai due collaboratori, alla sua volontà di affermare il proprio potere criminale e violento, dando un supporto all’azione di NOME COGNOME un ragazzo che lavorava per lui o che, comunque, si riforniva da lui di sostanze stupefacenti.
In particolare, l’imputato, allora ventottenne, voleva affermarsi come criminale di primo piano, dimostrando di essere capace di usare le armi, in una città dove agivano anche altre organizzazioni aduse a mezzi violenti, come quella facente capo ai COGNOME
2. Con sentenza resa in data 10 ottobre 2024, la Corte di assise di appello di Roma assolveva l’imputato dal reato ascrittogli per non aver commesso il fatto.
Ricordava la Corte di secondo grado che gli elementi, pure riportati nella sentenza appellata, relativi alla fornitura delle armi e alle videoregistrazioni circa il passaggio della Smart bianca, esistevano anche in epoca antecedente a quella in cui erano state rese le dichiarazioni dei due collaboratori di giustizia NOME e COGNOME, elementi che, però, non furono ritenuti sufficienti dalla Procura della Repubblica a sostenere l’accusa in giudizio.
Di conseguenza, le propalazioni dei dichiaranti avrebbero dovuto necessariamente dar prova della partecipazione del TRAVALI all’omicidio del GIUROIU, concordando fra loro, al fine di avvalorare gli elementi probatori già valutati come insufficienti.
Tuttavia, diversamente da quanto sostenuto dai primi giudici, tali dichiarazioni risultavano inficiate da plurime contraddizioni e non erano suffragate da significativi elementi di riscontro.
Una prima contraddizione veniva rilevata tra quanto dichiarato da COGNOME nell’interrogatorio al P.M. del 30 gennaio 2020, in cui il collaborante riferì di aver saputo dallo stesso COGNOME del coinvolgimento di quest’ultimo nell’omicidio come staffettista, e quanto narrato in dibattimento, due anni dopo, a proposito del fatto che la Smart bianca era presente sul luogo del delitto, ma di ignorare chi la guidasse.
Altra contraddizione veniva stigmatizzata con riguardo a quanto riferito al PUGLIESE da NOME COGNOME a proposito del “tiro a bersaglio” cui i fratelli COGNOME si sarebbero dedicati all’indirizzo del cadavere del COGNOME prima che venisse scaraventato in un pozzo, circostanza drasticamente smentita dall’esito della perizia medico-legale dalla quale non risultava alcuna traccia di colpi inferti post mortem al cadavere della vittima.
Tra l’altro, COGNOME aveva seccamente smentito il narrato del PUGLIESE, così come il COGNOME il quale aveva escluso la presenza dei COGNOME nel luogo e nel momento in cui venne occultato il corpo del COGNOME
Venendo alle dichiarazioni rese da NOME COGNOME la Corte di secondo grado evidenziava, da un lato, la smentita proveniente dal PUGLIESE a proposito della partecipazione di costui alla riunione in cui si deliberò l’omicidio in questione; dall’altro, il contrasto tra la versione resa in sede di interrogatorio e quella offer a dibattimento circa la presenza nella riunione deliberativa di NOME COGNOME e di NOME COGNOME.
Ulteriore divergenza veniva registrata nel narrato del COGNOME a proposito dell’iniziativa di realizzare l’omicidio, prima attribuita ai COGNOME e poi ai COGNOME.
Altra discordanza si rilevava a proposito del contesto temporale della riunione prodromica al delitto, a dibattimento descritta come avvenuta lo stesso giorno dell’omicidio e in sede di interrogatorio collocata due o tre giorni prima.
Ancora, la circostanza dell’avvenuta conoscenza, da parte del COGNOME, della ripresa filmata della sua vettura Smart “Brabus” il giorno dell’omicidio, ad opera del poliziotto NOME COGNOME per il tramite di NOME COGNOME risultava smentita dall’assoluzione del COGNOME dal reato di cui agli artt. 110, 326 cod. pen.
Infine, circa l’apporto materiale fornito dal COGNOME al fatto omicidiario, COGNOME riferiva che l’imputato era transitato nelle vicinanze del luogo del delitto a bordo della sua vettura, ma, non essendo presente sul posto, nulla poteva dire sulla esatta dinamica dei fatti e, quindi, sul contributo concreto fornito dall’imputato medesimo.
In conclusione, a parere della Corte di assise di appello, le dichiarazioni analizzate non presentavano quei caratteri di precisione, costanza e coerenza tali da giustificare una valutazione di attendibilità intrinseca.
Gli stessi giudici di merito valutavano diversamente, sminuendone l’efficacia dimostrativa, gli elementi di riscontro estrinseci al dichiarato dei du propalanti viceversa apprezzati in modo positivo dalla Corte di assise di Latina.
Dalla lettura delle dichiarazioni rese dal coimputato NOME NOME COGNOME poteva ritenersi, al più, che fosse effettivamente avvenuto, nell’imminenza del crimine, l’incontro in Borgo Sabotino fra i fratelli COGNOME e i fratelli COGNOME ma non se ne conosceva il contenuto, non avendovi il COGNOME partecipato e, anzi, avendo egli escluso di aver parlato ai COGNOME dell’intento di “dare una lezione” al COGNOME.
Ciononostante, rilevavano i giudici dell’appello, i primi giudici avevano ritenuto che in quell’incontro, di cui non era chiaro neppure il luogo di svolgimento
per le contraddittorie informazioni fornite dal GINCA sul punto, si fosse discussa la pianificazione dell’omicidio del GIUROIU (pag. 45 della sentenza di primo grado), pur in assenza di prove certe, come lasciava intendere l’uso degli aggettivi “improbabile” e “inverosimile” riferiti all’ipotizzata ragione alternativa dell’incon (parlare, cioè, di fatti di droga).
Sul punto, pertanto, le affermazioni del Collegio di Latina si basavano sul solo narrato dei due collaboranti, in assenza di riscontri esterni, tanto meno provenienti dalle parole di COGNOME
Nell’atto di appello si era, inoltre, data rilevanza ai tabulati telefonici d COGNOME, sottolineandosi che, mentre tra NOME COGNOME e COGNOME risultavano annotate varie telefonate, nessuna chiamata risultava effettuata tra il primo e il COGNOME.
Ad ulteriore smentita di NOME e COGNOME si ponevano le dichiarazioni dei testi COGNOME e COGNOME i quali avevano escluso la presenza dei COGNOME nel giorno dell’omicidio o, comunque, non li avevano visti.
Quanto, poi, al passaggio alle ore 16.35 sul luogo del delitto di una vettura bianca, compatibile, a parere del primo giudice, con la Smart bianca modello “Brabus” in uso al TRAVALI, la Corte dell’appello richiamava la testimonianza resa dall’Assistente Capo NOME sulla impossibilità di stabilire con certezza il modello della vettura ripresa dalle telecamere presenti sul posto, non vedendosi neppure il colore del tettino, che, con riguardo alla vettura del TRAVALI, era di colore nero; informazione, quest’ultima, che il collaborante NOME non aveva mai riferito.
Rilevava, inoltre, la Corte di Roma, mutuando una deduzione difensiva, che tra il momento di esecuzione dell’aggressione (ore 16.31) e quello del passaggio della vettura bianca (ore 16.35.51) erano intercorsi quattro minuti, un lasso di tempo, cioè, eccessivamente esteso per ipotizzare un coinvolgimento del TRAVALI nel fatto onnicidiario.
D’altro canto, la difesa aveva evidenziato che nel senso di marcia degli aggressori risultarono sopraggiungere 14 autovetture anticipanti quella bianca, dovendo considerarsi, sul punto, rilevante la deposizione resa dal teste COGNOME a proposito del fatto che la Dacia COGNOME su cui viaggiavano gli esecutori materiali dell’omicidio non fosse seguita da altro veicolo.
Anche il COGNOME, sull’argomento, aveva detto di aver visto una Smart bianca, ma di non essere in grado di indicare chi vi fosse all’interno.
Con riferimento alla fornitura delle armi ai COGNOME da parte del COGNOME, la Corte distrettuale osservava, in base alle informazioni offerte dal COGNOME e dallo stesso NOME COGNOME che costui ed il fratello avevano sempre avuto disponibilità
di armi, avendo il COGNOME precisato che le armi medesime, nell’occorso, non erano state loro procurate dal COGNOME.
Tale fornitura veniva addebitata al COGNOME dai primi giudici solo sulla base del dichiarato del COGNOME, tuttavia, ancora una volta, inficiato da contraddizioni a proposito del fatto di averle viste o meno (negato a dibattimento all’udienza del 6 dicembre 2022, affermato in sede di interrogatorio del P.M. reso il 17 gennaio 2020).
Rimarcava, ancora, la Corte di merito che le armi usate per l’omicidio – per come evidenziato dalla difesa – vennero fatte rinvenire presso la Casa-Famiglia “RAGIONE_SOCIALE“, ivi nascoste dal COGNOME e dal COGNOME; pertanto, non si era registrata alcuna restituzione delle armi medesime al COGNOME, come sarebbe stato logico se fosse stato l’imputato a prestarle (pag. 5 atto di appello avv. COGNOME).
Inoltre, a parere della difesa, tale ritrovamento conduceva a smentire il dichiarato del collaborante COGNOME (sul punto smentito anche dalla perizia e dal teste COGNOME) a proposito dell’avere il COGNOME, dopo il delitto, infierito a colpi pistola sul cadavere della vittima, in quanto, se ciò fosse stato vero, le armi sarebbero state dagli stessi fratelli COGNOME portate con loro.
Diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di assise di Latina, neppure dalla conversazione intercorsa tra l’imputato e tale NOME COGNOME potevano evincersi elementi di riscontro del narrato dei collaboratori di giustizia.
Dalle espressioni usate dal COGNOME, dall’uso della voce verbale “hanno” anziché “abbiamo”, dalla risposta “non lo so” alla frase del COGNOME secondo cui anche il COGNOME avrebbe sparato per reagire all’agguato omicida, emergeva non tanto il coinvolgimento dell’imputato nell’omicidio, quanto la sua conoscenza dei relativi particolari, compresi quelli inerenti all’occultamento del cadavere.
Ad avviso dei giudici del gravame, l’analisi della conversazione lasciava comprendere che COGNOME aveva il timore di essere indagato per un altro e diverso delitto; non sapendo di essere intercettato, se effettivamente avesse partecipato all’omicidio, egli avrebbe parlato in termini differenti con il suo confidente COGNOME soprattutto tenendo conto del movente che lo avrebbe portato a prendervi parte, ossia l’affermazione della sua forza nel territorio di Latina.
Al contrario di quanto sostenuto dai primi giudici, la Corte di assise di appello di Roma, in conclusione, affermava che le dichiarazioni rese dai collaboranti COGNOME e NOME risultavano, non suffragate, bensì smentite dai cosiddetti elementi di riscontro esterni, con il che veniva messo fortemente in dubbio il coinvolgimento di NOME COGNOME nell’omicidio del COGNOME sia sotto il profilo materiale che sotto quello morale.
Tenuto conto che proprio in virtù delle dichiarazioni dei due collaboratori si era proceduto alla riapertura delle indagini, le divergenze e le discrasie emerse
dalle stesse, apprezzate anche in relazione alla compiuta analisi dei riscontri esterni, portavano a reputarle inattendibili e, perciò, inidonee a giustificare, al d là di ogni ragionevole dubbio, l’affermazione di penale responsabilità dell’imputato.
Ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Roma, deducendo, con un unico e articolato motivo, erronea interpretazione e applicazione dell’art. 192 cod. proc. pen. – art. 606, lett. b), cod. proc. pen.
Richiamate GLYPH Sez. U, GLYPH Troise GLYPH (n. 14800 del 21/12/2017, GLYPH dep. 2018, Rv. 272430 – 01), il Procuratore ricorrente denuncia, in primo luogo, l’inottemperanza in cui sarebbe incorsa la Corte di secondo grado all’obbligo motivazionale rafforzato, avendo omesso detta Corte di apprezzare nel loro complesso tutte le acquisizioni probatorie alla luce delle considerazioni svolte dai giudici di primo grado.
Il ricorrente censura, poi, una serie di punti della sentenza che presenterebbero particolari criticità.
Iniziando dalle dichiarazioni rese dal coimputato COGNOME sarebbe errata la valutazione, operata dai giudici del gravame, circa l’inidoneità delle stesse a fungere da elemento di riscontro del narrato dei collaboranti NOME e COGNOME
La Corte di secondo grado non avrebbe fornito, sul punto, adeguata spiegazione, né sembrava rilevabile una contraddizione nel narrato del NOME o ritenere significativo e decisivo che non fosse nella disponibilità dell’imputato il luogo di rinvenimento delle armi, peraltro ubicato nel quartiere “Q4” appartenente alla zona di operatività criminale del TRAVALI.
La Corte di Roma avrebbe, poi, trascurato il valore fortemente indiziario della visita effettuata dall’imputato ai fratelli COGNOME poco prima del fatto omicidiario, ritenendo che neppure su questa circostanza potessero assurgere a elemento di riscontro le dichiarazioni rese dal COGNOME.
Così come avrebbe erroneamente individuato nella perizia medico legale, che aveva escluso che il corpo del COGNOME fosse stato attinto da colpi di pistola post mortem, un elemento di smentita della dichiarazione resa dal PUGLIESE circa il fatto che i fratelli COGNOME avevano sparato sul cadavere prima di gettarlo in una cisterna, posto che si trattava di una dichiarazione de relato da tale COGNOME
Ancora, i giudici dell’appello avrebbero trascurato il contenuto della conversazione intercettata tra il COGNOME e NOME COGNOME la cui completa lettura avrebbe, invece, consentito l’individuazione di significativi elementi di riscontro alle accuse dei collaboranti.
In particolare, COGNOME si mostrava informato nel dettaglio sulle modalità esecutive del delitto e riferiva al COGNOME di essere assillato dai due fratelli COGNOME su quest’omicidio, dovendo tale insistenza spiegarsi, evidentemente, con la necessità di un’approvazione e di un sostegno senza i quali il fatto non avrebbe potuto essere consumato.
Anche la conoscenza del movente dell’omicidio, dei contrasti tra gli autori materiali e la vittima, dei loro rapporti pregressi e delle loro vicende personali non potevano che giustificarsi, secondo il Procuratore ricorrente, con il coinvolgimento dell’imputato nei fatti.
Nella stessa direzione militavano, inoltre: la preoccupazione mostrata dal TRAVALI e, al contempo, la consapevolezza che un’eventuale chiamata in correità del GINCA avrebbe avuto bisogno dei necessari riscontri; la mancata esplicita negazione, nel dialogo, di una sua partecipazione ai fatti; il rammarico di essersi fatto coinvolgere da persone prive di adeguato spessore criminale; la contrarietà espressa per la condotta del legale del COGNOME, che non aveva efficacemente dissuaso il suo assistito dal rendere dichiarazioni auto ed etero accusatorie; la sicurezza di essere scagionato da NOME COGNOME la quale avrebbe detto di essersi trovata con lui al momento del delitto.
A quest’ultimo riguardo, osserva il Procuratore ricorrente che se la COGNOME era sicuramente sul luogo del delitto quando esso avvenne e se COGNOME si trovava con lei, era evidente che anche l’imputato andava collocato nei pressi del luogo dell’esecuzione.
Infine, la Corte dell’appello avrebbe trascurato lo stretto rapporto intercorrente tra NOME COGNOME e NOME COGNOME come emerso dal contenuto della corrispondenza rinvenuta nella cella del primo in data 17 febbraio 2021, che confortava la ricostruzione offerta dalla Corte di Latina sul coinvolgimento nell’omicidio del COGNOME medesimo.
Nella sintesi conclusiva, il Procuratore ricorrente segnala che i collaboratori COGNOME e PUGLIESE erano stati ritenuti attendibili in altri procedimenti e che la Corte di assise di appello avrebbe dovuto fornire una motivazione più puntuale sulle ragioni che l’avevano indotta a discostarsi dai precedenti giudizi, anche perché nessuna anomalia o incoerenza aveva inficiato il percorso collaborativo dei predetti, così da compromettere l’attendibilità del loro narrato nella vicenda in esame, del tutto scevro da ragioni di risentimento o rancore nei confronti del RAGIONE_SOCIALE
4. Il Procuratore generale di questa Corte, dapprima con memoria scritta, poi in sede di trattazione orale, ha concluso per il rigetto del ricorso.
L’avv. COGNOME ha fatto pervenire memoria nell’interesse di NOME COGNOME con la quale ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso del P.G. per il suo carattere sostanzialmente rivalutativo degli elementi di prova.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso va dichiarato inammissibile per le ragioni che seguono.
2. Occorre premettere, in breve, e per quanto d’interesse, che, ai fini della corretta valutazione della chiamata in reità o in correità, la metodologia alla quale il giudice di merito deve conformarsi permane quella indicata da Sez. U, n. 1653 del 21/10/1992, dep. 1993, Marino, Rv. 192465 – 01, nel senso che il giudice deve, in primo luogo, sciogliere il problema della credibilità del dichiarante (confitente e accusatore) in relazione, tra l’altro, alla sua personalità, alle sue condizioni socio economiche e familiari, al suo passato, ai rapporti con i chiamati in correità ed alla genesi remota e prossima della sua risoluzione alla confessione ed alla accusa dei coautori e complici; in secondo luogo, deve verificare l’intrinseca consistenza, e le caratteristiche delle dichiarazioni del chiamante, alla luce di criteri quali, tra altri, quelli della precisione, della coerenza, della costanza, della spontaneità; infine egli deve esaminare i riscontri cosiddetti esterni. L’esame del giudice deve esser compiuto seguendo l’indicato ordine logico perché non si può procedere ad una valutazione unitaria della chiamata in correità e degli “altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità” se prima non si chiariscono gli eventuali dubbi che si addensino sulla chiamata in sé, indipendentemente dagli elementi di verifica esterni ad essa. Tali principi sono stati, come noto, precisati, con specifico riferimento alla dichiarazione de relato, da Sez. U, n. 20804 del 29/11/2012, dep. 2013, Aquilina, Rv. 255143 – 01. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
In particolare, si è affermato che la chiamata in correità o in reità de relato, anche se non asseverata dalla fonte diretta, il cui esame risulti impossibile, può avere come unico riscontro, ai fini della prova di responsabilità penale dell’accusato, altra o altre chiamate di analogo tenore.
Per il conseguimento del fine precisato si richiedono: a) la valutazione positiva della credibilità soggettiva di ciascun dichiarante e dell’attendibilit intrinseca di ogni singola dichiarazione, in base ai criteri della specificità, del coerenza, della costanza, della spontaneità; b) l’accertamento dei rapporti personali tra il dichiarante e la fonte diretta, per inferirne dati sintomatici de corrispondenza al vero di quanto dalla seconda confidato al primo; c) la convergenza delle varie chiamate, che devono riscontrarsi reciprocamente in ,i
maniera individualizzante in relazione a circostanze rilevanti del thema probandum; d) l’indipendenza delle chiamate, nel senso che non devono rivelarsi frutto di eventuali intese fraudolente; e) l’autonomia genetica delle chiamate, vale a dire la loro derivazione da fonti d’informazione diverse.
È stato, inoltre, chiarito, in tema di valutazione delle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia già esaminato in altro procedimento, che il giudice, pur non essendo vincolato dalle valutazioni positive espresse in precedenti sentenze irrevocabili, deve, comunque, tenerne conto fornendo una puntuale motivazione ove intenda discostarsi dal precedente giudizio (Sez. 2, n. 13604 del 28/10/2020, dep. 2021, Torcasio, Rv. 281127 – 04; Sez. 1, n. 8218 del 29/01/2019, COGNOME, Rv. 274917 – 02).
Va, infine, ricordato che, nel giudizio di appello, la riforma in senso assolutorio di una sentenza di condanna non richiede che la prospettazione difensiva sia tale da superare ogni ragionevole dubbio, ma è sufficiente che essa rappresenti, sulla base degli elementi raccolti, una diversa e plausibile ricostruzione del fatto rispetto a quella fatta propria dal giudice di primo grado, che renda non certa la colpevolezza e deponga per un esito liberatorio (v. sul punto la recente Sez. 5, n. 16414 del 21/03/2025, Nicastri, Rv. 287858 – 01).
3. Ad avviso del Collegio, la Corte di merito si è puntualmente attenuta ai richiamati principi nella valutazione delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia NOME COGNOMEde relato) e NOME COGNOME (diretta per la fase della pianificazione, de relato per quella dell’esecuzione dell’omicidio), dando puntuale conto delle ragioni per le quali, diversamente dai giudici di primo grado, non le ha ritenute attendibili.
Tali dichiarazioni, costituenti il “novum” sulla base del quale, a distanza di diversi anni dalla prima archiviazione, vennero riaperte le indagini sull’omicidio COGNOME, sono state analizzate con cura dai giudici dell’appello, che hanno argomentato, nei termini già riferiti nella superiore esposizione in fatto (par. 2.) e che qui si richiamano integralmente, in modo non manifestamente illogico e, comunque, nei limiti della plausibile opinabilità di apprezzamento, sulle numerose contraddizioni, incertezze e incongruenze che hanno costellato il narrato dei propalanti, spiegando, inoltre, diffusamente, come non potessero valutarsi alla stregua di riscontri esterni gli elementi viceversa qualificati come tali dalla Corte di assise di Latina: valutazione, peraltro, quest’ultima, effettuata con eccesso di zelo dalla Corte di secondo grado, non essendo stato, in ogni caso, superato il preliminare vaglio di attendibilità intrinseca delle accuse.
Il giudice di appello, nella specie, ha, quindi, offerto una motivazione puntuale e adeguata, fornendo, come richiesto da Sez. U, Troise, una razionale a
giustificazione GLYPH della GLYPH difforme GLYPH conclusione GLYPH adottata GLYPH (Sez. GLYPH U, n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, Rv. 272430 – 01).
A fronte di un adeguato costrutto motivazionale, le considerazioni opposte dal ricorrente, pur potendo costituire (almeno in astratto) una ricostruzione altrettanto persuasiva dei fatti, si risolvono in un’interpretazione alternativa dell fonti di prova, se non in un’insistenza sul valore non conferente dei diversi profili d’inattendibilità dei propalanti rappresentati nella sentenza impugnata.
In tale percorso critico proposto con il ricorso non si rintracciano, per il vero, censure suscettibili di essere catalogate in uno dei motivi di impugnazione tassativamente indicati nel codice di rito, in particolare mancando la segnalazione sia di effettive violazioni di legge penale processuale e/o sostanziale sia di vizi motivazionali nelle forme dell’insufficienza, contraddittorietà e manifesta illogicità.
D’altro canto, non è superfluo ribadire che l’indagine di legittimità è necessariamente circoscritta a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo svolto dal giudice di merito, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il predetto giudice si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali.
Non compete, infatti, come noto, alla Corte di Cassazione la rilettura degli elementi di fatto, già vagliati e posti a fondamento della decisione impugnata, non potendo integrare il vizio di legittimità soltanto una diversa ricostruzione delle risultanze processuali, semmai prospettata in maniera più utile per il ricorrente (Sez. U, n. 47289 del 24/9/2003, COGNOME, Rv. 226074 – 01).
Generico e, comunque, manifestamente infondato è il rilievo sulla pretesa carenza di adeguata motivazione sull’attendibilità dei collaboranti che altri processi avevano vagliato positivamente.
Come efficacemente messo in luce in sede di requisitoria dal Procuratore generale di questa Corte, la divergente valutazione, in termini di inattendibilità, è stata operata, nel presente processo, dalla Corte di assise di appello di Roma in ordine a una vicenda storico-fattuale del tutto differente e indipendente dalle vicende già definitivamente giudicate. Si tratta, pertanto, di una valutazione non suscettibile di essere in alcun modo pregiudicata e condizionata dalle precedenti verifiche di attendibilità, necessariamente circoscritte agli specifici oggetti giudizio, dovendosi aver riguardo esclusivamente alla corretta applicazione del criterio legale di valutazione fissato dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., che nel caso in esame, come già detto, è stato pienamente rispettato.
Per le esposte ragioni, il ricorso va, in conclusione, dichiarato inammissibile.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso.
Così deciso in Roma, il 14 maggio 2025
Il Consigliere estensore
Il Presidente