Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 2628 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 2628 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 13/12/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
NOME nato a Milano il 21/09/1974 NOMECOGNOME nato a Catania il 11/04/1960
avverso la sentenza del 11/01/2024 della Corte d’appello di Milano visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Genera COGNOME il quale ha concluso chiedendo che il ricorso di NOME sia rigettato e che il ricorso di Carnago Ezio sia dichia inammissibile;
udita l’Avv. NOME COGNOME in difesa di NOMECOGNOME e anche in sostituzione dell’Avv. NOME COGNOME in difesa di Carnago Ezio, la quale ha insistito per l’accoglimento dei ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 11/01/2024, la Corte d’appello di Milano, in parzia riforma della sentenza del 08/02/2023 del G.i.p. del Tribunale di Milano, emes in esito a giudizio abbreviato, per quanto qui ancora interessa:
confermava la condanna di NOME COGNOME alla pena di due anni e otto mesi di reclusione ed € 2.200,00 di multa per il reato di tentata esto
pluriaggravata (dall’essere stata la minaccia commessa con armi e da più persone riunite) in concorso (con NOME COGNOME) ai danni di NOME COGNOME di cui al capo H) dell’imputazione;
b) confermava la condanna di NOME COGNOME alla pena di due anni due mesi e venti giorni di reclusione ed € 1.000,00 di multa per il reato di ricettazione di un’autovettura di cui al capo G) dell’imputazione.
Avverso la menzionata sentenza del 11/01/2024 della Corte d’appello di Milano, hanno proposto distinti ricorsi per cassazione, per il tramite dei propri rispettivi difensori, NOME COGNOME e NOMECOGNOME
Il ricorso di NOME COGNOME, a firma dell’avv. NOME COGNOME è affidato a un unico motivo, con il quale il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., «violazione di legge per difetto di motivazione» per mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione con riguardo all’affermazione della sua responsabilità per il reato di tentata estorsione in concorso ai danni di NOME COGNOME di cui al capo H) dell’imputazione.
Dopo avere premesso che la Corte d’appello di Milano non avrebbe rilevato «le forti contraddizioni che emergevano dall’analisi di tutti gli elementi probatori», il ricorrente lamenta specificamente che stessa Corte d’appello, «in più punti della motivazione» relativa alla conferma dell’affermazione della sua responsabilità, avrebbe confuso i due episodi di tentata estorsione che erano in contestazione nel procedimento (cioè quello, contestato al Carnago in concorso con NOME COGNOME, di cui al capo “H” dell’imputazione e che era avvenuto il 18/06/2021 e quello, non contestato al Carnago, di cui al capo “A” dell’imputazione e che era avvenuto il 03/03/2021).
Il ricorrente denuncia in particolare che la Corte d’appello di Milano: 1) alla pag. 28 della sentenza impugnata, aveva scritto che «i due cercavano di introdursi nell’abitacolo ma era riuscito a impedirlo», senza effettuare alcun riferimento ai fotogrammi degli impianti di videosorveglianza, dai quali sarebbe emerso che «nessuna delle persone che si avvicinavano all’autovettura condotta dalla persona offesa, NOME, hanno tentato mai in alcun modo di entrare nell’abitacolo»; 2) sempre alla pag. 28 della sentenza impugnata, aveva scritto che «o stesso giorno si era presentato un uomo presso gli uffici dicendo che doveva consegnare un plico al titolare», per poi concludere che «ali condotte ripetute difficilmente possono essere riferite al desiderio dell’imputato di consegnargli un curriculum», «facendo così sottendere che le due condotte fossero state commesse entrambe dal Carnago».
Inoltre, secondo il ricorrente, la Corte d’appello di Milano, nel riportare non correttamente, al primo periodo del terzultimo capoverso della sentenza
impugnata, una censura dell’imputato, avrebbe omesso di dare conto, anche in questo caso, dei fotogrammi degli impianti di videosorveglianza, dai quali sarebbe emerso che «nessuna delle due persone presenti ai fatti aveva in mano un sacchetto di carta con l’arma dentro», così incorrendo in un travisamento della prova.
Il ricorso di NOME COGNOME a firma dell’avv. NOME COGNOME, è affidato a quattro motivi.
4.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., l’inosservanza dell’art. 270 dello stesso codice, «in relazione alla inutilizzabilità delle intercettazioni», che erano state disposte nel procedimento relativo al reato di estorsione, nel diverso procedimento per ricettazione di un’autovettura a carico del Romeo e, in particolare, in relazione all’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni delle conversazioni tra pres che avevano avuto luogo tra il NOME e NOME COGNOME all’interno dell’autovettura di quest’ultimo (conversazioni dalle quali, secondo i giudici di merito, era emersa la prova della responsabilità del NOME per il suddetto reato di ricettazione).
Secondo il ricorrente, la Corte d’appello di Milano non avrebbe «considerato che in tema di intercettazioni vige il principio secondo cui l’utilizzabilità d intercettazioni per un reato diverso, connesso con quello per il quale l’autorizzazione sia stata concessa, è subordinata alla condizione che il nuovo reato rientri nei limiti di ammissibilità previsti dall’art. 266 cod. proc. pen. , no applica ai casi in cui lo stesso fatto-reato per il quale l’autorizzazione è stata concessa sia diversamente qualificato in seguito alle risultanze delle captazioni».
Il Romeo deduce ancora che il reato di ricettazione per il quale egli è stato condannato non rientrerebbe tra i casi in cui la legge deroga al divieto, previsto dall’art. 270 cod. proc. pen., di utilizzazione in altri procedimenti dei risultati de intercettazioni e rappresenta che «le conversazioni captate non possono neppure essere ritenute prove “rilevanti” o “indispensabili” da permettere l’applicazione delle deroghe».
Secondo il Romeo, comunque, nella sentenza impugnata «non vi è stata una congrua motivazione in merito alle contestazioni procedurali mosse dalla difesa».
4.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, connma 1, lett. b), cod. proc. pen., l’erronea applicazione dell’art. 648 cod. pen., «in relazione alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato».
Il Romeo lamenta al riguardo che la Corte d’appello di Milano avrebbe travisato le conversazioni che erano state captate all’interno dell’autovettura del Boiocchi, le avrebbe «interpretate in modo errato» e, comunque, non avrebbe «adeguatamente valutat» le prove.
La ricostruzione dei fatti che è stata operata dalla Corte d’appello di Milano sarebbe «apodittica» atteso che – come il Romeo aveva spiegato nelle sue dichiarazioni spontanee -, egli, «a cui COGNOME consegnava le chiavi di un mezzo, asseritamente di sua proprietà, per essere aiutato a trovare un acquirente, non solo non aveva alcuna contezza circa la provenienza illecita del mezzo ma, una volta ricevuto le chiavi non ha neppure mai utilizzato tale mezzo. Il Romeo, infatti, ricevute le chiavi dell’autovettura, non è mai entrato nella effettiva disponibilità del mezzo, il quale è rimasto fermo in un parcheggio in zona Barona per più di un mese, proprio nel luogo dove inizialmente il COGNOME lo aveva lasciato».
Il ricorrente contesta la ritenuta sussistenza del dolo del delitto di ricettazione, «non potendosi desumere l’elemento soggettivo dalle modalità di utilizzo del mezzo e restando privo di motivazione il requisito del fine di profitto».
L’imputato afferma ancora che, «poiché egli si è solo limitato a ricevere un’autovettura dal Boiocchi per procedere alla vendita della stessa, vendita che non è stata poi conclusa ragion per cui il mezzo gli è stato restituito», si sarebbe «trattato piuttosto del reato di ricettazione nella forma tentata».
Difetterebbero inoltre sia «l’elemento del profitto», in quanto «la condotta è stata posta in essere senza alcun profitto personale», sia l’elemento «dell’acquisto, ricezione o occultamento (poiché NOME venne coinvolto dal fratello solo nel momento della restituzione del mezzo)».
La prova della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato non sarebbe «stata raggiunta da alcun elemento concreto, né diretto né indiretto ma sulla base di sole presunzioni».
Nella sentenza impugnata non sarebbe «stato neppure considerato che la sentenza che pronunciava la condanna di COGNOME per il furto proprio dell’auto Quashqai, considerato quale reato presupposto, risale ad un periodo successivo rispetto alla notifica del 415 bis del reato di ricettazione nei confronti di NOME NOME».
Il ricorrente rappresenta infine che, «nella vicenda oggetto di controversia, sono piuttosto ravvisabili gli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 712 c.p. atteso che sarebbe «necessario valorizzare l’abituale attività di rivendita di auto svolta dal ricorrente che rende più plausibile una semplice mancanza di diligenza nel verificare la provenienza della cosa».
4.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la «mancanza di motivazione».
Il Romeo deduce che la motivazione della sentenza impugnata – che egli trascrive – sarebbe «frutto di una analisi atomistica e parcellizzata di quanto emerso nel processo, è carente e contraddittoria e peraltro non motiva sufficientemente i motivi di appello della difesa».
La stessa sentenza «non riporta nulla di nuovo rispetto alla decisione del giudice di prime cure e questo è indice del fatto che non vi sia stata un’adeguata analisi dei motivi di appello».
4.4. Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) , cod. proc. pen., l’«eccessiva gravità della pena e mancata motivazione dei criteri applicati ex art. 133 cp».
Il Romeo deduce che mancherebbe «una motivazione esaustiva da parte del giudice nella scelta dei suddetti criteri», sulla base dei quali egli era stat condannato alla pena di due anni, due mesi e venti giorni di reclusione.
CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso di NOME COGNOME è inammissibile perché il suo unico motivo non è consentito. La Corte d’appello di Milano ha confermato l’affermazione di responsabilità dell’imputato per il reato di tentata estorsione – in piena conformità con la condivisa sentenza di primo grado – sulla base dei seguenti plurimi elementi di prova e argomentazíoni: 1) la denuncia della persona offesa NOME COGNOME – che i giudici del merito hanno ritenuto, con una congrua motivazione, soggettivamente e oggettivamente credibile – il quale aveva riferito che la mattina del 18/06/2021, mentre era a bordo della propria autovettura, nei pressi del suo ufficio, era stato avvicinato da due uomini, uno dei quali gli aveva mostrato il calcio di una pistola, mentre l’altro lo aveva minacciato di morte se non avesse fatto quello che gli veniva detto di fare e gli aveva gettato nell’abitacolo un foglio che conteneva l’indicazione di una società di Bratislava, il nome di NOME COGNOME, amministratore della stessa società, e l’indicazione di un IBAN (cioè le modalità per versare su un conto estero le somme profitto dell’estorsione); 2) tale foglio rendeva palese il movente dell’attività illecita, che si doveva ritenere collegata al precedente tentativo di estorsione ai danni dello stesso COGNOME (cioè a quello di cui al capo “A” dell’imputazione) ed essere perciò diretta a recuperare il “credito” che il concorrente nei due reati COGNOME riteneva di vantare nei confronti del COGNOME per le spese e le “provvigioni” che aveva sostenuto per fare illecitamente ottenere un appalto a RAGIONE_SOCIALE; 3) i fotogrammi dell’impianto di videosorveglianza istallato presso RAGIONE_SOCIALE davano conto degli eventi in termini conformi a quanto era stato riferito dalla persona offesa e avevano consentito di acclarare che uno dei due uomini che avevano avvicinato il Costa la mattina del 18/06/2021 era il Carnago (come era risultato dal confronto tra i suddetti fotogrammi e la fotografia del cartellino segnaletico del Carnago; pag. 51 della sentenza di primo grado); 4) sulla busta che conteneva il foglio che era stato gettato nell’abitacolo dell’autovettura del Costa erano state trovate le impronte sia del Carnago sia del Corte di Cassazione – copia non ufficiale
COGNOME; 5) dall’utenza che si era accertato essere in uso al Carnago, era stato inviato al Costa, il pomeriggio dello stesso 18/06/2021, il messaggio, che si doveva ritenere anch’esso minatorio, con il quale si intimava alla persona offesa di «fa il bravo conviene a tutti, è stato solo un avvertimento, la prossima volta mandiamo i ragazzi in INDIRIZZO» (dove era ubicata l’abitazione del Costa e della sua compagna); 6) il coimputato COGNOME, nell’intercettata conversazione che aveva avuto in carcere con la moglie, le aveva detto di avere mandato il Carnago dal Costa anche per ricordargli del menzionato “debito” che riteneva che questi avesse nei suoi confronti, anche se aveva affermato che l’atto estorsivo con l’uso di un’arma era stato posto in essere autonomamente dal Carnago.
Tale motivazione appare pienamente coerente rispetto agli elementi di prova e pienamente logica e, a fronte di ciò, il ricorrente ha del tutto omesso di confrontarsi compiutamente con essa, in particolare, con il complesso dei menzionati elementi probatori e delle argomentazioni che sono state utilizzate dai giudici di merito, dal che consegue la sostanziale genericità del motivo.
Né le parziali doglianze del ricorrente, comunque inidonee a scardinare la complessiva motivazione della sentenza impugnata, risultano in alcun modo condivisi bili.
Anzitutto, diversamente da quanto è sostenuto dal Carnago, dalla lettura della sentenza impugnata emerge che la Corte d’appello di Milano non ha affatto confuso i due episodi di tentata estorsione di cui ai capi a) dell’imputazione (del quale il Carnago non era chiamato a rispondere) e h) della stessa imputazione, avendo, al contrario, assolutamente chiara la distinzione tra i due fatti criminosi.
Quanto alle due affermazioni della Corte d’appello di Milano che sono state specificamente contestate dal ricorrente, si deve osservare quanto segue.
Quanto alla prima di esse, il COGNOME, nella propria denuncia, aveva dichiarato che «l’uomo alla sinistra, che poteva avere circa 60/70 ha detto al suo complice di entrare nell’abitacolo. Io mi sono opposto. Ho ingranato la retromarcia per liberarmi da quell’avvicinamento » (pag. 49 della sentenza di primo grado). La Corte d’appello di Milano, nel riassumere il contenuto della denuncia della persona offesa, ha scritto che «i due cercavano di introdursi nell’abitacolo ma era riuscito a impedirlo». Tale riassunto del contenuto della denuncia del Costa non appare sostanzialmente tradirne il significato, né francamente si comprende quale incidenza le indicate modalità dello stesso riassunto possano avere sulla “tenuta” della motivazione della sentenza impugnata.
Quanto alla seconda affermazione della Corte d’appello di Milano che è stata specificamente contestata dal Carnago, si deve osservare che, con l’asserire che «ali condotte ripetute difficilmente possono essere riferite al desiderio dell’imputato di consegnargli un curriculum», la Corte d’appello di
Milano, diversamente da quanto è sostenuto dal ricorrente, non ha affatto attribuito entrambe le menzionate condotte (quella in contestazione e quella dell’uomo che si era recato prima presso gli uffici di RAGIONE_SOCIALE dicendo che doveva consegnare un plico al suo titolare e, poi, presso l’abitazione del Costa) al Carnago, ma si è limitata a rappresentare che anche l’insistenza nei vari tentativi di “avvicinare” il Costa appariva logicamente poco compatibile con il mero asserito (dall’imputato) desiderio di consegnare alla persona offesa un proprio curriculum vitae.
Quanto, infine, alla contestata presenza di un’arma, tale circostanza, come si è visto, è stata riferita dalla persona offesa e, a proposito di essa, si deve ritenere del tutto congrua la motivazione della Corte d’appello di Milano secondo cui «non vi sono ragioni per ritenere che il Costa abbia voluto aggiungere alla vicenda dettagli (l’arma) non veritieri».
Il ricorso di NOME COGNOME deve essere rigettato atteso che i suoi motivi sono o non fondati (il primo) o non consentiti (il secondo, il terzo e il quarto).
2.1. Il primo motivo non è fondato.
Il comma 1 dell’art. 270 cod. proc. pen. – nel testo sostituito dall’art. 2, comma 1, lett. g), n. 01), del d.l. 30 dicembre 2019, n. 161, conv. con modif. dalla legge 28 febbraio 2020, n. 7, e anteriore alla modificazione dello stesso comma 1 operata dall’art. 1, comma 2-quater, del d.l. 10 agosto 2023, n. 105, conv. con modif. dalla legge 9 ottobre 2023, n. 137 (il quale, sopprimendo le parole «e dei reati di cui all’articolo 266, comma 1», ha riportato la disposizione al testo anteriore alla sostituzione operata con il d.l. n. 161 del 2019) – stabiliva che: «I risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino rilevanti indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto i flagranza e dei reati di cui all’articolo 266, comma 1».
Con la sentenza COGNOME le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno chiarito che tale disciplina del regime di utilizzabilità delle intercettazioni procedimenti diversi, di cui all’art. 270, comma 1, cod. proc. pen., nel testo introdotto dal d.l. n. 161 del 2019 (ed anteriore al d.l. n. 105 del 2023), si applica solo nel caso in cui il procedimento nel quale sono state compiute le intercettazioni sia stato iscritto successivamente al 31 agosto 2020 (Sez. U, n. 36764 del 18/04/2024, COGNOME Rv. 287005-01).
Che questa sia la disciplina che è qui applicabile ratione temporis non solo è stato conformemente ritenuto da entrambi i giudici di merito (pag. 8, quarto capoverso, della sentenza di primo grado; pag. 30, quarto capoverso e settimo capoverso, ultimo periodo, della sentenza impugnata) senza che ciò sia stato specificamente contestato dal ricorrente, ma si ricava anche chiaramente dal
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numero 22752/2021 di iscrizione nel registro generale delle notizie di reato del procedimento nell’ambito del quale le intercettazioni sono state compiute (vedi le pagg. 7-8 della sentenza di primo grado), dal quale risulta che tale procedimento, essendo stato iscritto nel 2021, è stato evidentemente iscritto successivamente al 31 agosto 2020.
La disposizione applicabile al caso in esame prevedeva pertanto due distinte deroghe al generale divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli nei quali le intercettazioni stesse sono state disposte: 1) la prima – che ricalca quella prevista sia dalla disciplina previgente sia dalla disciplina successiva attualmente vigente – consente la circolazione extraprocedimentale dei suddetti risultati in relazione all’accertamento dei delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza; 2) la seconda consente la stessa circolazione extraprocedimentale in relazione all’accertamento dei delitti di cui all’art. 266, comma 1, cod. proc. pen. (Sez. 4, n. 25401 del 20/06/2024, COGNOME non massimata sul punto; Sez. 5, n. 37169 del 20/07/2022, S., non massimata sul punto, paragrafi 1.8.4.1 e 1.8.4.2).
Ne consegue quindi che, per la prova dei delitti che rientrino nel novero di tali deroghe, i risultati delle intercettazioni sono utilizzabili anche in procedimenti diversi da quello in cui esse sono state disposte se risultino, come pure stabilisce la norma, «rilevanti e indispensabili» per l’accertamento dei suddetti delitti.
Così brevemente ricostruita la normativa applicabile, si deve in primo luogo rilevare che, diversamente da quanto è sostenuto dal ricorrente, il delitto di ricettazione a lui contestato e, poi, a lui ascritto rientra nella seconda delle menzionate deroghe, atteso che, poiché tale reato è punito con la pena della reclusione da due a otto anni, esso è ricompreso tra i «delitti non colposi per i quali è prevista la pena della reclusione superiore nel massimo a cinque anni» di cui alla lett. a) del comma 1 dell’art. 266 cod. proc. pen.
In secondo luogo, sempre diversamente da quanto è stato sostenuto dal ricorrente (la cui doglianza sul punto è, peraltro, del tutto generica), la rilevanza e l’indispensabilità dei risultati delle intercettazioni delle conversazioni tra il Romeo e il COGNOME che avevano avuto luogo all’interno dell’autovettura di quest’ultimo appaiono assolutamente evidenti, atteso che, dalla lettura sia della sentenza di primo grado (pagg. 44-46) sia della sentenza impugnata (pag. 31) – e come meglio si vedrà esaminando il secondo e il terzo motivo – il contenuto delle suddette conversazioni ha fornito ai giudici degli elementi di prova che hanno costituito un indispensabile strumento dimostrativo, non altrimenti disponibile, per l’accertamento del reato di ricettazione e per la sua attribuzione al Romeo.
Ne discende che, poiché la sentenza impugnata rende ragione della rilevanza e dell’indispensabilità del risultato delle intercettazioni per l’accertamento del reato
di cui al capo G) dell’imputazione e poiché la cornice edittale di questo lo fa rientrare tra quelli di cui all’art. 266, comma 1, cod. proc. pen., sussistevano le condizioni che, secondo il disposto dell’art. 270, comma 1, cod. proc. pen., legittimavano la deroga al divieto di utilizzazione dello stesso risultato nel presente procedimento.
2.2. Il secondo e il terzo motivo – i quali, attenendo entrambi all’affermazione di responsabilità del ricorrente, possono essere esaminati congiuntamente – non sono consentiti perché sono generici, giacché non si confrontano con la motivazione della sentenza impugnata.
Le conformi sentenze dei giudici di merito hanno fondato l’affermazione di responsabilità del Romeo per il reato di ricettazione di un’autovettura (Nissan Quashqai) di cui al capo G) dell’imputazione sul contenuto delle intercettate e trascritte (alle pagg. 41-46 della sentenza di primo grado) conversazioni che ebbero luogo a bordo dell’autovettura di NOME COGNOME, in particolare, tra il COGNOME e NOME COGNOME e, soprattutto, tra il COGNOME e lo stesso NOME.
I giudici di merito hanno in particolare argomentato come dal suddetto contenuto – al quale hanno fatto espresso e puntuale riferimento – fosse emerso che: 1) il Boiocchi, la mattina del 02/03/2021, aveva rappresentato al Cambedda di avere risolto il problema di reperire un’autovettura con la quale recarsi il giorno successivo presso gli uffici di RAGIONE_SOCIALE (dove i due, insieme agli altri correi, avrebbero commesso il primo tentativo di estorsione ai danni di NOME COGNOME di cui al capo “A” dell’imputazione); 2) nel pomeriggio dello stesso 02/03/2021, il Romeo aveva incontrato il COGNOME il quale mostrava di non conoscere marca e modello dell’autovettura di cui i due stavano discorrendo (COGNOME: «che macchina è?»), i quali erano invece noti al Romeo («Romeo: una Quasqai, Nissan»), e che veniva condotto dal Romeo nel luogo dove si trovava l’autovettura; 3) i due interlocutori (COGNOME e NOME) rendevano palese che la stessa auto avrebbe dovuto essere utilizzata il giorno successivo per commettere il tentativo di estorsione di cui al capo A) dell’imputazione (COGNOME: «domani mattina c’è quello che poi qua domani non è che gli prendiamo niente, questo deve fare il bonifico»), cosa che risultava evidentemente nota anche al Romeo, e non facevano alcun riferimento a una detenzione, da parte dello stesso Romeo, del mezzo in conto vendita e a una restituzione di esso al COGNOME (che aveva anzi mostrato di non conoscerne neppure marca e modello); 4) il Romeo aveva indicato al COGNOME il luogo in cui avrebbe dovuto restituirgli l’autovettura; 5) lo stesso Romeo aveva anche fatto riferimento a un compenso che gli avrebbe dovuto essere riconosciuto.
I giudici di merito hanno pertanto ritenuto che il Romeo: 1) aveva avuto la disponibilità dell’autovettura di provenienza furtiva; 2) era consapevole di tale provenienza delittuosa dell’autovettura, non avendo dato alcuna giustificazione
della disponibilità di essa ed essendo anche consapevole che la stessa sarebbe stata utilizzata il giorno seguente per compiere il menzionato tentativo di estorsione; 3) aveva agito al fine di procurarsi un profitto; 4) non si era arrestato alla soglia del tentativo, giacché aveva ricevuto l’autovettura che aveva consegnato al Boiocchi il quale, dopo averla utilizzata, avrebbe dovuto restituirgliela.
A fonte di tale motivazione (della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi del delitto di ricettazione consumata), la quale risulta del tutto priva di contraddizioni e di illogicità, tanto meno manifeste, il ricorrente si è limitato, con il primo motivo, a riproporre la versione dei fatti che aveva sostenuto nel corso delle proprie dichiarazioni spontanee e, con il secondo motivo, a contestare genericamente la motivazione della Corte d’appello di Milano – la quale, peraltro, diversamente da quanto sostenuto dal COGNOME, dimostra di essere pervenuta a una decisione conforme a quella del giudice di primo grado dopo avere preso in esame le tesi dell’appellante e dopo avere autonomamente valutato il materiale probatorio -, senza operare alcun puntuale riferimento al contenuto delle conversazioni intercettate, sul quale, come si è detto, si fonda la sentenza impugnata, e senza formulare alcuna specifica e ragionata censura al percorso motivazionale che è stato seguito dalla Corte d’appello di Milano, con la conseguenza che i due motivi si appalesano come del tutto generici e, perciò, non consentiti.
2.3. Il quarto motivo non è consentito.
La giurisprudenza della Corte di cassazione è costante nell’affermare che la determinazione della pena tra il minimo e il massimo edittale rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito ed è insindacabile nei casi in cui la pena sia applicata in misura media e, ancor più, se prossima al minimo, anche nel caso in cui il giudicante si sia limitato a richiamare criteri di adeguatezza, di equità e simili, nei quali sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen. (tra le tante: Sez 4, n. 46412 del 05/11/2015, COGNOME, Rv. 265283-01).
Anche successivamente, è stato ribadito che la graduazione della pena rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale, per assolvere al relativo obbligo di motivazione, è sufficiente che dia conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. con espressioni del tipo: “pena congrua”, “pena equa” o “congruo aumento”, come pure con il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere, essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale (Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, COGNOME, Rv. 271243-01).
Nel caso di specie, la pena irrogata di due anni, due mesi e venti giorni di reclusione ed € 1.000,00 di multa è di gran lunga al di sotto della media edittale della pena per il delitto di cui all’art. 648 cod. pen. (che è pari a cinque anni di reclusione ed € 5.422,00 di multa), con la conseguenza che l’obbligo di motivazione ben poteva ritenersi assolto dalla Corte d’appello di Milano anche mediante le sola espressione, da essa utilizzata, pena «congrua», la quale dà conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen.
La Corte d’appello di Milano ha peraltro ben più diffusamente motivato in ordine all’impiego di tali criteri, giacché, nel ritenere la congruità della pena, ha giustificato tale conclusione in ragione sia della gravità del reato, alla luce del valore del bene ricettato e del contesto illecito nel quale lo stesso reato era maturato, sia della capacità a delinquere del Romeo, desunta dai suoi numerosi precedenti penali.
Alla luce dei principi, affermati dalla Corte di cassazione, che si sono sopra rammentati, e considerato che il ricorrente ha contestato l’indicata motivazione della Corte d’appello di Milano in modo assolutamente generico, ne discende che il motivo non è consentito.
3. In conclusione: il ricorso di NOME COGNOME deve essere rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento; il ricorso di NOME COGNOME deve essere dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento, nonché, essendo ravvisabili profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento della somma di € 3.000,00 in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso di NOMECOGNOME che condanna al pagamento delle spese processuali. Dichiara inammissibile il ricorso di Carnago NOME che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 13/12/2024.