Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 31895 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 31895 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 11/09/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOMECOGNOME nata a LECCO il 22/08/1953
avverso la sentenza del 24/03/2025 della CORTE APPELLO di MILANO
visti gli atti, letto il provvedimento impugnato e il ricorso dell’Avv. NOME COGNOME
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
lette le conclusioni di cui alla requisitoria del Pubblico ministero nella persona del Sostituto P.G. NOME COGNOME
Ricorso trattato con rito cartolare ai sensi degli artt. 610, comma 5 e 611, comma 1bis, c.p.p.
RITENUTO IN FATTO
NOME COGNOME a mezzo del difensore di fiducia, ricorre per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Milano del 24/03/2025, con la quale è stata confermata la sentenza del Tribunale di Lecco che ha condannato la ricorrente alla pena di giustizia in ordine al reato di cui agli artt. 99, 640 cod. pen., nonché al risarcimento del danno – da liquidarsi in separata sede – in favore della parte civile COGNOME MarcoCOGNOME
La difesa affida il ricorso a due motivi che, ai sensi dell’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen., saranno enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
2.1. Con il primo motivo si deduce, in punto di affermazione di responsabilità e sussistenza della truffa, violazione di legge e vizio di motivazione, anche sotto il profilo del travisamento della prova.
2.2. Con il secondo motivo si denuncia, in ordine al trattamento sanzionatorio, l’inosservanza o l’erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche nella determinazione della pena. Violazione di legge per omessa contestazione nel capo di imputazione dell’art. 81 cod. pen., con conseguente aumento della pena edittale.
Il Pubblico ministero, nella persona del sostituto P.G. NOME COGNOME con requisitoria del 10 luglio 2025, ha concluso per l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è fondato riguardo al primo motivo.
Con il primo motivo la difesa rappresenta come l’intervenuta assoluzione dell’imputata dal reato di abusivo esercizio della professione di commercialista precludesse di poter attribuire rilievo, ai fini dell’integrazione dell’elemento oggettivo del reato, alla spendita o meno di detta qualità, tenuto conto dell’irrilevanza di detta qualifica ai fini dell’esecuzione delle obbligazioni contrattuali che avrebbero gravato sulla ricorrente, le quali esulavano dal possesso di tale qualifica.
Al riguardo, è utile premettere che, all’esito del processo di primo grado, è risultato pacifico che l’imputata non ha effettuato alcuna attività per lo svolgimento della quale era necessaria un’abilitazione professionale: è stata, infatti, assolta dall’imputazione di esercizio abusivo della professione cui al capo 1) e condannata solo per la truffa contrattuale contestata al capo 2) della rubrica.
A fronte dell’analitica sentenza di appello e dell’altrettanto analitico ricorso, seppur “depurato” dei riferimenti al merito della vicenda, emerge che l’architrave
dell’imputazione per la quale la ricorrente è stata condannata per truffa contrattuale – ed, invece, assolta dall’imputazione di esercizio abusivo di una professione – si fonda sul seguente rilievo: nel trattare con la persona offesa l’imputata ha «omesso di sottolineare il fatto che l’attività da lei svolta si potesse limitare ad alcune mansioni – quelle eseguibili da un soggetto non in possesso dell’abilitazione di dottore commercialista – facendo così cadere in errore la p. o. che, per tale ragione, ha ritenuto di poter concludere un “contratto” con la stessa».
Orbene, se in linea di principio in materia di truffa contrattuale può ritenersi pacifico che «gli artifici e raggiri possono consistere anche nel semplice silenzio maliziosamente serbato su circostanze fondamentali ai fini della conclusione del contratto» (ex multis, Sez. 2, n. 23079 del 09/05/2018, COGNOME, Rv. 272981), nel caso di specie, per potersi affermare la dimostrazione logica e, dunque, l’integrazione dell’accordo truffaldino ,difetta la dimostrazione di un elemento specifico: l’indicazione delle attività ricadenti nelle mansioni eseguibili solo dal soggetto specificamente abilitato ad esercitare la professione di commercialista per le quali la persona offesa aveva inteso conferire incarico alla Comi – o che comunque aveva inteso dovessero essere svolte dalla Comi, visto che non emerge alcun contratto scritto – e che invece ella non poteva svolgere e non ha svolto. Questo profilo risulta non esaurientemente affrontato dalla sentenza impugnata, sebbene abbia formato oggetto di specifica deduzione con l’atto di appello.
Affinché la falsa rappresentazione della realtà assuma valenza truffaldina occorre l’esistenza di un nesso eziologico tra la spendita della qualifica soggettiva di cui l’autore risulta privo e l’attività materiale che ne consegue, dovendo quest’ultima costituire il precipitato logico e causale della condotta foriera di ingiusto profitto e dell’altrui danno. Altrimenti, operandosi un processo di svalutazione interpretativa delle specifiche caratteristiche modali della truffa, con connessa dilatazione della sua sfera di operatività, finendo per comprendervi condotte foriere di esclusiva responsabilità civile.
Correttamente, pertanto, evidenzia il P.G. nella requisitoria che, senza l’integrazione di tale elemento, la condotta posta in essere dalla ricorrente potrebbe collocarsi nell’ambito dell’illecito civile, integrando un semplice inadempimento contrattuale.
Se, infatti, l’assunto su cui si fonda la condanna in questione è legato al fatto che la persona offesa, credendo di rivolgersi ad una commercialista, è stata ingannata dall’imputata che gli ha fatto credere di rivolgersi ad un professionista di tal genere e quindi di poter svolgere tutte le attività di gestione dell’attivit facenti capo alla persona offesa, deve constatarsi che la motivazione della sentenza non ha affatto fornito dimostrazione e neppure indicato quali fossero le attività necessariamente effettuabili solo dal commercialista abilitato, che invece
l’imputata non avrebbe potuto svolgere e per le quali la persona offesa le aveva, invece, conferito l’incarico (o che comunque aveva inteso dovessero essere da lei svolte). La mancata indicazione di un tal genere di attività priva il quadro indiziario della necessaria tenuta logica rispetto alla dimostrazione dell’accordo truffaldino.
Può, cioè, ritenersi che la sentenza impugnata (pag. 11) abbia adeguatamente dimostrato che alcune attività professionali richieste dalla persona offesa alla ricorrente siano state da questa effettuate, che altre attività, invece, non siano state effettuate, mentre con riferimento ad ancora altre attività sia rimasta incertezza circa la loro effettiva prestazione da parte dell’imputata.
Ma non risulta chiaro se le attività non svolte richiedessero la necessaria abilitazione professionale e se è con riguardo a queste che la persona offesa sia stata indotta al pagamento di fatture per attività poi in realtà mai espletate, così concretandosi l’ingiusto profitto, con pari danno per la p.o., ricadente nell’ambito della tutela penale.
Nella sentenza impugnata appare restare priva di concretezza l’indicazione di quali, fra le attività inevase, specificamente richiedessero l’abilitazione del commercialista, che dunque la ricorrente avrebbe truffaldinamente lasciato credere di poter fare (o, peggio, affermato di poter fare), senza poterle realmente svolgere.
In assenza di un tale chiarimento – che rileva anche ai fini dell’individuazione del tempus commissi delicti la dimostrazione circa la realizzazione della truffa contrattuale non può dirsi completa. E tanto rileva anche sul piano della corretta qualificazione giuridica del fatto in termini di consumazione, in quanto, anche laddove la falsa rappresentazione della realtà avesse avuto specificamente ad oggetto prestazioni proprie del commercialista, andava poi esplorato il profilo della riconducibilità causale del profitto conseguito e del danno cagionato a tali artifizi e raggiri. Su tali decisivi aspetti la motivazione della sentenza risulta carente. Da quanto osservato discende, dunque, la fondatezza del primo motivo di ricorso.
In conclusione, la sentenza impugnata va annullata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Milano, restando, di conseguenza, assorbito il secondo motivo di ricorso in ordine al trattamento sanzionatorio.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Milano per nuovo giudizio.
Così deciso, li 11 settembre 2025.