Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 21875 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 21875 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 09/04/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME NOME nato a PALERMO il 23/07/1979 COGNOME nato a PALERMO il 15/10/1971
avverso la sentenza del 26/09/2024 della CORTE APPELLO di PALERMO visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi; uditi i difensori:
Avv. NOME COGNOME per COGNOME NOME; Avv. NOME COGNOME per COGNOME che hanno concluso chiedendo l’accoglimento dei ricorsi;
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Palermo, in esito a giudizio abbreviato, ha confermato la sentenza del Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Palermo, emessa il 22 giugno 2022, che aveva condannato i ricorrenti alle pene di giustizia in relazione ai reati di truffa aggravata per
conseguimento di erogazioni pubbliche ed il solo Corrao Salvatore anche per il reato di omessa indicazione di informazioni rilevanti nella domanda finalizzata all’ottenimento del reddito di cittadinanza (art. 7, comma 1, d.l. n. 4 del 2019, convertito nella legge n. 26 del 2019).
I due reati di truffa rispettivamente ascritti ai ricorrenti (capi 3 e 6 de imputazione), erano consistiti nell’avere indebitamente percepito il reddito di cittadinanza senza dichiarare di essere stati condannati per dei reati ostativi.
Ricorrono per cassazione gli imputati, a mezzo dei loro rispettivi difensori e con distinti atti.
3. NOME NOME
3.1. Con il primo motivo di ricorso si deducono violazione di legge e vizio della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità.
La Corte non avrebbe attribuito la necessaria rilevanza alla circostanza che il ricorrente aveva presentato la domanda per l’ottenimento del reddito di cittadinanza il 7 marzo 2019; in quel momento, la normativa non prevedeva tra le cause ostative l’aver riportato una condanna definitiva per taluni reati nel decennio precedente.
Solo pochi giorni dopo rispetto alla presentazione della domanda, era stata introdotta tale condizione, con l’art. 2, comma 1, lett. c-bis della Legge n. 26 del 28 marzo 2019, entrata in vigore il 30 marzo 2019.
La sentenza impugnata non ha considerato che, nonostante l’introduzione della modifica normativa, nessun obbligo sarebbe spettato in capo al ricorrente di comunicare la circostanza di aver subito una condanna definitiva, in quanto l’ente pubblico sarebbe stato tutelato dalla possibilità, prevista dalla normativa di interesse, di revocare il beneficio concesso.
In ogni caso, una condotta meramente omissiva come quella commessa dal ricorrente, non potrebbe integrare il reato di cui all’art. 640-bis cod.pen., non costituendo artificio o raggiro.
3.2. Con il secondo motivo di ricorso, si deducono violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla qualificazione giuridica del fatto ai sensi dell’art. 640bis cod.pen. anziché quale indebita percezione di erogazioni pubbliche, ex art. 316-ter, secondo comma, cod.pen. e, dunque, quale illecito amministrativo, in considerazione del fatto che il ricorrente aveva indebitamente percepito 2.450,00 euro, somma inferiore al limite minimo individuato dalla norma al fine di conferire rilevanza penale al fatto.
L’imputato si sarebbe limitato in buona fede a compilare un modulo prestampato, non compiendo alcuna condotta volta ad indurre in errore l’ente pubblico erogante, in questo caso l’INPS, chiamato soltanto a prendere atto delle
dichiarazioni e attestazioni del richiedente il beneficio, senza lo svolgimento di alcuna autonoma attività di accertamento.
La sola omissione della comunicazione della circostanza ostativa sopravvenuta non costituirebbe artificio o raggiro ed, in questo senso, nel ricorso si fa ampio richiamo alla giurisprudenza di legittimità.
3.3. Con il terzo motivo si deducono violazione di legge e vizio di motivazione quanto all’applicazione della recidiva ed al diniego delle circostanze attenuanti generiche, che il ricorrente assume non giustificate anche alla stregua del modesto disvalore del fatto.
4. Corrao Salvatore.
4.1. Con il primo motivo di ricorso si deducono censure sovrapponibili a quelle del ricorrente COGNOME COGNOME a proposito della sussistenza del reato di cui all’art. 640-bis cod.pen., in particolare in ordine all’assenza di un obbligo in capo al ricorrente di comunicare una circostanza ostativa sopravvenuta rispetto al momento di presentazione della domanda per l’ottenimento del reddito di cittadinanza.
Si aggiunge, con specifico riguardo al reato di cui all’art. 7, comma 1, d.l. n. 4 del 2019 (contestato al solo COGNOME Salvatore), che la domanda del ricorrente, consistente in una autodichiarazione, era priva di sottoscrizione, da ciò non potendosene ritenere la falsità.
4.2. Con il secondo motivo di ricorso si deducono censure sovrapponibili a quelle del primo ricorrente a proposito della qualificazione giuridica del fatto ai sensi dell’art. 640-bis cod.pen. piuttosto che ai sensi dell’art. 316-ter, secondo comma, cod.pen. ed, in questa prospettiva, anche quanto percepito dal ricorrente era stato inferiore al limite minimo previsto dalla norma ai fini della rilevanza penale del fatto.
4.3. Con il terzo motivo si deducono violazione di legge e vizio di motivazione in ordine all’applicazione della recidiva, al diniego delle circostanze attenuanti generiche ed alla entità dell’aumento di pena in continuazione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi, proposti per motivi complessivamente infondati, devono essere rigettati.
1. NOME
1.1. Quanto al primo motivo di ricorso – comune ad entrambi i ricorrenti e che può essere qui trattato con riguardo alla posizione di entrambi – non è in discussione il fatto che gli imputati avevano presentato la domanda per ottenere
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il reddito di cittadinanza in data antecedente rispetto all’introduzione della norma che prevedeva quale condizione ostativa alla percezione del contributo la circostanza di non avere subito condanne definitive nei dieci anni antecedenti, sicché, tenuto conto dei loro carichi penali definitivi, essi non avrebbero potuto continuare a beneficiarne.
Infatti, come ha correttamente osservato la sentenza impugnata, il possesso dei requisiti doveva essere mantenuto per tutta la durata del contributo, a pena di revoca.
Tanto si deduce anche dalla norma transitoria introdotta dalla legge n. 26 del 28 marzo 2019, di conversione del dl. n. 4 del 28 gennaio 2019, la quale, all’ad 13, comma 1-bis, stabiliva che “sono fatte salve le richieste del Rdc presentate sulla base della disciplina vigente prima della data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. I benefici riconosciuti sulla base delle predette richieste sono erogati per un periodo non superiore a sei mesi pur in assenza dell’eventuale ulteriore certificazione, documentazione o dichiarazione sul possesso dei requisiti, richiesta in forza delle disposizioni introdotte dalla legge di conversione del presente decreto ai fini dell’accesso al beneficio”.
Ne consegue che i ricorrenti, per poter continuare a beneficiare del reddito di cittadinanza, avrebbero dovuto comunicare, nel termine previsto dalla norma appena richiamata, la sussistenza di precedenti penali ostativi, circostanza che avrebbe determinato inevitabilmente la revoca del beneficio al quale entrambi avevano avuto legittimo accesso.
Tanto non era avvenuto.
Si è trattato, dunque, di un comportamento omissivo inerente ad un dato decisivo per l’ottenimento (rectius, il mantenimento) del contributo, il quale, se rivelato, ne avrebbe comportato la revoca; da ciò, la sua antigiuridicità (penalmente rilevante secondo quanto qui di seguito chiarito).
Davanti a tale dato oggettivo (l’omissione di un dato decisivo), che i ricorrenti non contestano, i ricorsi dubitano della sussistenza del dolo.
Sulla questione – che involge principi giuridici di carattere generale sulla ignoranza della legge penale, che hanno come matrice la disposizione di cui all’art. 5 cod.pen. – la giurisprudenza di questa Corte, qui condivisa, ha già avuto modo di stabilire che, in tema di false dichiarazioni finalizzate all’ottenimento del reddito di cittadinanza, l’ignoranza o l’errore circa la sussistenza del diritto percepirne l’erogazione, in difetto dei requisiti a tal fine richiesti dall’art. 2 d. gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, in legge 28 marzo 2019, n. 26, si risolve in un errore su legge penale, che non esclude la sussistenza del dolo ex art. 5 cod. pen., in quanto l’anzidetta disposizione integra il precetto penale di cui all’art. 7 del citato dl. (In motivazione, la Corte ha aggiunto che non ricorre
neanche un caso di inevitabilità dell’ignoranza della legge penale, non presentando la normativa in tema di concessione del reddito di cittadinanza connotati di cripticità tali da far ritenere l’oscurità del precetto) (Sez. 2, n. 232 del 07/05/2024, El Hadraoui, Rv. 286413-01).
Il principio di diritto appena richiamato deve essere applicato, per identità di ratio, non solo alla conoscenza (o, di converso, ignoranza), da parte del richiedente il beneficio, dei requisiti per l’accesso ad esso, ma anche per quanto attiene al mantenimento dei requisiti previsti dalla legge durante il periodo di percezione del beneficio.
Nel che, l’infondatezza del primo motivo di entrambi i ricorsi.
1.2. Il secondo motivo, anch’esso per buona parte comune ad entrambi i ricorrenti (salvo quanto più avanti precisato in relazione alla specifica posizione del ricorrente COGNOME), è pure infondato.
1.2.1. Esso attiene alla qualificazione giuridica del fatto, il quale, se ricondot nell’alveo dell’art. 316-ter cod.pen., anziché come ipotesi di truffa aggravata ai sensi dell’art. 640-bis cod.pen., non sarebbe penalmente rilevante in quanto la somma indebitamente percepita da entrambi i ricorrenti era stata inferiore ad euro 3.999,96, sicché troverebbe applicazione l’art. 316-ter, secondo comma, cod.pen. e la condotta avrebbe rilievo solo come illecito amministrativo.
1.2.2. Non è contestato da alcuno il basilare principio di diritto secondo cui, il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche di cui all’art. 316-ter cod.pen., si differenzia da quello di truffa aggravata ex art. 640-bis cod.pen., per la mancata inclusione, tra gli elementi costitutivi, della induzione in errore del soggetto erogatore, che invece connota la truffa. Nel caso della indebita percezione di cui al primo reato, il soggetto erogatore è chiamato esclusivamente ad operare una presa d’atto dell’esistenza della formale dichiarazione da parte del privato dei possesso dei requisiti autocertificati e non anche a compiere un’autonoma attività di accertamento (tra le tante, Sez. F, n. 44878 del 06/08/2019, COGNOME, Rv. 279036; Sez. 6, n. 51962 del 02/10/2018, Muggianu, Rv. 274510; Sez. 2, n. 23163 del 12/04/2016, COGNOME, Rv. 266979).
Rispetto a tale assunto giuridico occorrono alcune precisazioni.
1.2.3. Le Sezioni Unite della Corte di cassazione, nella sentenza n. 16568 del 19/04/2007, RAGIONE_SOCIALE hanno indicato alcuni principi cardine che non sono mai stati messi in discussione dalla giurisprudenza successiva.
In primo luogo, il fatto che la verifica circa la distinzione tra i due reati deb avvenire caso per caso proprio in forza della problematicità astratta della questione.
In secondo luogo, che l’applicazione dell’art. 316-ter cod.pen. deve avere carattere residuale, consono alla sua natura di norma volta ad «estendere la
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punibilità a condotte decettive non incluse nella fattispecie di truffa» (fg. 7 dell sentenza SS.UU. Carchivi), come dimostra anche il fatto che il legislatore, nel delineare la fattispecie, ha previsto una apposita clausola di riserva (“salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall’art. 640-bis cod.pen.”).
E tale carattere residuale, indirizzato a limitare la portata applicativa dell’art. 31 ter cod.pen. a «situazioni del tutto marginali», ne riduce l’ambito a condotte come «il silenzio antidoveroso», ovvero a quelle che non inducano «effettivamente in errore l’autore della disposizione patrimoniale».
A questo proposito, fin da quella decisione si era evidenziato come particolarmente problematico il caso in cui «il procedimento di erogazione delle pubbliche sovvenzioni non presuppone l’effettivo accertamento da parte dell’erogatore dei presupposti del singolo contributo ma ammette che il riconoscimento e la stessa determinazione del contributo siano fondati, almeno in via provvisoria, sulla mera dichiarazione del soggetto interessato, riservando eventualmente a una fase successiva le opportune verifiche. Sicché in questi casi, l’erogazione può non dipendere da una falsa rappresentazione dei suoi presupposti da parte dell’erogatore, che in realtà si rappresenta correttamente solo l’esistenza della formale dichiarazione del richiedente. D’altro canto l’effettivo realizzarsi di una falsa rappresentazione della realtà da parte dell’erogatore, con la conseguente integrazione degli estremi della truffa, può dipendere, oltre che dalla disciplina normativa del procedimento, anche dalle modalità effettive del suo svolgimento nel singolo caso concreto» (fgg. 8 e 9, della sentenza SS.UU. Carchivi).
1.2.4. La successiva sentenza delle SS.UU. di questa Corte n. 7537 del 16/12/2010, dep. 2011, COGNOME, ha ribadito tutti i citati principi, rimarcando ancora il carattere sussidiario e residuale dell’art. 316-ter cod.pen. rispetto all truffa (anche citando, in proposito, l’ordinanza della Corte cost. n. 95 del 2004), la valutazione in concreto e caso per caso dell’accertamento in ordine alla sussistenza degli artifici e raggiri e della induzione in errore, stabilendo che «l’art 316-ter cod.pen. punisce condotte decettive non incluse nella fattispecie di truffa, caratterizzate (oltre che dal silenzio antidoveroso) da false dichiarazioni o dall’uso di atti o documenti falsi, ma nelle quali l’erogazione non discende da una falsa rappresentazione dei suoi presupposti da parte dell’ente pubblico erogatore, che non viene indotto in errore perché in realtà si rappresenta solo l’esistenza della formale attestazione del richiedente» (fgg. 7 e 8 della sentenza SS.UU. COGNOME). 1.2.5. E’ in queste affermazioni che si possono cogliere gli elementi che devono guidare l’interprete nei singoli casi concreti. Nelle ipotesi in cui la condotta illeci per le sue modalità – adeguate alla specifica normativa del singolo procedimento – si esaurisca in una falsa dichiarazione all’ente erogatore, potrà aversi il reato di
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cui all’art. 316-ter cod.pen., dal momento che l’ente, in assenza di controlli preventivi e, dunque, di una autonoma e preliminare attività di accertamento, baserà la sua potestà deliberativa a favore del richiedente l’incentivo solo sulla effettiva esistenza della dichiarazione mendace che costituisce sostanzialmente l’unica condotta penalmente rilevante messa in atto dall’agente, vale a dire il fatto di reato in sé, che può prescindere dalla esistenza di artifici e raggiri pu rimanendo penalmente rilevante in quanto punito dalla fattispecie residuale (“chiunque mediante l’utilizzo di dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante l’omissione di informazioni dovute, consegue…”).
Non è un caso, infatti, che le sentenze volte a ritenere sussistente il reato di cui all’art. 316-ter cod.pen. – ivi comprese quelle delle SS.UU. prima citate – abbiano avuto al cospetto casi concreti nei quali, da un lato, il procedimento per l’erogazione di un qualche beneficio pubblico era assai semplice; dall’altro, la condotta dell’agente si esauriva nella presentazione della dichiarazione falsa, della cui (sola) esistenza l’ente prendeva atto (cosi in Sez. 2, n. 6915 del 25/01/2011, COGNOME, Rv. 249470; Sez. 2, n. 46064 del 19/10/2012, COGNOME, Rv. 254354, Sez. 2, n. 49642 del 17/10/2014, Ragusa, Rv. 261000, Sez. 6, n. 51962 del 02/10/2018, Muggianu, Rv. 274510).
1.2.6. La recente sentenza delle SS.UU. n. 11969 del 28/11/2024, RAGIONE_SOCIALE seppur inerente, nello specifico, a diversa questione giuridica, non ha mancato di sottolineare esplicitamente di porsi in continuità rispetto ai principi stabiliti dalle SS.UU. RAGIONE_SOCIALE e COGNOME (par. 6, da pag. 15 della motivazione).
1.2.7. Alla luce di tali principi giuridici, la sussunzione di una condotta omissiva antidoverosa nell’ambito dell’una o dell’altra fattispecie incriminatrice – e, cioè se tale tipo di condotta abbia costituito o meno un artificio o raggiro – dipenderà da un accertamento caso per caso in relazione alla struttura del singolo procedimento amministrativo nel quale si inserisce.
1.2.8. Nel caso in esame, la sentenza impugnata ha correttamente richiamato la normativa inerente al reddito di cittadinanza, così come esaminata e ricostruita anche dalla sentenza delle SS.UU. di questa Corte n. 49686 del 13/07/2023, Giudice, secondo cui: “Il beneficio è riconosciuto se ne ricorrono le condizioni. A tal fine, la domanda deve essere comunicata all’INPS entro dieci giorni lavorativi dalla richiesta; nei successivi cinque giorni lavorativi l’INPS verifica il possesso dei requisiti per l’accesso al Rdc sulla base delle informazioni disponibili nei propri archivi e in quelli delle amministrazioni titolari dei dati (anagrafe tributaria, il e le altre amministrazioni pubbliche detentrici dei dati). I Comuni devono a loro volta accertare il possesso dei requisiti di residenza e soggiorno di cui all’art. 2, comma 1, lett. a) (art. 5, commi 3, 4, 4-bis, 4-ter, 4-quater)”…La revoca è disposta sia in caso di condanna per uno dei reati di cui all’art. 7, commi 1 e 2, o
per uno dei reati indicati dal comma 3 del medesimo articolo (il cui elenco è stato incrementato dalla legge n. 234 del 2021 a decorrere dal 1 gennaio 2022), sia quando l’amministrazione erogante accerta la non corrispondenza al vero delle dichiarazioni e delle informazioni poste a fondamento dell’istanza ovvero l’omessa successiva comunicazione di qualsiasi intervenuta variazione del reddito, del patrimonio e della composizione del nucleo familiare dell’istante. La revoca ha efficacia retroattiva ed il beneficiario è tenuto alla restituzione di quan indebitamente percepito” (fgg. 6 e 7 della motivazione).
Non vi è dubbio, pertanto, che si rientra in un caso nel quale, stante la presenza di controlli preventivi da parte della pubblica amministrazione ai fini della erogazione del beneficio – che non baserà l’esercizio della sua potestà solo sulla esistenza delle dichiarazioni dell’istante – la condotta omissiva antidoverosa commessa dai ricorrenti deve essere qualificata come truffa aggravata ai sensi dell’art. 640-bis cod.pen., avendo integrato il raggiro che connota tale fattispecie incriminatrice.
1.3. Il terzo motivo è manifestamente infondato in quanto la Corte di appello, a fg. 7 della sentenza impugnata, ha offerto una motivazione adeguata, con la quale il ricorso non si confronta, sia con riguardo all’applicazione della recidiva, sia con riguardo al diniego delle circostanze attenuanti generiche, sottolineando la presenza di precedenti penali anche gravi e di tipo lucrogenetico al fine di giustificare la maggiore pericolosità sociale e capacità criminale del ricorrente e la impossibilità di riconoscere benefici.
In proposito, si ricordi il principio secondo cui, in tema di recidiva facoltativa richiesta al giudice una specifica motivazione sia che egli affermi sia che escluda la sussistenza della stessa (in motivazione la Corte ha chiarito che tale dovere risulta adempiuto nel caso in cui, con argomentazione succinta, si dia conto del fatto che la condotta costituisce significativa prosecuzione di un processo delinquenziale già avviato; Sez. 6, n. 56972 del 20/06/2018, Franco, Rv. 274782).
Inoltre, ai fini della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti generiche è sufficiente che il giudice di merito prenda in esame quello, tra gli elementi indicati dall’art. 133 cod. pen., che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno la concessione del beneficio; ed anche un solo elemento che attiene alla personalità del colpevole o all’entità del reato ed alle modalità d esecuzione di esso può essere sufficiente per negare o concedere le attenuanti medesime. (Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Marigliano, Rv. 279549; Sez. 2, n. 4790 del 16.1.1996, Romeo, rv. 204768).
2. Corrao Salvatore.
2.1. Quanto al primo motivo, si rinvia a quanto esplicitato in relazione alla posizione di COGNOME NOMECOGNOME stante la sovrapponibilità delle censure.
Va, però, precisato quanto segue.
La circostanza che il ricorrente avesse presentato la domanda per l’ottenimento del reddito di cittadinanza attraverso una autodichiarazione non sottoscritta – e,
come tale, secondo il ricorso, non idonea ad integrare il reato di cui all’art. 7 dl n. 4/2019, convertito nella legge n. 26/2019, contestatogli al capo 7) – non ha
rilievo ai fini della integrazione del reato.
Sul punto, deve condividersi il principio di diritto secondo il quale, integra il deli di cui all’art. 7, comma 1, d.l. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con
modificazioni, in legge 28 marzo 2019, n. 26, la falsa attestazione contenuta in un’istanza inoltrata in via telematica all’INPS in funzione dell’ottenimento del
reddito di cittadinanza, non sottoscritta con le modalità previste dall’art. 65, comma 1, d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82 (cd. codice dell’amministrazione digitale),
atteso che l’irrituale sottoscrizione, non determinando l’inesistenza della richiesta, non le preclude di produrre l’effetto costituito dall’erogazione de sussidio (Sez. 3, n. 32763 del 11/06/2024, Hamza, Rv. 286736-01).
2.2. In ordine al secondo ed al terzo motivo, si rinvia alla posizione di COGNOME NOME, stante la sovrapponibilità delle questioni dedotte e delle valutazioni sulla personalità del ricorrente ai fini dell’applicazione della recidiva e del diniego dell circostanze attenuanti generiche, a fronte anche di un motivo di appello generico su tali ultimi punti e su quello inerente alla entità dell’aumento di pena in continuazione, che rileva per il solo COGNOME.
Al rigetto dei ricorsi segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso, il 09.04.2025.