Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 27879 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 27879 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 03/07/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOMECOGNOME nato a Catanzaro il 02/03/1987, avverso l’ordinanza del 27 febbraio 2025 del Tribunale della libertà di Catanzaro di Catanzaro; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con l’ordinanza impugnata il Tribunale di Catanzaro ha confermato la misura degli arresti domiciliari applicata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Catanzaro a NOME COGNOME per il reato ex artt. 390 e 416. bis .1. cod. pen. descritto nella imputazione provvisoria.
Nel ricorso e nella memoria difensiva di replica alle richieste della Procura generale presentati dal difensore di Ussia si chiede l’annullamento dell’ ordinanza.
2.1. Con il primo motivo di ricorso si deducono violazione di legge e vizio della motivazione circa l’ utilizzabilità delle chat acquisite in modalità live , i contenuti delle quali costituiscono l’ unica fonte di prova a sostegno della misura cautelare. Si adduce che l’ inoculazione del captatore informatico nel server di destinazione non è stata autorizzata da un pubblico ministero o da un giudice e si è svolta
utilizzando apparecchiature per la registrazione e per la conservazione allocate nei locali della Procura, né con adeguato supporto documentale delle modalità di acquisizione all’Estero . Si osserva che per l’ ordinamento italiano l’ inoculazione può avvenire solo in un dispositivo mobile non in un server per evitare le captazioni massive. Si argomenta che la regolare acquisizione della prova, tramite OEI (ordine europeo di indagine), dallo Stato estero non esclude che il giudice italiano debba verificare la sua ammissibilità alla stregua delle norme italiane e che un magistrato dello Stato estero deve asseverare la esistenza di gravi indizi di reato che giustifichino le intercettazioni necessarie per la prosecuzione delle indagini. Si rimarca che il fatto che le conversazioni siano state acquisite come documenti non elide la questione perché, come puntualizzato dalla Corte costituzionale, tali documenti comunque riguardano una corrispondenza.
2.2. Con il secondo motivo di ricorso si deducono violazione di legge e vizio della motivazione nel ravvisare l’esistenza di una associazione per delinquere ex art. 416bis cod. pen. senza verificarne la attuale operatività e, specificamente, la attualità della forza intimidatrice. Si osserva che le operazioni investigative riguardanti la cosca Gallace richiamate nella ordinanza non riguardano tutte tale cosca, concernono, comunque, fatti remoti e l’accertamento giudiziale della esistenza della cosca si arresta al 2018, mentre, per altro verso, la sua durata risulta circoscritta agli 11 mesi che vanno dal 25 novembre 2020 al 7 ottobre 2021, durante i quali il capo NOME COGNOME fu latitante.
2.3. Con il terzo motivo di ricorso si deducono violazione di legge e vizio della motivazione nel ravvisare l’aggravante ex art. 416. bis .1 cod. pen. Si precisa che il ricorrente ha interesse a contestare il riconoscimento della aggravante perché proprio in relazione a questa il Tribunale ha ritenuto adeguata la misura degli arresti domiciliari. Si osserva che l’aiuto fornito a NOME COGNOME non basta per ritenere che la condotta del ricorrente abbia agevolato l’associa zione criminale, perché, la procurata inosservanza di pena aiuta il singolo beneficiario, quantunque soggetto apicale, e non il gruppo criminale, dovendosi peraltro considerare che questi è zio di Ussia, e che l’aiuto fornito dal ricorrente è consistito nell’acco mpagnarne la moglie per tre giorni a Roma, mentre non risultano rapporti di Ussia con altri indagati nel presente procedimento.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo di ricorso è infondato.
Vanno richiamati i seguenti principi posti dalla Sezioni unite della Corte di cassazione nella materia (n. 23755 del 29/02/2024, COGNOME, Rv. 286573 e n. 23756 del 29/02/2024, COGNOME, Rv. 286589) e considerati dal Tribunale.
Le prove già in possesso delle autorità competenti dello Stato di esecuzione possono essere legittimamente richieste e acquisite dal pubblico ministero italiano senza la necessità di preventiva autorizzazione da parte del giudice del procedimento nel quale si intende utilizzarle (Sez. U, n. 23755 del 29/02/2024, Gjuzi, Rv. 286573);
La emissione, da parte del pubblico ministero, di un ordine europeo di indagine, per ottenere il contenuto di comunicazioni scambiate mediante criptofonini, già acquisite (inserendo un captatore informatico sui server di una piattaforma criptata) e decrittate dall’autorità giudiziaria estera in un procedimento penale pendente davanti a essa, è ammissibile perché concerne esiti investigativi ottenuti con modalità compatibili con l’ordinamento giuridico italiano e non deve essere preceduta da autorizzazione del giudice italiano, quale condizione necessaria ex art. 6 Direttiva 2014/41/UE, perché tale autorizzazione, nella disciplina nazionale relativa alla circolazione delle prove, non è richiesta per conseguire la disponibilità del contenuto di comunicazioni già acquisite in altro procedimento;
L’ art. 132 d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, relativo all’acquisizione dei dati concernenti il traffico di comunicazioni elettroniche e l’ubicazione dei dispositivi utilizzati, si applica alle richieste rivolte ai fornitori del servizio, ma non anche a quelle dirette a altra autorità giudiziaria che già detenga tali dati, sicché, in questo caso, il pubblico ministero può legittimamente accedere agli stessi senza chiedere preventiva autorizzazione al giudice davanti al quale intende utilizzarli;
La trasmissione del contenuto di comunicazioni scambiate mediante criptofonini, già acquisite e decrittate dall’autorità giudiziaria estera in una procedimento penale pendente davanti ad essa, non rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 234bis cod. proc. pen., che opera al di fuori delle ipotesi di collaborazione tra autorità giudiziarie, bensì nella disciplina relativa alla circolazione delle prove tra procedimenti penali, quale desumibile dagli artt. 238 e 270 cod. proc. pen. e 78 disp. att. cod. proc. pen.
L’impossibilità per la difesa di accedere all’algoritmo utilizzato nell’ambito di un sistema di comunicazioni digitali per criptare il testo delle stesse non determina una violazione dei diritti fondamentali, dovendo escludersi, salvo specifiche allegazioni di segno contrario, il pericolo di alterazione dei dati in quanto il contenuto di ciascun messaggio è inscindibilmente abbinato alla sua chiave di cifratura, e una chiave errata non ha alcuna possibilità di decriptarlo anche solo parzialmente;
L’ utilizzabilità del contenuto di comunicazioni scambiate mediante criptofonini, già acquisite e decrittate dall’autorità giudiziaria estera in un procedimento penale pendente davanti ad essa, e trasmesse sulla base di ordine
europeo di indagine, deve essere esclusa se il giudice italiano rileva che il loro impiego determinerebbe una violazione dei diritti fondamentali previsti dalla Costituzione e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, e, tra questi, del diritto di difesa e della garanzia di un giusto processo, fermo restando che l’onere di allegare e provare i fatti da cui inferire tale violazione grava sulla parte interessata.
Nelle sentenze richiamate, le Sezioni unite della Corte di cassazione non trascurano la possibile non coincidenza fra le normative dei due Stati (richiedente e richiesto), ma hanno ritenuto che solo la violazione di specifici diritti fondamentali potrebbe condurre a escludere l’acquisizione.
Invece, nel caso in esame, il ricorrente non adduce concrete violazione di diritti fondamentali.
Il secondo motivo di ricorso contesta l’esistenza di una associazione per delinquere ex art. 416bis cod. pen., il profilo della sua attuale operatività, con argomenti che concerne il merito del provvedimento ma non evidenziano manifeste illogicità della sua motivazione e, n ell’ordinanza relativa a analogo ricorso del coindagato Renda, il Tribunale ha analiticamente descritto molteplici e rilevanti elementi di valutazione indicativi del perdurare del controllo del territorio e della forza di intimidazione da parte della cosca dal 2020 e sino al marzo 2021 (p. 5-10 e note 3/7).
2.3. Anche il terzo motivo di ricorso, con cui si contesta del l’aggravante ex art. 416. bis .1 cod. pen. è infondato.
L’ordi nanza impugnata ha ricostruito le condotte di Ussia (p. 6-8), evidenziando che egli, assieme a altri, si attivò, su richiesta di COGNOME, per procurare documenti falsi al fine di agevolare la latitanza del capo della cosca a Roma, dove accompagnò anche la moglie e i figli di NOME.
Nella linea della giurisprudenza della Corte di cassazione, la circostanza aggravante è stata riconosciuta osservando che con la sua condotta NOME consentì a NOME di mantenere la reggenza della cosca (anche con le condotte specificamente descritte nell’ordinanza (p. 8 -9) e che la consapevolezza da parte di NOME del ruolo svolto da NOME si desume dal circoscritto contesto territoriale di provenienza, dai temi trattati non a caso tramite criptofonini, e dalle interazioni con gli altri fiancheggiatori.
L’aggravante dell’agevolazione mafiosa è configurabile nella condotta di chi consapevolmente aiuti a sottrarsi alla esecuzione della pena un capoclan in un ambito territoriale in cui è diffusa la sua notorietà, perché tale condotta si concretizza, sotto il profilo oggettivo, si concretizza in un ausilio al sodalizio, la cui
operatività sarebbe compromessa dall’arresto del suo capo, determinando un rafforzamento del suo potere oltre che di quello del soggetto favoreggiato e, sotto il profilo soggettivo, perché, essendo consapevolmente prestata in favore del capo riconosciuto, risulta sorretta dall’intenzione di favorire anche l’associazione (analogamente in relazione al reato di favoreggiamento personale: Sez. 6, n. 23241 del 11/02/2021, Rv. 281522; Sez. 6, n. 32386 del 28/03/2019, Rv. 276475; Sez. 2, n. 37762 del 12/05/2016, Rv. 268237).
Dal rigetto del ricorso deriva, ex art. 616 cod. proc pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 03/07/2025