Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 8474 Anno 2024
Penale Ord. Sez. 7 Num. 8474 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 14/02/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
NOME COGNOME nato il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 26/01/2023 della CORTE APPELLO di FIRENZE
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Firenze ha confermato la sentenza del G.U.P. del Tribunale di Livorno del 2 febbraio 2017, emessa a seguito di giudizio abbreviato, con la quale NOME COGNOME NOME era stato condannato alla pena di mesi quattro di reclusione ed euro ottocento di multa in relazione al reato di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990 (detenzione di gr. 23 di hashish suddiviso in 53 dosi e di un pezzo unico di gr. 62,02).
Il COGNOME, a mezzo del proprio difensore, ricorre per Cassazione avverso la sentenza della Corte di appello, proponendo due motivi di impugnazione.
2.1. Violazione di legge e vizio di motivazione in ordine all’omesso riconoscimento dell’ipotesi di uso personale non punibile.
2.2. Vizio di motivazione con riferimento al trattamento sanzionatorio.
Il ricorso è inammissibile.
Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Va premesso che, in base al consolidato principio affermato da questa Corte, in materia di stupefacenti, la valutazione in ordine alla destinazione della droga, ogni qualvolta la condotta non appaia indicativa della immediatezza del consumo, deve essere effettuata dal giudice di merito, tenendo conto di tutte le circostanze oggettive e soggettive del fatto, secondo parametri di apprezzamento sindacabili in sede di legittimità soltanto sotto il profilo della mancanza o della manifesta illogicità della motivazione (Sez. 4, n. 7191 del 11/01/2018, Gjoka, Rv. 272463).
Per effetto della sentenza del 12 febbraio 2014, n. 32 della Corte costituzionale, che ha dichiarato, tra l’altro, l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis, D.L. 30 dic bre 2005, n. 272, è stato ripristinato il testo dell’art. 73 d.P.R. 309/1990 anteriore alla sostituzione disposta dall’art. 4 bis del D.L. n. 272 del 2005 dichiarata incostituzionale. Successivamente, il comma 1-bis dell’art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990 ha reintrodotto, per il collegamento dell’art. 73 all’art. 75, la rilevanza amministrativa della sola destinazione ad uso esclusivamente personale.
Il comma 1-bis dell’art. 75, in vigore dal 21 maggio 2014, ha individuato i parametri, le circostanze di fatto – che rispecchiano gli indici elaborati dalla giurisprudenza nell’originario tessuto normativo e quelli già previsti nell’art. 73, comma 1-bis, lett. a), d.P.R. n. 309 del 1990, nel testo dichiarato incostituzionale – per l’accertamento della destinazione ad uso esclusivamente personale della sostanza stupefacente. Tali parametri, al contrario, devono essere adoperati per escludere l’uso esclusivamente personale e quindi per determinare la rilevanza penale della condotta.
Il primo parametro, sub a), è quello quantitativo: la quantità di sostanza stupefacente o psicotropa detenuta non deve essere superiore ai limiti massimi indicati con decreto del Ministro della salute.
Le altre circostanze di fatto indicate dalla norma sono relative alla modalità di presentazione delle sostanze stupefacenti o psicotrope, al peso lordo complessivo, al confezionamento frazionato; il giudice può prendere in esame poi le altre circostanze dell’azione, da cui risulti che le sostanze sono destinate ad un uso esclusivamente personale.
Ciò posto sui principi operanti in materia, nella sentenza impugnata, con motivazione logica e immune da censure, la destinazione a terzi delle sostanze stupefacenti è stata dedotta dal luogo di detenzione, dal tipo di confezionamento, dal possesso di dosi frazionate, dall’ammissione dell’imputato della cessione di una dose ad un giovane (come osservato dagli operatori di P.G.). Tali significativi dati consentivano di escludere il mero uso personale da parte dell’imputato.
La Corte territoriale, pertanto, ha fornito una risposta non manifestamente illogica alle doglianze espresse dal ricorrente, le quali, in realtà, benché inscenate sotto la prospettazione di violazioni di legge e di vizi della motivazione, si sviluppano tutte nell’orbita delle censure di merito.
4. Anche il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Va ricordato che la determinazione della misura della pena tra il minimo e il massimo edittale rientra nell’ampio potere discrezionale del giudice di merito, il quale assolve il suo compito anche se abbia valutato intuitivamente e globalmente gli elementi indicati nell’art. 133 cod. pen. (Sez. 4, n. 41702 del 20/09/2004, Nuciforo, Rv. 230278).
Il giudice del merito esercita la discrezionalità che la legge gli conferisce, attraverso l’enunciazione, anche sintetica, della eseguita valutazione di uno (o più) dei criteri indicati nell’art. 133 cod. pen. (Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, COGNOME, Rv. 271243; Sez. 3, n. 6877 del 26/10/2016, dep. 2017, S., Rv. 269196; Sez. 2, n. 12749 del 19/03/2008, COGNOME, Rv. 239754).
Il sindacato di legittimità sussiste solo quando la quantificazione costituisca il frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico.
Al contrario, nella fattispecie, la pena è stata correttamente commisurata in considerazione dello svolgimento dell’attività criminosa in un luogo frequentato occasionalmente anche da bambini e dei vari luoghi di custodia della droga.
Il ricorrente non si confronta con l’ampio apparato argomentativo della sentenza impugnata e prospetta censure in fatto, senza illustrare le ragioni per le quali, a suo avviso, si sarebbe dovuto irrogare il minimo di pena edittale e senza spiegare perché le modalità della condotta criminosa dovessero essere considerate rudimentali.
Per tali ragioni il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, non sussistendo ipotesi di esonero, al versamento di una somma alla Cassa delle ammende, determinabile in euro tremila, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen..
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila alla Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma il 14 febbraio 2024.