Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 47051 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 47051 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 02/10/2024
SENTENZA
Sui ricorsi proposti da:
COGNOME NOME nato a Rovigo il 18/08/1971 rappresentato e difeso dall’avv. NOME COGNOME di fiducia
COGNOME nato a Rovigo il 19/07/1967, rappresentato e difeso dall’avv. NOME COGNOME di fiducia avverso la sentenza del 20/10/2023 della Corte di appello di Venezia, seconda sezione penale;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
preso atto che non è stata richiesta dalle parti la trattazione orale ai sensi degli artt. 611, comma 1-bis cod. proc. pen., 23, comma 8, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito con modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, prorogato in forza dell’art. 5-duodecies del d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 dicembre 2022, n. 199 e, da ultimo, dall’art. 17 del d.l. 22 giugno 2023, n. 75, convertito con modificazioni dalla legge 10 agosto
2023, n. 112 e che, conseguentemente, il procedimento viene trattato con contraddittorio scritto; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria scritta ex art. 23, comma 8, del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176 e succ. modif., depositata in data 16/09/2024 con la quale il sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME ha concluso chiedendo che si dichiari l’inammissibilità dei ricorsi; lette le conclusioni scritte depositate in data 17/09/2024 dalla Avvocatura Regionale nell’interesse della parte civile Regione Veneto che ha chiesto il rigetto dei ricorsi e ha depositato nota spese; preso atto che i difensori dei ricorrenti non hanno depositato conclusioni scritte;
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Venezia ha confermato, in punto di responsabilità, la pronunzia emessa in data 01/06/2022 dal Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Rovigo che, all’esito di giudizio abbreviato, aveva dichiarato NOME COGNOME e NOME COGNOME responsabili, in concorso tra loro, del delitto di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche commesso in danno della Regione Veneto.
In punto di trattamento sanzionatorio, ha rideterminato la pena inflitta a NOME COGNOME in un anno e due mesi di reclusione ed euro 500,00 di multa, previo riconoscimento allo stesso di attenuanti generiche stimate equivalenti alle contestate aggravanti, con i benefici della sospensione condizionale e della non menzione e con la revoca della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per anni cinque.
In punto di statuizioni risarcitorie, ha confermato la condanna di entrambi gli imputati al risarcimento dei danni subiti dalla parte civile Regione Veneto, revocando, tuttavia, l’assegnazione della provvisionale liquidata dal giudice di primo grado nella misura di euro 400.000,00.
Ha confermato, infine, la statuizione di confisca, ai sensi dell’art. 640-quater cod. pen., del profitto del reato, pari a euro 963.932,22, disposta in via diretta nei confronti di RAGIONE_SOCIALE e, ove non possibile, per equivalente nei confronti di entrambi gli imputati.
L’ addebito mosso agli imputati per il quale è intervenuta dichiarazione di responsabilità è quello di avere, in concorso tra loro, posto in essere artifici e raggiri consistiti nel presentare alla regione Veneto due domande di ammissione a contributo in conto capitale per interventi di restauro rispettivamente delle chiese
parrocchiali di San Zenone Vescovo- Borsea e di San Floriano Martire di Mardinnago contenenti dichiarazioni mendaci, così inducendo in errore i funzionari della Regione Veneto- Sezione Beni culturali che erogavano per tali opere i seguenti contributi:
euro 490.000,00 in favore della Parrocchia di San Zenone Vescovo- Borsea;
euro 473.932.22,00 in favore della Parrocchia INDIRIZZO di Mardimago con conseguente ingiusto profitto per le due parrocchie beneficiarie e pari danno per la regione Veneto.
In particolare, a NOME COGNOME (in qualità di responsabile unico del procedimento e di validatore del processo esecutivo relativo alle domande di ammissione a contributo) era contestato di avere attestato falsamente:
-nelle schede tecniche di descrizione ed analisi dell’intervento, allegate alla domanda di contributo per il restauro della chiesa di San Zenone Vescovo- Borsea presentata il 18/12/2014 dal legale rappresentante COGNOME COGNOME e a quella per il restauro della chiesa San Floriano Martire di Mardinnago presentata in pari data dal legale rappresentante COGNOME che il livello di progettazione esecutiva di ciascuna opera risultava approvata con autorizzazioni della competente Soprintendenza rilasciate rispettivamente il 21/08/2013 e il 17/11/2014 per la parrocchia di San Zenone Vescovo- Borsea e il 09/10/2013 e il 17/11/2014 per la parrocchia San Floriano Martire di Mardimago;
-nell’atto di verifica e validazione del progetto, allegata alle domande di contributo di cui sopra, che il progetto medesimo risultava idoneo all’esecutività immediata dell’opera;
quando invece le autorizzazioni della competente Soprintendenza per il progetto impiantistico e di restauro interno erano state concesse, quanto alla parrocchia di San Zenone Vescovo- Borsea, il 23/07/2015 e, quanto alla parrocchia San Floriano Martire di Mardimago, il 24/06/2015 e il 06/07/2016, sicchè alla data di presentazione della domanda di ammissione al contributo, il progetto non risultava idoneo alla esecutività immediata delle opere.
A NOME COGNOMEin qualità di legale rappresentante della società RAGIONE_SOCIALE e di appaltatore dei lavori di restauro dei due immobili) era contestato di avere concorso alla materiale predisposizione degli atti a corredo di entrambe le domande per l’erogazione del contributo.
Hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati, tramite i rispettivi difensori di fiducia.
Nell’interesse di NOME COGNOME sono stati articolati i seguenti motivi.
3.1. Con il primo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. e) cod. proc. pen., la mancanza di motivazione in ordine alla deduzione difensiva, sviluppata nel primo motivo di appello, con la quale si era rappresentata l’unicità del progetto di intervento restaurativo che si componeva di numerosi diversi lavori il cui svolgimento doveva necessariamente procedere per fasi successive in base alla disponibilità del denaro necessario alla loro realizzazione, circostanze di cui erano perfettamente a conoscenza sia la Diocesi che la stessa Regione Veneto.
3.2. Con il secondo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. e) cod. proc. pen., la mancanza di motivazione in merito alla deduzione difensiva, sviluppata sempre nel primo motivo di appello, con la quale si era rappresentata la veridicità dell’ attestazione contenuta nella scheda tecnica di descrizione e di analisi dell’intervento allegate alle due domande di contributo, con le quali si dichiarava che il livello di progettazione era esecutivo.
In particolare, la difesa aveva evidenziato che il progetto, per definirsi tale, deve essere composto da una serie di documenti tassativamente elencati dall’art. 33 D.L.vo n. 207 del 2010 tra i quali non figura in alcun modo l’ autorizzazione della Soprintendenza, neppure richiesta dagli artt. 45 e 52 del medesimo decreto. La definizione di progetto esecutivo era, invece, esclusivamente legata alla sua approvazione da parte dell’Ordine Diocesiano che era interveniva prima dell’invio della domanda di ammissione al contributo e che era stata indicata dalla Regione Veneto come condizione di ammissibilità per la partecipazione al bando; l’autorizzazione della Soprintendenza era un elemento solo eventuale che avrebbe comportato unicamente l’attribuzione di un maggior punteggio.
Rispetto a tale puntuali rilievi sviluppati nel primo motivo di appello, la Corte territoriale non si è pronunciata.
3.3. Con il terzo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. e) cod. proc. pen., la mancanza e comunque illogicità di motivazione in merito alla deduzione difensiva, sviluppata sempre nel primo motivo di appello, con la quale si era rappresentata l’assenza in capo a COGNOME di intenti fraudolenti e quindi la sua totale buona fede.
A sostegno di tale assunto, si era sottolineato che l’imputato aveva allegato alle domande di partecipazione al bando della Regione Veneto presentate il 18 dicembre 2014 l’intera documentazione esistente in ordine al progetto di restauro, comprensiva di tutte le autorizzazioni sino a quel momento ottenute dalla Soprintendenza (anche indicando precisamente sia la data che il numero di protocollo) e relative solo ad una parte e non alla totalità dei lavori. Se davvero avesse voluto far credere che tutti i lavori da eseguire erano stati assentiti, mai avrebbe consegnato alla Regione atti dai quali risultava chiaramente come le autorizzazioni rilasciate riguardavano solo una parte delle opere da eseguire; al
contrario, avrebbe predisposto autorizzazioni fittizie ad hoc che andassero a “coprire” quelle mancanti.
A fronte di tali deduzioni la Corte di appello non ha fornito alcuna motivazione circa l’infondatezza delle stesse e, invece, con assunto illogico ed inconferente, ha affermato che la mancanza di attenzione e diligenza della Regione Veneto non escludeva l’idoneità ingannatoria.
3.4. Con il quarto motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. e) cod. proc. pen., la mancanza di motivazione in merito alla deduzione difensiva, sviluppata sempre nel primo motivo di appello, con la quale si era rappresentata la corrispondenza al vero di quanto dichiarato da COGNOME nell’atto di verifica e validazione del progetto (allegato 7 alle domande di contributo) nella parte in cui si attestava la coerenza ed esaustività dell’integrazione progettuale approvata dalla Soprintendenza.
Al riguardo, si era evidenziata l’effettiva esistenza, in relazione ad entrambe le chiese, di integrazioni alla prima autorizzazione del 2013 che erano state rilasciate in data 17.11.2014 con prot. n. 30077 per l’edificio di Borsea e prot. n. 30084 per quella di Mardimago. La successione cronologica era stata la seguente: vi era stata una domanda con relativa autorizzazione del 2013 ed una seconda di integrazione rilasciata, appunto, il 17 novembre 2014, entrambe relative alla prima fase dei lavori; successivamente alla presentazione della domanda di ammissione al bando vi era stata una ulteriore richiesta di autorizzazione con relativo rilascio (avente ad oggetto l’impiantistica e cioè la seconda fase dei lavori) avvenuto il 23 luglio 2015 per la chiesa di Borsea e il 24 giugno 2015, con ulteriore integrazione del 6 luglio 2015 per la chiesa di Mardima o. L’integrazione citata nella domanda di ammissione al contributo regionale era riferita unicamente alla prima fase dei lavori e non alla seconda.
Nell’atto di appello si era inoltre evidenziato che l’attestazione resa da COGNOME in ordine al fatto che il progetto fosse idoneo alla esecutività immediata dell’opera significava che esso rispondeva a tutti i requisiti tecnici e cioè era stato approvato dall’Ordine Diocesiano, non, invece, che fosse già stata ottenuta l’autorizzazione della Soprintendenza; proprio l’avere, in totale trasparenza, materialmente allegato alla domanda di contributo autorizzazioni che non erano relative all’intero progetto esecutivo e che sarebbero state oggetto di scrupoloso controllo da parte della Regione, dimostrava ulteriormente la buona fede dell’imputato.
Anche tali specifici rilievi non hanno trovato risposta alcuna nella sentenza impugnata.
3.5. Con il quinto motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. e) cod. proc. pen., la mancanza di motivazione in merito alla deduzione difensiva, sviluppata sempre nel primo motivo di appello, con la quale si era evidenziato il
compenso estremamente modesto percepito da COGNOME per l’attività di responsabile unico dei procedimenti relativi alle domande di ammissione al contributo regionale (solo 500 euro per ciascuna chiesa), circostanza che rende illogico ipotizzare che l’imputato, stimato professionista, si sia prestato a realizzare una truffa ai danni della Regione Veneto rischiando sanzioni penali, oneri risarcitori e perdita di credibilità.
Anche con riferimento a tale profilo la Corte di appello nulla ha motivato.
3.6. Con il sesto motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. e) cod. proc. pen., la mancanza di motivazione in merito alla deduzione difensiva, sviluppata sempre nel primo motivo di appello, con la quale si era rappresentato che COGNOME aveva svolto la medesima attività oggetto di contestazione nel presente procedimento anche per altri due edifici religiosi (le chiese di Boara e di Sarzano), beneficiando delle sovvenzioni regionali tramite il medesimo bando parrocchie, senza che venisse rilevata alcuna condotta di rilievo penale, nonostante le identiche modalità.
3.7. Con il settimo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. e) cod. proc. pen., la mancanza, la contraddittorietà e l’illogicità della motivazione della sentenza impugnata in ordine alla sussistenza degli artifizi e raggiri in capo all’imputato che non si sarebbe confrontata con quanto dedotto specificamente nel primo motivo di appello ove erano state evidenziate molteplici circostanze atte a dimostrare l’assenza di una condotta decettiva (convinzione da parte del COGNOME che non fosse necessaria l’autorizzazione della Soprintendenza ai fini della ammissibilità delle domande di contributo; l’indicazione al punto A9 dell’allegato 2 delle sole autorizzazioni rilasciate fino a quel momento, con relativi estremi identificativi, in tal modo illustrando con massima trasparenza la situazione fattuale effettivamente esistente al momento della partecipazione al bando; il non avere mai dichiarato che le autorizzazioni indicate e materialmente consegnate alla Regione, con la consapevolezza degli stringenti controlli, fossero relative alla seconda fase dei lavori; l’irrisorio compenso ricevuto per l’attività professionale svolta; la mancanza di benefici personali rispetto ai contributi elargiti dalla Regione Veneto; il fatto che COGNOME avesse svolto i medesimi incombenti per altre due parrocchie nello stesso periodo storico e con le stesse modalità, senza la contestazione di alcuna irregolarità; la circostanza che, successivamente alla presentazione delle domande di contributo, l’imputato avesse consegnato alla regione Veneto le autorizzazioni relative alla seconda fase dei lavori; il fatto che il denaro elargito fosse stato effettivamente impiegato per lo scopo previsto).
Rispetto a tali rilievi, la Corte di appello ha omesso di motivare in ordine alla loro infondatezza e si è limitata ad affermare genericamente che le dichiarazioni rese da COGNOME erano inveritiere, fornendo al riguardo una spiegazione illogica,
non sostenuta da alcun elemento probatorio e contradditoria rispetto alle emergenze probatorie.
3.8. Con l’ottavo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. e) cod. proc. pen., la mancanza di motivazione in ordine a quanto prospettato nell’atto di appello circa l’assenza di un ingiusto profitto in quanto il contribu erogato dalla kegione Veneto era stato utilizzato esclusivamente e rigorosamente per la realizzazione dei lavori oggetto della domanda di ammissione.
3.9. Con il nono motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. e) cod. proc. pen., la mancanza di motivazione in ordine a quanto prospettato nell’atto di appello circa l’insussistenza dell’elemento costitutivo del reato di truff rappresentato dall’altrui danno in capo alla Regione Veneto.
3.10. Con il decimo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. b) cod. proc. pen., l’inosservanza ed erronea applicazione di norme giuridiche di cui si deve tenere conto nella applicazione della legge penale, in particolare degli artt. 33, 45, 52 del D.L.vo n. 207 del 2010.
La Corte di appello ha affermato la necessità del conseguimento di una preventiva autorizzazione della Soprintendenza quale requisito ai fini della ammissione al bando, quando invece essa non era richiesta dalla normativa.
3.11. Con l’undicesimo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. b) ed e) cod. proc. pen., l’inosservanza ed erronea applicazione della legge penale con riferimento agli artt. 640-quater e 322-ter cod. pen., nonché vizio di motivazione in ordine a quanto prospettato nel terzo motivo di appello circa l’esclusione della applicabilità della confisca diretta o per equivalente.
Al riguardo, si era dedotto che il denaro stanziato dalla Regione Veneto non può considerarsi profitto o prezzo del contestato reato di truffa poiché esso è stato speso esclusivamente per la realizzazione dei lavori oggetto del bando.
La Corte territoriale si è semplicemente limitata ad affermare che il profitto confiscabile del reato di cui all’art. 640-bis cod. pen. deve essere individuato nell’intero importo erogato.
Nell’interesse di NOME COGNOME sono stati articolati i seguenti motivi.
4.1. Con il primo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. e) cod. proc. pen., la manifesta illogicità, contraddittorietà e mancanza della motivazione in ordine alla deduzione difensiva, sviluppata nell’atto di appello, con la quale si era rappresentata l’unicità del progetto che prevedeva due fasi di lavoro.
È viziato l’argomentare della Corte di appello laddove si afferma che il progetto non era unico poiché i lavori delle due chiese erano già terminati al momento della presentazione della domanda di ammissione al bando.
I giudici di secondo grado hanno tratto tale convinzione dalle dichiarazioni rese dal consulente del pubblico ministero architetto COGNOME dalle sommarie informazioni testimoniali rilasciate dall’architetto COGNOME e dalla circostanza che contratti di appalto predisposti da COGNOME Marco nel 2014 e relativi ai lavori della fase uno non prevedessero alcuna prosecuzione.
L’architetto COGNOME si è espresso in tal senso aggiungendo che, prima della pubblicazione del bando regionale, non era presente alcun progetto di restauro relativo alle opere impiantistiche, tuttavia l’imputato COGNOME ha spiegato che i lavori della fase uno, effettuati grazie ai finanziamenti della RAGIONE_SOCIALE e della fondazione RAGIONE_SOCIALE e regolarmente conclusi, facevano parte di un più ampio progetto di restauro comprendente ulteriori opere che non era stato possibile eseguire per mancanza dei fondi necessari.
L’architetto COGNOME ha confermato che i lavori erano conclusi aggiungendo che, al termine degli stessi non vi era alcuna consapevolezza in merito alla loro prosecuzione, così come non vi era certezza in ordine alla possibilità di ottenere finanziamenti ragionali, senz’altro auspicata anche se non concreta in quel momento. Tali portati dichiarativi sono stati erroneamente valutati dalla Corte di appello, che dunque è incorsa in macroscopica contraddizione, in quanto da essi avrebbe dovuto dedurre l’effettiva esistenza di un iniziale progetto unico composto da due fasi.
Quanto ai contratti di appalto predisposti da COGNOME nel 2014, essi non prevedevano alcuna fase due,sol perché alla data di stipula, non vi era alcuna certezza circa i tempi di esecuzione e il possibile ottenimento di fondi che ne avrebbero consentito la realizzazione; prevedere nel primo contratto anche i lavori della fase successiva avrebbe esposto appaltatore ed appaltante a obblighi di adempimento contrattuale, totalmente impossibili di rispettare.
4.2. Con il secondo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. e) cod. proc. pen., la contraddittorietà e mancanza della motivazione in ordine alla deduzione difensiva, sviluppata nell’atto di appello e dotata del requisito della decisività, con la quale, a dimostrazione della unicità del progetto di restauro delle due chiese e del fatto che i lavori non fossero conclusi al momento della proposizione della domanda di ammissione al bando della Kegione Veneto, si richiamava la scheda tecnica di descrizione ed analisi dell’intervento compilata dai due parroci prima della domanda di ammissione al bando.
In particolare, si sottolineava come tale documento conteneva la sintetica descrizione dei lavori da eseguire elencando proprio i lavori della fase due (l’impiantistica elettrica ed il riscaldamento), la dimensione finanziaria del progetto e la tempistica dei lavori; esso recava la data del 26 maggio 2014 ed era stato trasmesso alla Regione Veneto alcuni mesi prima della pubblicazione del bando.
Ancora, nell’atto di appello si era evidenziato come il Monsignore COGNOME aveva fornito inconfutabile prova che i lavori, al momento della domanda di contributo, non erano terminati e come la Diocesi era a conoscenza del fatto che le opere da effettuare nelle due chiese sarebbero stat,à1tre ed ulteriori a quelle finanziate dalla RAGIONE_SOCIALE e dalla Fondazione RAGIONE_SOCIALE; il teste aveva anche esibito documentazione da cui emerge che la chiusura dei lavori (iniziati per entrambe le parrocchie nel 2014), risaliva rispettivamente al 2 febbraio e al 1 marzo dell’anno 2016, sicchè la domanda di contributo alla Regione era stata avanzata prima della conclusione dell’intero lavoro. Con tale portato dichiarativo,la Corte di appello non si è confrontata e non ha chiarito perché da esso non dovrebbe discendere la prova che i lavori, all’epoca della partecipazione al bando, non erano ancora conclusi.
Analogamente, i giudici di appello hanno valutato esclusivamente le dichiarazioni contenute nel verbale di sommarie informazioni rese dall’architetto COGNOME senza considerare – come evidenziato nell’atto di appello – che è lo stesso professionista ad affermare nella relazione scritta in atti (diretta alla regione Veneto e riguardante la fruibilità dell’opera proposta a lavori ultimati) che le opere di consolidamento strutturale del tetto e del restauro conservativo della facciata erano quasi interamente eseguite, ma non ultimate.
Allo stesso modo, la Corte territoriale ha affermato che i lavori della fase uno erano già conclusi al momento della proposizione della domanda di contributo e che non vi era alcun progetto di opere ulteriori ponendosi, tuttavia, ciò contrasta con l’atto datato 27 maggio 2014 (e relative allegate schede tecniche) a firma del vescovo COGNOME nel quale si specificava la necessità, quanto all’edificio di Borsea, di procedere al restauro interno chiesa, facciata e impianto di illuminazione e, quanto alla parrocchia di Mardinago, di intervenire sulla copertura, consolidamento strutturale, restauro interno, illuminazione. Ciò dimostra che, sin da prima dell’inizio dei lavori afferenti la fase uno, erano stati preventivati anche quelli inerenti alla fase due, entrambe facenti parte di un unico progetto di restauro.
Lo stesso parroco di Borsea, don NOME COGNOME, nel dibattimento di primo grado ha affermato che la chiesa era rimasta chiusa per ben due anni e mezzo e, quindi 7 per tutta la durata dei lavori eseguiti dalla RAGIONE_SOCIALE che comprendevano sia la fase uno che la fase due, sicchè alla data del 3 novembre 2014 essi non potevano ritenersi conclusi.
L’affermazione della Corte di appello secondo cui gli imputati avrebbero posto in essere artifizi e raggiri consistenti nel rappresentare falsamente, nella documentazione inoltrata alla , Kegione Veneto, che i lavori oggetto della fase due (oggetto della domanda di contributo) costituivano una mera prosecuzione delle
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opere comprese nella fase uno e già finanziate si pone quindi in aperta contraddizione con numerose evidenze probatorie.
La Corte territoriale neppure ha motivato in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato ricavandone l’esistenza unicamente dal fatto che i lavori della fase uno erano terminati al momento della proposizione della domanda di contributo, senza esplorare il versante relativo a quella che era la percezione soggettiva degli imputati, ovvero se costoro fossero intimamente convinti che la prima parte delle opere non era conclusa e che il progetto di restauro aveva un carattere unitario, così da escludere la sussistenza del dolo.
4.3. Con il terzo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. e) cod. proc. pen., la mancanza di motivazione in ordine alla deduzione difensiva, sviluppata nell’atto di appello, circa l’inidoneità delle condotte degli imputati ad indurre in errore i funzionari della t .egione Veneto poiché costoro avevano piena contezza dei lavori necessari per portare a compimento il restauro dei due edifici religiosi, ma anche totale consapevolezza che le opere eseguite con il contributo regionale avrebbero rappresentato il completamento di quelle già realizzate in precedenza con i finanziamenti erogati dalla RAGIONE_SOCIALE e dalla Fondazione CARAGIONE_SOCIALE
4.4. Con il quarto motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. e) cod. proc. pen., la mancanza di motivazione in ordine alla deduzione difensiva, sviluppata nell’atto di appello, circa l’insussistenza dell’ingiusto profitto procurat ad altri,atteso che i contributi erogati dalla Kegione Veneto sono stati interamente impiegati per gli interventi di valorizzazione, conservazione e restauro di due edifici di cultOe che l’ente ecclesiastico non può essere considerato il soggetto terzo di cui all’art. 640 cod. pen.
Al riguardo il ricorrente richiama la pronuncia di questa Corte (Sez. 2, n. 4416 del 14/01/2015, Comune di Mello, Rv. 262376) secondo cui il delitto di truffa aggravata ex art. 640bis cod. pen. non è configurabile tutte le volte in cui le somme, costituenti il profitto ingiusto derivante dalla attività decettiva posta i essere dal pubblico ufficiale, vengono destinate all’ente di cui il suddetto pubblico ufficiale fa parte, perché uno degli elementi costitutivi del reato è il procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto e altri non può essere considerato lo stesso ente per il quale la persona o le persone fisiche, suoi organi, agiscono ed operano.
Tale principio di diritto, secondo il ricorrente, è perfettamente applicabile alla parrocchia quale ente ecclesiastico e persona giuridica che si trova in rapporto di immedesimazione organica con il parroco, suo legale rappresentante, il quale non ha conseguito alcun profitto personale.
4.5. Con il quinto motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. d) ed e) cod. proc. pen., la mancata assunzione di una prova decisiva e cioè della testimonianza dell’architetto NOME COGNOME e la mancanza di motivazione in merito al relativo diniego.
Al riguardo, è dedotto che il giudizio di responsabilità degli imputati si fonda quasi esclusivamente sulle sommarie informazioni testimoniale, ‘ rese da tale professionista la cui riassunzione nel contradditorio delle parti era necessaria per dirimere ogni dubbio interpretativo sul significato del portato dichiarativo versato in corso di indagini.
La Corte di appello, sollecitata in questo senso a disporre rinnovazione dell’istruttoria, non ha in alcun modo motivato il diniego della richiesta difensiva di integrazione probatoria.
4.6. Con il sesto motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. b) ed e) cod. proc. pen., l’erronea applicazione della legge penale e la mancanza di motivazione in merito a quanto prospettato nel secondo motivo di appello circa la riqualificazione giuridica dei fatti nel reato meno grave di cui all’art. 316-ter cod pen.
La Corte di appello ha ritenuto infondata la richiesta di riqualificazione adducendo che, nel caso di specie’sarebbero sussistenti artifizi e raggiri, senza tuttavia esprimersi sulla deduzione difensiva con la quale si rappresentava che la mera produzione alla Regione Veneto di documenti contenenti dichiarazioni mendaci non poteva ritenersi espressione di una condotta artificiosa, configurabile solo ove gli imputati avessero predisposti atti non genuini nel loro contenuto.
4.7. Con il settimo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. e) cod. proc. pen., la mancanza di motivazione in merito a quanto prospettato nel quinto motivo di appello circa l’esclusione della applicabilità della confisca diretta e per equivalente.
Sul punto si deduce che nell’atto di gravame la difesa aveva rilevato come il profitto del reato non era stato conseguito direttamente dalla RAGIONE_SOCIALE la quale aveva ottenuto il vantaggio economico in forza di una prestazione lavorativa eseguita nell’ambito di un rapporto sinallagnnatico; in altri termini rla società aveva conseguito lecitamente il denaro erogato dalla Regione in conseguenza della regolare esecuzione di lavori previsti nei contratti di appalto, sicchè non vi era stato alcun accrescimento economico derivante direttamente dai reati in contestazione.
Sul punto la Corte di appello non si è confrontata con tali deduzioni difensive limitandosi a richiamare semplicemente la motivazione contenuta nella sentenza di primo grado.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono inammissibili.
In primo luogo perché entrambi meramente reiterativi di doglianze già dedotte in appello e motivatamente disattese dal giudice di secondo grado, senza confrontarsi criticamente con gli argomenti spesi nel provvedimento impugnato e limitandosi, in maniera generica, a lamentare una presunta carenza o illogicità della motivazione.
In secondo luogo perché volti a sollecitare in questa sede una rivisitazione di profili attinenti alla ricostruzione del fatto e all’apprezzamento del materiale probatorio, così tentando di sottoporre a questa Corte un nuovo giudizio di merito.
2. Come è noto, per giurisprudenza pacifica di questa Corte, è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che si risolvono nella pedissequa ripetizione di quelli già proposti nel giudizio di secondo grado e motivatamente non accolti, dovendo gli stessi considerarsi non specifici e soltanto apparenti, in quanto non connotati da critica puntuale avverso la sentenza oggetto di impugnazione (cfr. Sez. 6, n. 22445 del 08/05/2009, p.m. in proc. Candita, Rv. 244181; Sez. 5, n. 11933 del 27/01/2005, COGNOME, Rv. 231708; Sez. 3, n. 44882 del 10/07/2014, COGNOME, Rv. 260608; Sez. 2, n. 27816 del 22/03/2019, COGNOME, Rv. 276970; Sez. 2, n. 42046 del 17/07/2019, COGNOME, Rv. 277710). In altri termini, a fronte di una sentenza di appello che ha fornito una risposta ai motivi di gravame, la pedissequa riproduzione di essi come motivi di ricorso per cassazione non può essere considerata una critica argomentata rispetto a quanto affermato dalla Corte d’appello atteso che il dedotto vizio di motivazione deve avere come punto di riferimento non il fatto in sé, ma il costrutto logico argomentativo della sentenza di secondo grado; in questa ipotesi, pertanto, i motivi sono necessariamente privi dei requisiti di cui all’art. 581 cod. proc. pen., comma 1, lett. c), che impone la esposizione delle ragioni di fatto e di diritto a sostegno di ogni richiesta. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
E’ altrettanto noto che non rientra nei poteri del giudice di legittimità quello di effettuare una rilettura degli elementi storico-fattuali posti a fondamento del motivato apprezzamento al riguardo svolto nell’impugnata decisione di merito, essendo il relativo sindacato circoscritto alla verifica dell’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari aspetti o segmenti del percorso motivazionale ivi tracciato (cfr., Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, COGNOME, Rv. 214794 e, successivamente, Sez. 2, n. 21644 del 13/02/2013, COGNOME ed altri, Rv.255542; Sez. 4, n. 31224 del 16/06/2016, COGNOME più altri, non mass.; Sez. 4 n. 5465 del 04/11/2020, F., Rv. 280601). L’accertamento di fatto è riservato al
giudice della cognizione, sicchè le censure di merito agli apprezzamenti singoli e complessi sul materiale probatorio costituiscono motivi diversi da quelli consentiti (art. 606, comma 3, cod. proc. pen.).
Inammissibili sono pertanto tutte le doglianze che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove e che evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti della attendibilità, della credibilità e dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (cfr., Sez. 2, n. 7667 del 29/01/2015, COGNOME ed altri, Rv.262575; Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, 0., Rv. 262965; Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, COGNOME, Rv. 271623; Sez. 4 n. 10153 dell’11/02/2020, C., Rv.278609). Allorquando il giudice di merito ha espresso il proprio apprezzamento, la ricostruzione del fatto è definita e le sole censure possibili nel giudizio d legittimità sono quelle dei soli tre tassativi vizi indicati dall’art. 606, comma 1, le e) cod. proc. pen., ciascuno dotato di peculiare oggetto e struttura laddove, in particolare, l’illogicità della motivazione, per essere apprezzabile come vizio di legittimità, deve essere evidente, cioè sorretta da palesi errori nella applicazione delle regole della logica e pertanto di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confuate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata.
Infine, va ricordato il consolidato insegnamento di questa Corte secondo il quale, allorquando ci si trovi di fronte ad una “doppia conforme” affermazione di responsabilità, la giurisprudenza pacifica di questa Corte è nel senso che la sentenza appellata e la pronuncia del giudice di secondo grado, quando non vi è difformità sui punti denunciati, si integrino vicendevolmente, formando un tutto organico ed inscindibile, una sola entità logico-giuridica, alla quale occorre fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, integrando e completando con quella adottata dal primo giudice le eventuali carenze di quella di appello (Sez. 1, n. 1309 del 22/11/1993, dep. 1994, COGNOME, Rv. 197250; Sez. 3, n.4700 del 14/02/1994, COGNOME, Rv. 197497; Sez. 2, n. 5112 del 02/03/1994, COGNOME, Rv. 198487; Sez. 2, n. 11220 del 13/11/1997, COGNOME, Rv. 209145; Sez. 6, n. 11878 del 20/01/2023, Vigevano, Rv. 224075; Sez. 5, n. 14022 del 12/01/2016, Genitore, Rv. 266617; Sez. 5, n. 13435 del 04/03/2022, COGNOME, Rv. 282878).
Fatte queste premesse, rese necessarie dalla tipologia delle censure difensive, sono manifestamente infondati i primi sei motivi dedotti nel ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME valutabili, in quanto sovrapponibili,
congiuntamente al primo, secondo e quinto motivo della impugnazione presentata nell’interesse di NOME COGNOME
Le doglianze sono tutte incentrate sul piano del vizio della motivazione, sotto il profilo della sua mancanza e, comunque, illogicità.
Va in primo luogo osservato che il secondo motivo di ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME ha ad oggetto anche l’omessa motivazione in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo del contestato delitto di truffa che, tuttavia, è aspetto non censurato nell’atto di appello e, quindi, non proponibile in questa sede.
La sentenza impugnata, con un apparato argomentativo congruo ed esente da manifeste illogicità, ha richiamato (illustrandone anche il relativo contenuto, peraltro già precisamente riportato anche nella pronuncia di primo grado) una serie di elementi probatori contenuti negli atti ritenuti decisivi non solo per confutare la principale censura contenuta negli atti di appello relativa alla sussistenza di un progetto unitario (sviluppato in due fasi) di ristrutturazione di entrambe le chiese che era ancora in corso al momento della pubblicazione del bando regionale per la domanda di contributi, ma anche per disattendere le tesi difensive circa la non necessità di autorizzazioni della Soprintendenza quale requisito di ammissibilità delle domande di contributo e la ricorrenza della buona fede in capo agli imputati rispetto al contenuto delle attestazioni allegate alle richieste di finanziamento.
In particolare, ha valorizzato la documentazione acquisita dalla Guardia di Finanza concernente tutti i lavori delle due chiese, la consulenza tecnica svolta dal pubblico ministero in fase di indagini e la testimonianza resa dall’architetto COGNOME direttore dei lavori finanziati nella c.d fase “uno”, con relativo carteggi documentale.
Ha quindi ritenuto che tali dati, sinergicamente considerati, erano convergenti e quindi, decisivi nel dimostrare inconfutabilmente: ;
– che le opere relative alla “fase uno” finanziate dalla RAGIONE_SOCIALE e dalla fondazione RAGIONE_SOCIALE (riguardanti i tetti, le facciate e le parti esterne delle due chiese) erano state completamente terminate alla data del 3 novembre 2014, quindi in un momento antecedente alle domande di contributo presentate il 18 dicembre 2014 (aventi ad oggetto il restauro interno e l’impiantistica dei due edifici di culto) e addirittura alla pubblicazione del bando di finanziamento (avvenuta il 7 novembre 2014) il quale prevedeva il finanziamento pari al 70 °A) (e non per l’intero) in favore edifici di proprietà ecclesiastica per la realizzazione di restauro con opere che, tuttavia, non dovevano essere già concluse e dovevano avere un livello di progettazione in fase almeno preliminare già formalmente approvato dalla Soprintendenza ai beni culturali;
– che prima di tale pubblicazione non esisteva alcun progetto di restauro più ampio rispetto a quello finanziato dalla RAGIONE_SOCIALE e dalla fondazione RAGIONE_SOCIALE che prevedesse anche opere impiantistiche e che i lavori relativi alla c.d. fase “due” erano stati progettati ed approvati solo successivamente; -che gli stessi contratti di appalto stipulati nel 2014 dall’imputato COGNOME con i due parroci relativamente ai lavori della c.d. fase “uno” non prevedevano alcuna prosecuzione o fase “due”.
La pronuncia impugnata ha anche puntualmente affrontato il profilo della diversa interpretazione, prospettata negli atti di appello difensivi, delle sommarie informazioni rese dal direttore dei lavori arch. COGNOME affermando come il tenore delle stesse era chiarissimo e cristallino – oltre che perfettamente conforme alla documentazione redatta da tale professionista- laddove attestava che le opere finanziate dalla RAGIONE_SOCIALE e dalla fondazione RAGIONE_SOCIALE erano terminate, appunto, il giorno 3 novembre 2014, – era del resto : logico ritenere che tali soggetti finanziatori avessero erogato le somme messe a disposizione solo dopo il completamento degli interventi da loro sovvenzionati. Lk
Con tale costrutto argomentativo, la Corte di appello ha implicitamente disatteso – a fronte del carattere dirimente attribuito agli elementi di cui sopra (con riferimento ai quali in questa sede non è stata dedotto il travisamento)- la valenza di taluni dati probatori valorizzati nell’appello proposto nell’interesse dell’imputato NOME COGNOME (riportati in sentenza alle pagine 5 e 6) e poi richiamati nei presenti ricorsi senza, tuttavia, prospettare in questa sede la loro decisività, così da scardinare o comunque inficiare il ragionamento dei giudici di secondo grado e, quindi, compromettere la tenuta e la coerenza logica della motivazione.
Va ricordato in proposito che, il ricorso per cassazione rcon cui si lamenta la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione per l’omessa valutazione di circostanze acquisite agli atti non può limitarsi, pena l’inammissibilità, ad addurre l’esistenza di atti processuali non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione del provvedimento impugnato ovvero non correttamente od adeguatamente interpretati dal giudicante, ma deve, invece, a) identificare l’atto processuale cui fa riferimento; b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza; c) dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato nonchè della effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda; d) indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale “incompatibilità” all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato (cfr.,Sez. 3, n. 2039
del 02/02/2018, dep. 2019, PG/Papini, Rv. 274816-07; Sez. 6, n. 45036 del 02/12/2020, NOME, Rv. 249035; Sez. 6, n. 36512 del 16/10/2020, COGNOME, Rv. 280117).
Nell’ambito degli elementi probatori ritenuti decisivi, la Corte territoriale ha valorizzato le sommarie informazioni rese dall’ arch. COGNOME direttore dei lavori della c.d fase “uno”) valutandole di contenuto L , oltre che riscontrate dalla documentazione redatta da tale professionista nel corso della realizzazione delle opere, sicchè, anche sotto questo profilo, vi è implicita motivazione in ordine alla mancata rinnovazione nel giudizio di appello con nuovo esame della testimone, oggetto del quinto motivo di ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME
Sul punto va anche ricordato, come più volte affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, che non è configurabile un diritto dell’imputato alla prova integrativa allorquando egli scelga, come nel caso in esame, di accedere al rito alternativo del giudizio abbreviato non condizionato. In tal caso, nella fase di appello, le parti sono titolari di una mera facoltà di sollecitazione del potere di integrazione istruttoria, esercitabile dal giudice ex officio nei limiti della assoluta necessità ai sensi dell’art. 603, comma 3, cod. proc. pen. ed espressione di un potere discrezionale che attiene al merito, non suscettibile di sindacato, anche nella forma indiretta costituita dal parametro della motivazione esplicita (Sez. 6, n. 1400 del 22/10/2014, dep. 2015, PR., Rv. 261799; Sez. 6, n. 51901 del 19/09/2019, COGNOME, Rv. 2780061; Sez. 2 n. 5629 del 30/11/2021, dep. 2022, COGNOME, Rv. 0282585).
La mancata rinnovazione in appello dell’istruttoria dibattimentale può essere censurata solo qualora si dimostri l’esistenza, nell’apparato motivazionale posto a base della decisione impugnata, di lacune o manifeste illogicità, ricavabili dal testo del medesimo provvedimento e concernenti punti di decisiva rilevanza, le quali sarebbero state presumibilmente evitate provvedendosi all’assunzione o alla riassunzione di determinate prove in appello (Sez. 3, n. 1256 del 28/11/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 258236; Sez. 6, n. 1400 del 22/10/2014, già cit.; Sez. 2, n. 48630 del 15/09/2015, COGNOME, Rv 265323; Sez. 2, n. 40855 del 19/04/2017, COGNOME, Rv. 271163-01; Sez. 5, n. 32379 del 12/04/2018, COGNOME, Rv. 273577, Sez. 3, n. 3028 del 15/12/2023, dep. 2024, D., Rv. 285745).
Ciò che rileva, dunque, non è la qualità della risposta che la Corte territoriale fornisce alle istanze di integrazione probatoria della difesa, ma la desumibilità o meno, dal tessuto argomentativo della sentenza posto in relazione alle censure difensive, di una grave lacuna del ragionamento probatorio e della sua rappresentazione a livello motivazionale nella quale il giudice di appello non sarebbe incorso ove avesse disposto la rinnovazione dell’istruttoria.
Alla luce di detti principi ormai consolidati, deve rilevarsi che jnel caso di specie, il ricorrente si è limitato ad affermare che la audizione dell’architetto COGNOME avrebbe potuto dirimere “ogni dubbio” interpretativo sul portato dichiarativo reso da tale professionista nel corso delle indagini che, invece, la Corte ha ritenuto, con motivazione in fatto non sindacabile in questa sede, di contenuto del tutto chiaro e cristallino e senza alcuna aporia di natura esegetica.
La doglianza difensiva è dunque inammissibile perché generica non avendo il ricorrente indicato se,dal tessuto argomentativo della sentenza 7 fosse desumibile una grave lacuna del ragionamento probatorio e della sua rappresentazione a livello motivazionale, emendabile solo con l’introduzione della prova dichiarativa oggetto della rinnovazione istruttoria.
Manifestamente infondato è anche il settimo motivo dedotto nel ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME con il quale si lamenta la mancanza e comunque illogicità della motivazione della sentenza impugnata con riferimento alla sussistenza di artifizi e raggiri.
Ben diversamente da quanto sostiene il ricorrente, la Corte di appello non si è limitata ad affermare genericamente l’integrazione di una condotta decettiva in capo all’imputato fornendo al riguardo una spiegazione illogica, non sostenuta da alcun elemento probatorio e addirittura contradditoria rispetto alle emergenze istruttorie.
Al contrario, il giudice di secondo grado, ha fatto discendere la prova degli artifizi e raggiri dalla valenza dimostrativa dei dati probatori sinergicannente valutati e ritenuti decisivi come già richiamato al paragrafo 3. dai quali risultava una condotta decettiva in capo all’imputato con il concorso di COGNOME COGNOME consistita nell’allegare alle due domande di contributo attestazioni ove si rappresentava falsamente, da un lato, che i lavori oggetto della fase “due” erano la prosecuzione della fase “uno”, dall’altro, che le opere inerenti alla fase “due” erano già state assentite dalla Soprintendenza, così facendo apparire la sussistenza di entrambe le due condizioni, richieste congiuntamente dall’art. 4 del bando regionale, ai fini della ammissibilità delle richieste (e cioè che i lavori non fossero conclusi e che gli stessi fossero già stati assentiti dalla Soprintendenza ai beni culturali prima della pubblicazione del bando).
Ad analoghe conclusioni si perviene con riferimento all’ottavo e nono motivo dedotti nel ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME nonché al terzo e quarto motivo della impugnazione presentata nell’interesse di NOME COGNOME per i quali può procedersi ad una valutazione congiunta.
Tali doglianze, incentrate sulla mancanza di motivazione della sentenza impugnata, non si confrontano con l’apparato argomentativo di tale provvedimento.
La Corte territoriale ( pag. 13 e 14 della pronuncia) ha esaminato e valutato i temi della sussistenza dell’ingiusto profitto e della idoneità ingannatoria della condotta decettiva.
Quanto al primo profilo, ha osservato che il bando regionale prevedeva un finanziamento dei lavori nella misura massima del 70% del costo complessivo dell’opera di ciascun edificio di culto e che, invece, grazie agli artifici e raggi realizzati dagli imputati, le opere di restauro delle chiese erano state di fatto finanziate nella misura del 100 °/0, facendovi cioè rientrare anche le opere oggetto della fase “uno”, con conseguente pari danno per la Regione Veneto la quale aveva elargito denaro pubblico in misura superiore a quella prevista.
Di tale illecito arricchimento, hanno rilevato i giudici di secondo grado, si erano giovati sia le parrocchie che, in assenza delle condotte decettive, non avrebbero potuto realizzare i lavori finanziati poiché non disponevano dei fondi necessari), sia gli imputati i quali avevano, a loro volta, percepito corrispettivi ed emolumenti.
Proprio l’avere sottolineato che una indebita locupletazione era stata conseguita anche dagli odierni ricorrenti, consente di affermare che la Corte di appello abbia implicitamente e correttamente disatteso la doglianza difensiva con la quale nell’atto di appello si era dedotta l’insussistenza dell’ingiusto profitt procurato ad “altri” atteso che i contributi ottenuti dal parroco di ciascuna chiesa, in rapporto di immedesimazione organica con l’ente ecclesiastico, erano stati interamente destinati a favore di quest’ultimo e cioè impiegati per il restauro delle due chiese.
Anche con riferimento alla idoneità ingannatoria degli artifici e raggiri, la sentenza impugnata è munita di corredo motivazionale avendo evidenziato che le attestazioni non veritiere allegate alla domande di contributo in merito alle rilasciate autorizzazioni della Soprintendenza (fatte cioè figurare come concesse in date antecedenti a quelle reali) avevano indotto in errore l’ente il quale aveva, infatti, materialmente erogato i contributi.
Si tratta di costrutto argomentativo in linea con il consolidato orientamento di legittimità secondo cui nel delitto di truffa, una volta accertato il nesso d causalità tra l’artificio e il raggiro e l’altrui induzione in errore, non è necessa stabilire l’idoneità in astratto dei mezzi usati a sorprendere l’altrui buona fede, ma è richiesto che l’inganno – in rapporto alla particolarità del fatto ed alle modalità di esecuzione- si sia realizzato in concreto, a nulla rilevando la eventuale ignoranza o leggerezza della vittima o il difetto di accurato controllo.
La valutazione dell’idoneità astratta della condotta decettiva ad ingannare e sorprendere l’altrui buona fede assume rilevanza nella sola ipotesi del tentativo e non in presenza di reato consumato, in quanto, in tale ultimo caso, l’effetto raggiunto (che nella specie è rappresentato dalla materiale elargizione dei contributi da parte della regione) dimostra implicitamente l’effettiva e concreta idoneità dei mezzi usati (cfr., Sez. 2, n. 55180 del 25/09/2018, Fiume, Rv. 274299; Sez. 2 n. 51166 del 25/06/2019, COGNOME Rv. 278011).
E’ manifestamente infondato anche il decimo motivo proposto nell’interesse di NOME COGNOME con il quale si deduce violazione di legge con riferimento agli artt. 33, 45 e 52 del D.P.R. n. 207 del 2010 avendo la Corte di appello affermato la necessità di una preventiva autorizzazione della Soprintendenza che la normativa di cui sopra non richiedeva.
La doglianza è inconferente poiché la Corte di appello ha ben evidenziato, senza incorrere in alcuna erronea applicazione di legge, che /nel caso concreto, l’art. 4 del bando regionale prevedeva espressamente, proprio ai fini della ammissibilità della domanda di contributo, due condizioni congiunte: che i lavori relativi agli interventi per cui era presentata la richiesta di sovvenzione non fossero già conclusi e che gli stessi avessero un livello di progettazione in fase almeno preliminare e comunque già formalmente approvato dalla Soprintendenza ai sensi degli artt. 45 e 52 del D.P.R. n. 207 del 2010.
Proprio al fine di fare apparire la sussistenza di entrambi i requisiti, gli imputati avevano attestato dati inesatti ed inveritieri in merito alle autorizzazioni della Soprintendenza e tale mendacio era stato funzionale a rappresentare la unitarietà delle lavorazioni delle due fasi che invece erano state ben distinte.
Manifestamente infondato è il sesto motivo del ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME con il quale si lamenta la violazione di legge e la assenza di motivazione in punto di mancata riqualificazione giuridica del fatto nel reato di cui all’art. 316-ter cod. pen.
La sentenza impugnata (pag. 14) ha espressamente motivato la non riconducibilità della vicenda concreta nell’alveo di tale fattispecie osservando come la kegione Veneto era stata ingannata nella valutazione di elementi attestativi artificiosamente decettivi, idonei a manipolare la realtà e ciò era avvenuto non solo attraverso una falsa dichiarazione ma predisponendo un sistema fraudolento funzionale a far apparire, contrariamente al vero, la sussistenza dei requisiti necessari per ottenere l’erogazione del contributo.
Tale argomentazione è del tutto aderente ai consolidati principi di diritto dettati da questa Corte secondo cui il reato di indebita percezione di pubbliche
erogazioni si differenzia da quello di truffa aggravata, finalizzata al conseguimento delle stesse, per la mancata inclusione, tra gli elementi costitutivi, della induzione in errore dell’ente erogatore, il quale si limita a prendere atto dell’esistenza dei requisiti autocertificati dal richiedente, senza svolgere una autonoma attività di accertamento, la quale è riservata ad una fase meramente eventuale e successiva (Sez. 3, n. 2382 del 01/12/2011; Sez. 2,n. 49464 del 01/10/2014, COGNOME, Rv. 261321; Sez. 2, n. 23163 del 12/04/2016, Oro, Rv. 266979; Sez. 6, n. 51962 del 02/10/2018, Muggianu, Rv. 274510-02; Sez. F l n. 44878 del 06/08/2019, PG ci Aldovisi, Rv. 279036-03).
Nella specie – come ben si ricava dalla sentenza di primo grado che si salda con quella di appello – l’accoglimento delle domande di contributo non si fondava su semplici dichiarazioni autocertificate, ma implicava un processo decisionale interno all’ente pubblico erogante con svolgimento di una attività istruttoria volta a selezionare le richieste aventi i richiesti requisiti di ammissibilità e al formazione di una graduatoria, sicchè la condotta decettiva incideva fraudolentemente sulla attività valutativa e non meramente ricognitiva dell’ente erogatore.
8. Sono, infine, manifestamente infondati anche l’undicesimo motivo del ricorso nell’interesse di NOME COGNOME e il settimo dedotto nell’impugnazione proposta nell’interesse di NOME COGNOME con i quali si prospetta violazione di legge e mancanza di motivazione in ordine alla conferma delle statuizioni di confisca del profitto del reato disposta dal giudice di primo grado, ai sensi dell’art. 640-quater cod. pen, nella misura di euro 963.932,22 in forma diretta nei confronti di RAGIONE_SOCIALE di cui NOME COGNOME era rappresentante all’epoca dei fatti e, ove non possibile, per equivalente nei confronti di entrambi gli imputati.
La Corte territoriale (pag. 16 della sentenza impugnata) ha motivatamente disatteso le doglianze dedotte negli atti di appello, poi riproposte nei ricorsi qui in esame, in aderenza al consolidato orientamento secondo cui, in caso di provvedimenti ablatori del profitto del reato di cui all’art. 640-bis cod. pen. nell’ipotesi di finanziamento pubblico erogato ad un privato che abbia falsamente attestato la titolarità dei requisiti prescritti, il quantum confiscabile deve esser individuato con riferimento all’intero profitto (Sez. 2, n. 35355 del 12/5/2011, Meraglia, Rv. 251178; Sez. 2, n. 52808 del 04/10/2016, Pm in proc. Maiorino, Rv. 268757; Sez. 2, n. 3439 del 28/09/2020, dep. 2021, gocietà RAGIONE_SOCIALE, Rv. 280609; Sez. 2, n. 43676 del 07/10/2021, Fierro, Rv. 282506).
Correttamente i giudici di secondo grado hanno ) quindi T confermato la confisca disposta dal Tribunale in relazione all’intero dei contributi erogati dalla regione Veneto.
Le Sezioni Unite hanno avuto modo di affermare con la sentenza n. 26654 del 27/3/2008, RAGIONE_SOCIALE e altro, Rv. 239926 che: “il profitto del reato (…) va inteso come il complesso dei vantaggi economici tratti dall’illecito e a questo strettamente pertinenti”. Non tutte le somme ricevute degli autori della truffa possono considerarsi in quanto tali profitto del reato, ma solo quelle che siano state “indebitamente” percepite e che costituiscano “vantaggio tratto dall’illecito e a questo strettamente pertinente”.
Nel caso di specie,è evidente che i contributi in denaro non sarebbe stati corrisposti in assenza della attività di frode compiuta da entrambi gli imputati con dichiarazioni mendaci, sicchè il profitto e il corrispondente danno per l’ente erogante coincidono con l’intero ammontare del finanziamento erogato.
Tale denaro non costituiva il corrispettivo della prestazione effettuata dalla RAGIONE_SOCIALE di cui NOME COGNOME era rappresentante all’epoca dei fatti, bensì consisteva in un contributo erogato ad un ente ecclesiastico per tutt’altre ragioni e cioè per la valorizzazione di edifici di culto ecclesiastici aventi particolar pregio o comunque caratterizzati da specifica valenza culturale, come espressamente stabilito nel bando regionale richiamato nelle due sentenze di merito.
9. Alla inammissibilità di entrambi i ricorsi consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna degli imputati al pagamento delle spese processuali e, valutati i profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità emergenti dal ricorso (Corte Cost. 13 giugno 2000 n. 186), al versamento della somma di euro tremila ciascuno a favore della Cassa delle ammende, che si ritiene equa considerando che l’impugnazione è stata esperita per ragioni manifestamente infondate; segue altresì la condanna, in solido tra loro, alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa per il presente giudizio in favore della parte civile Regione Veneto che, tenuto dell’utile contributo offerto con il deposito di memoria, si liquidano in complessivi euro 3.686,00, oltre accessori di legge.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Condanna, inoltre, gli imputati, in solido tra loro, alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile Regione Veneto che liquida in complessivi euro 3.686,00, oltre accessori di legge. Così deciso il 02/10/2024