Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 25355 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 25355 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 27/05/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOMECOGNOME nato a Locri il 06/12/1966
avverso la sentenza del 06/03/2025 della Corte d’appello di Reggio Calabria visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME il quale ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 06/03/2025, la Corte d’appello di Reggio Calabria, in parziale riforma della sentenza del 09/10/2023 del Tribunale di Locri, riqualificata la recidiva come reiterata, ma non specifica, rideterminava in nove mesi di reclusione ed € 90,00 di multa la pena irrogata a NOME COGNOME per il reato di truffa in concorso (con altri soggetti non identificati) ai danni di NOME COGNOME confermando la condanna dello stesso COGNOME per tale reato.
Avverso la menzionata sentenza del 06/03/2025 della Corte d’appello di Reggio Calabria, ha proposto ricorso per cassazione, per il tramite del proprio difensore avv. NOME COGNOME NOME COGNOME affidato a tre motivi.
2.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., «la nullità del giudizio di primo grado atteso che l’atto
introduttivo del giudizio non è stato regolarmente notificato all’imputato» e «la irregolare costituzione del rapporto processuale stante la violazione della norma contenuta nell’art 157 comma 1 ter c.p.p. in relazione alla disposizione di cui all’art. 178 comma 1 lett. e c.p.p.».
Il ricorrente precisa che: a) «l’atto, della cui notificazione si tratta, è il decr di citazione per il giudizio di appello»; b) egli non era detenuto. Pertanto, «trattas della notificazione dell’atto introduttivo (decreto di citazione per il giudizio appello) all’imputato non detenuto».
Ciò precisato, il Berlingeri espone che: a) la legge processuale vigente al tempo del deposito del proprio atto di appello imponeva di depositare, con l’atto d’impugnazione, la dichiarazione o l’elezione di domicilio dell’imputato, ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio (art. 581, commi 1-ter e 1-quater, cod. proc. pen.); b) l’art. 157-ter (comma 3) cod. proc. pen. stabilisce che, in caso di impugnazione proposta nell’interesse dell’imputato, la notificazione dell’atto di citazione a giudizio nei suoi confronti «è eseguita esclusivamente presso il domicilio dichiarato o eletto ai sensi dell’art. 581, commi 1-ter e 1-quater»; c) pertanto, il decreto di citazione per il giudizio di appello doveva essere notificato all’imputato non detenuto presso il domicilio dichiarato o eletto ai sensi dell’art. 581, commi i-ter e 1-quater, cod. proc. pen.
Tanto esposto, il ricorrente rappresenta che, «nello spazio temporale intermedio tra la presentazione dell’atto di impugnazione e la notificazione dell’atto introduttivo del giudizio», il comma 1-ter dell’art. 581 cod. proc. pen. è stato abrogato (dall’art. 2, comma 1, lett. o, della legge 9 agosto 2024, n. 114), con la conseguenza che «l’elezione di domicilio contenuta nella dichiarazione depositata con l’atto di impugnazione non è più funzionale alla notifica del relativo decreto» (di citazione per il giudizio di appello), in quanto la suddetta abrogazione «fa venir meno la necessaria correlazione tra la disposizione dianzi indicata e quella contenuta nell’art. 157-ter c.p.p. atteso che quest’ultima, singolarmente richiama la dichiarazione di elezione di domicilio resa in virtù della norma abrogata (art. 581-ter c.p.p.)».
Tutto ciò esposto e rappresentato, il COGNOME deduce che «’intervenuta abrogazione della norma – che prevedeva l’obbligatorio deposito (unitamente all’atto di impugnazione) della dichiarazione a mezzo della quale l’imputato eleggeva domicilio ai fini delle notificazioni del decreto di citazione a giudizio induce a ritenere che tutte le notificazioni, successive all’intervento normativo in esame, dovrebbero sfuggire a tale regola anche in assenza di una disposizione che espressamente lo prevede», atteso che, «iversamente argomentando si dovrebbe ritenere che la norma abrogata continua ad essere produttiva di effetti almeno nella parte in cui indirettamente prevede che l’atto introduttivo del giudizio
deve essere notificato nel domicilio eletto a mezzo della dichiarazione depositata con l’atto di impugnazione». Ciò che comporterebbe un’«ultrattività» della norma abrogata per effetto del richiamo alla stessa che è contenuto nell’art. 157-ter, comma 3, cod. proc. pen.
Tale «distonia» imporrebbe di individuare la disposizione che regola la materia. Il ricorrente espone in proposito che il comma 1 dell’art. 157-ter cod. proc. pen. disciplina espressamente le modalità della notificazione della citazione in giudizio ai sensi dell’art. 601 cod. proc. pen., stabilendo che essa sia effettuata «al domicilio dichiarato o eletto ai sensi dell’art. 161» – «ovvero in base a una norma che non ha mai perduto efficacia siccome sempre vigente» – stabilendo altresì che, in mancanza di un domicilio dichiarato o eletto, «la notificazione è eseguita nei luoghi e con le modalità di cui all’art. 157».
Il ricorrente conclude quindi che: a) il decreto di citazione per il giudizio di appello è stato notificato all’imputato «in epoca successiva al giorno 9 agosto 2024 e, quindi, dopo l’abrogazione della norma contenuta nell’art. 581 comma 1 ter c.p.p.»; b) l’imputato non aveva dichiarato o eletto domicilio ai sensi dell’art. 161 cod. proc. pen.; c) la notificazione della citazione per il giudizio di appello non è stata eseguita «nei luoghi e con le modalità di cui all’art. 157»; d) pertanto, la stessa notificazione si deve ritenere nulla e la dichiarazione di assenza «irrituale», con la conseguenza «che l’intero giudizio di appello svoltosi in assenza è nullo attesa la mancata conoscenza legale della citazione da parte dell’imputato assente».
2.2. Il secondo motivo è proposto in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., e con riferimento agli artt. 110 e 640 cod. pen.
2.2.1. Il COGNOME rappresenta che, nel caso in esame, «la truffa sarebbe stata consumata stipulando un contratto» e «il soggetto che avrebbe stipulato detto contratto è un concorrente ignoto ovvero soggetto diverso dal ricorrente» soggetto che, accettando l’offerta al pubblico della persona offesa, aveva concluso il contratto di compravendita del bene -, con la conseguenza che la condotta del COGNOME, di ricevimento della consegna del bene compravenduto, avrebbe solo fatto seguito a tale conclusione e alla realizzazione del reato da parte del concorrente ignoto.
Ne discenderebbe che la stessa condotta del COGNOME non potrebbe essere considerata «contributo causale atteso che non si può facilitare la realizzazione di un reato che è già stato commesso» e che la stessa costituirebbe «condotta subsequens non sostanziante il concorso punibile».
Né vi sarebbe prova di un accordo criminoso intercorso tra il ricorrente e il suddetto concorrente ignoto o di una promessa di aiuto del primo al secondo «nella fase temporale che precede la realizzazione del reato», con la conseguenza che
l’assenza di tali circostanze, «siccome ricavabile dalla assenza di un’argomentazione giudiziale sul punto», escluderebbe il concorso «attesa l’impossibilità di configurare la compartecipazione nel reato mediante attività psichica».
Il ricorrente ribadisce che la propria condotta di consegna al venditore «di un foglio con attestazione di bonifico relativo al versamento del prezzo» (pag. 4 della sentenza di primo grado) «è intervenuta dopo che era stato raggiunto l’accordo sul prezzo e sulla consegna del bene» e, quindi, dopo che si era perfezionato il contratto di compravendita, il quale aveva determinato l’immediato trasferimento del diritto di proprietà sullo stesso bene.
Da ciò discenderebbe che: «l’incremento patrimoniale dell’acquirente si è verificato al momento della stipula dell’atto (ovvero quando si è formato l’accordo) poiché, in quel momento, egli è divenuto, per legge, proprietario del bene»; b) specularmente, «il decremento patrimoniale del venditore fa seguito all’alienazione del diritto di proprietà sul bene senza che vi sia stata la corresponsione del prezzo della vendita secondo le modalità temporali concordate».
Il COGNOME espone ancora che, nel momento in cui si ebbe la consegna a sé del bene, il diritto di proprietà sullo stesso si era già trasferito per effe dell’accettazione della proposta al pubblico da parte del concorrente ignoto e si era già verificato l’inadempimento in quanto l’accettante ignoto «non ha pagato il prezzo concordato e, segnatamente, non ha effettuato il bonifico».
Ribadisce, quindi, il ricorrente, che, sulla base della ricostruzione fattuale operata dai giudici del merito, e da lui condivisa, «la condotta storicamente tenuta dal ricorrente (ossia l’aver ricevuto la consegna del bene) interviene quando il contratto è stato già concluso ovvero dopo che il fatto ha già prodotto i suoi effetti di natura patrimoniale».
Secondo il COGNOME, «l’atto dispositivo riconducibile al venditore (l’unico rintracciabile nello schema legale tipico) è certamente rappresentato dalla formulazione della proposta con le forme dell’offerta al pubblico». In tale prospettiva, si dovrebbe ritenere «giuridicamente erronea la ricostruzione giudiziale che individua l’atto dispositivo di natura patrimoniale nella “consegna del bene” atteso che tale accadimento fa seguito alla stipula dell’atto, interviene quando il diritto di proprietà sul bene si è già trasferito e rientra tra gli obblighi venditore». La consegna del bene sarebbe avvenuta, insomma, «quando il reato si è già consumato (l’ingiusto profitto si è prodotto al momento del trasferimento del diritto di proprietà sul bene e, quindi, al momento della vendita)», con la conseguenza che sussisterebbe «la figura della condotta subsequens escludente il “concorso punibile”».
2.2.2. Sotto un ulteriore profilo, il ricorrente denuncia la mancanza della motivazione con riguardo al «dolo di concorso».
Dopo aver riportato il passaggio della motivazione nel quale la Corte d’appello di Reggio Calabria afferma che «l raggiro si è concretizzato nella fase di esecuzione dell’accordo allorché, per indurre il venditore a consegnargli il mezzo, l’imputato gli ha esibito la falsa ricevuta allo scopo di indurlo a credere che avesse adempiuto all’obbligo di pagare il prezzo» (pag. 3 della sentenza impugnata), il Berlingeri rappresenta che tale «rappresentazione giudiziale evidentemente pone il problema della consapevolezza, in capo al ricorrente, dell’agire criminoso del soggetto che ha accettato la proposta contrattuale, dell’intendimento realmente nutrito dal medesimo, del fatto che quest’ultimo si era già reso inadempiente, del falso contenuto del documento che egli, per conto di altri, stava consegnando al venditore».
Il ricorrente richiama ancora il passaggio della motivazione nel quale la Corte d’appello di Raggio Calabria afferma: «COGNOME o chi per lui ha stipulato con Vita un contratto» (pag. 3 della sentenza impugnata) e lamenta in proposito che lo stesso passaggio – con il quale la Corte d’appello assume che i concorrenti avrebbero ideato assieme il reato e che, addirittura, il concorrente ignoto avrebbe stipulato il contratto “per conto” di COGNOME -, avrebbe richiesto di motivare: a) da quale elemento di prova viene ricavato il dato che si riferisce; b) in base a quali criteri tale elemento sia stato valutato. Diversamente, la Corte d’appello di Reggio Calabria si sarebbe limitata a una mera asserzione, così da determinare la sussistenza di un vizio motivazionale.
Il Berlingeri richiama anche il passaggio della motivazione nel quale la Corte d’appello di Reggio Calabria assume che «l’imputato gli ha esibito la falsa ricevuta allo scopo di indurlo a credere che avesse adempiuto all’obbligo di pagare il prezzo» (sempre pag. 3 della sentenza impugnata) e lamenta in proposito che la Corte d’appello – che con tale passaggio lo «indica come colui che si sarebbe assunto l’obbligo di “pagare il prezzo”, che si sarebbe reso inadempiente e che, attraverso l’esibizione della “falsa ricevuta”, avrebbe inteso dar prova dell’avvenuto adempimento simulandone l’esistenza», essendo consapevole sia dell’inadempimento sia della falsità della ricevuta – avrebbe omesso di indicare l’elemento da cui ciò era stato tratto e il criterio adoperato per valutare lo stesso elemento.
Il carattere meramente assertivo delle censurate argomentazioni integrerebbe un vizio di mancanza della motivazione sul punto dell’elemento psicologico dell’attribuita fattispecie concorsuale.
2.3. Il terzo motivo è proposto in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., e con riferimento all’art. 133 cod. pen., con riguardo alla determinazione della misura della pena.
Il ricorrente lamenta che, con l’argomentare esclusivamente sul punto attinente alla recidiva, la Corte d’appello di Reggio Calabria non avrebbe dato risposta alla censura che egli aveva sollevato con il proprio atto di appello relativamente alla «mancata indicazione del criterio di determinazione della pena e l’omessa esplicitazione delle ragioni fondanti il censurato convincimento giudiziale».
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo è manifestamente infondato.
Si deve anzitutto precisare che, nonostante il ricorrente, nel titolo di tale motivo, abbia fatto riferimento anche alla «nullità del giudizio di primo grado», le doglianze che egli ha in concreto prospettato, in sede di argomentazione dello stesso motivo, attengono esclusivamente alla notificazione del decreto di citazione per il giudizio di appello.
Ne discende l’assoluta genericità della doglianza di «nullità del giudizio di primo grado», atteso che essa non è assistita da alcuna argomentazione.
Si deve pertanto passare a esaminare la sola la doglianza che il ricorrente ha in concreto argomentato, cioè quella che attiene all’asserita nullità della notificazione del decreto di citazione per il giudizio di appello.
Il COGNOME ha sostenuto tale nullità sull’assunto che, poiché, dopo che il suo difensore aveva depositato, con l’atto di appello, l’elezione di domicilio che era prevista dal comma 1-ter dell’art. 581 cod. proc. pen., tale comma era stato abrogato (dall’art. 2, comma 1, lett. o, della legge n. 114 del 2024), tale abrogazione avrebbe fatto «venir meno la necessaria correlazione» tra lo stesso comma 1-ter e il comma 3 dell’art. 157-ter cod. proc. pen., là dove esso richiama il domicilio dichiarato o eletto ai sensi dell’art. 581, commi 1-ter e 1-quater, quale esclusivo luogo di notificazione dell’atto di citazione a giudizio.
Sostiene, in proposito, il ricorrente che a reputare il contrario «si dovrebbe ritenere che la norma abrogata continua ad essere produttiva di effetti almeno nella parte in cui indirettamente prevede che l’atto introduttivo del giudizio deve essere notificato nel domicilio eletto a mezzo della dichiarazione depositata con l’atto di impugnazione», ciò che comporterebbe l’ultrattività della stessa norma abrogata per effetto del richiamo a essa che è contenuto nell’art. 157-ter, comma 3, cod. proc. pen.
Tuttavia, nel formulare la propria tesi, il ricorrente non considera che – in disparte il caso, che non viene qui in rilievo, dell’abrogazione di una norma
incriminatrice (art. 2, secondo comma, cod. pen.) – l’abrogazione, diversamente dall’annullamento che deriva dalle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale, «non tanto estingue le norme, quanto piuttosto ne delimita la sfera materiale di efficacia, e quindi l’applicabilità, ai fatti verificatisi sino ad un c momento nel tempo: che coincide, per solito e salvo che sia diversamente disposto dalla nuova legge, con l’entrata in vigore di quest’ultima» (così, Corte cost., sent. n. 49 del 1970).
La norma abrogata, pertanto, «continua a vivere nell’ordinamento in relazione ai rapporti insorti sotto il suo vigore (evenienza che trova riscontro nella pacifica possibilità di sottoporre a scrutinio di costituzionalità anche norme già abrogate)» (così Sez. 6, n. 9270 del 16/02/2007, Berlusconi, Rv. 235736-01, in motivazione alla pag. 15).
Da ciò discende che, in relazione alle impugnazioni che sono state proposte sotto il vigore del comma 1-ter dell’art. 581 cod. proc. pen., come l’appello del Berlingeri, la norma che è contenuta in tale comma, considerato che la legge n. 114 del 2024 non ha previsto disposizioni transitorie al riguardo, continua a vivere nell’ordinamento anche dopo la sua abrogazione a opera dell’art. 2, comma 1, lett. o), della stessa legge n. 114 del 2024, con la conseguenza che, in virtù del richiamo fatto alla stessa norma dall’art. 157-ter, comma 3, cod. proc. pen., la notificazione dell’atto di citazione a giudizio nei confronti dell’imputato si deve ritenere essere stata correttamente eseguita presso il domicilio che egli aveva dichiarato o eletto ai sensi del medesimo comma 1-ter dell’art. 581 cod. proc. pen.
Il secondo motivo è in parte manifestamente infondato e in parte non consentito.
2.1. Esso è manifestamente infondato nella parte in cui il COGNOME ha denunciato che la propria condotta costituirebbe un post factum non punibile (punto 2.2.1. della parte in fatto).
Nel pronunciarsi sulla questione dell’individuazione del momento consumativo della truffa cosiddetta contrattuale, la Corte di cassazione ha più volte affermato come tale questione non possa essere risolta in via preventiva e astratta, essendo invece necessario muovere dalla peculiarità del singolo accordo e dalla valorizzazione della specifica volontà contrattuale e delle specifiche modalità delle condotte e dei loro tempi, in quanto solo un tale esame consente di individuare quale sia stato l’effettivo danno, quale il concreto profitto e quale il momento in cui essi si sono prodotti e, quindi, quando il reato si sia consumato (Sez. 2, n. 9092 del 12/12/2024, dep. 2025, COGNOME, Rv. 287628-01; Sez. 2, n. 33588 del 13/07/2023, COGNOME, Rv. 285143-01; Sez. 2, n. 11102 del 14/02/2017, COGNOME Rv. 269688-01; Sez. F, n. 31497 del 26/07/2012, COGNOME, Rv. 254043-01).
Nel caso di specie, dalla ricostruzione in fatto che è stata operata dai giudici del merito, e che non è contestata dal ricorrente, risulta che: a) la persona offesa NOME COGNOME pubblicava su un noto sito internet un annuncio di vendita di un ciclomotore; b) il COGNOME veniva contattato da un soggetto, senz’altro diverso dal COGNOME e rimasto ignoto (il concorrente non identificato), con il quale concordava il prezzo di € 2.800,00, così concludendo il contratto di compravendita del ciclomotore; c) come pure concordato, il Vita si recava a Gioiosa Ionica per consegnare il ciclomotore alla persona che il suddetto soggetto gli aveva indicato come suo padre, ivi gli si presentava il Berlingeri il quale, dopo avergli consegnato un foglio che attestava l’avvenuta effettuazione del bonifico del prezzo, si faceva consegnare il ciclomotore; d) da un successivo controllo, effettuato dal Vita in quanto il denaro non gli veniva accreditato, la persona offesa scopriva che la filiale dalla quale il suddetto bonifico appariva essere stato effettuato non esisteva più da anni.
Alla luce della peculiarità del menzionato accordo contrattuale e delle condotte che sono state effettivamente realizzate dagli agenti, emerge pertanto che l’effettivo pregiudizio per la persona offesa Vita si è prodotto non al momento della conclusione del contratto di compravendita del ciclomotore, bensì al momento in cui esso fu consegnato al Berlingeri, momento, questo, che segna, insieme con l’effettivo pregiudizio per la persona offesa, anche il conseguimento del concreto ingiusto profitto da parte dell’imputato.
Ne consegue che, poiché è solo in tale momento che la truffa si può ritenere consumata, l’artificiosa materiale condotta del Berlingeri, consistita nel consegnare alla persona offesa un foglio che attestava fittiziamente l’avvenuta effettuazione del bonifico del prezzo, ancorché compiuta dopo la conclusione del contratto di compravendita del ciclomotore, costituisce parte della condotta truffaldina – e non post factum non punibile – in quanto strumentale alla consegna del ciclomotore che, come si è detto, segna la consumazione della truffa.
Le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno del resto chiarito, con la sentenza COGNOME (Sez. U, n. 18 del 21/06/2020, COGNOME, Rv. 216429-01), che, posto che, nella truffa, il danno, oltre a dovere avere contenuto economico, deve anche consistere in una lesione concreta ed effettiva del bene tutelato, nell’ipotesi di truffa contrattuale, il reato si consuma non già quando il soggetto passivo assume l’obbligazione della datio di un bene economico, ma nel momento in cui si realizza l’effettivo conseguimento del bene da parte dell’agente e la definitiva perdita dello stesso da parte del raggirato.
2.2. Il motivo non è, invece, consentito nella parte in cui il ricorrente ha denunciato la mancanza della motivazione con riguardo all’elemento del dolo di concorso nella truffa.
Ciò in quanto, nel proprio atto di appello, come risulta dalla lettura dello stesso, il Berlingeri nulla aveva dedotto con riguardo all’elemento psicologico del reato, con la conseguenza che la Corte d’appello di Reggio Calabria ben poteva legittimamente non motivare in ordine alla sussistenza dello stesso elemento e che il motivo si appalesa, sul punto, del tutto nuovo, in quanto prospettato per la prima volta davanti a questa Corte e, perciò, non consentito.
In ogni caso, il Collegio considera che il motivo risulterebbe comunque infondato anche su tale punto, atteso che non si può ritenere né contraddittorio né manifestamente illogico, e neppure in contrasto con gli artt. 110 e 640 cod. pen., reputare, come ha fatto la Corte d’appello di Reggio Calabria, che la consegna alla persona offesa, da parte del ricorrente, di un foglio che attestava fittiziamente l’avvenuta effettuazione del bonifico del prezzo del ciclomotore, in funzione dell’ottenimento della consegna di esso, cioè del profitto della truffa, evidenziasse sintomaticamente – in assenza di elementi di segno contrario forniti dall’imputato – la consapevolezza, da parte sua, della suddetta fittizietà e l’esistenza di un previo concerto con il soggetto rimasto ignoto che aveva stipulato il contratto e del dolo iniziale di non pagare il prezzo del ciclomotore.
3. Il terzo motivo è manifestamente infondato.
Secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, in tema di ricorso per cassazione, non costituisce causa di annullamento della sentenza impugnata il mancato esame di un motivo di appello che risulti manifestamente infondato, atteso che l’eventuale accoglimento di tale doglianza non sortirebbe alcun esito favorevole in sede di giudizio di rinvio (Sez. 5, n. 27202 del 11/12/2012, dep. 2013, COGNOME, Rv. 256314-01; successivamente: Sez. 3, n. 46588 del 03/10/2019, COGNOME, Rv. 277281-01; Sez. 2, n. 35949 del 20/06/2019, COGNOME, Rv. 276745-01; Sez. 3, n. 21029 del 03/02/2015, COGNOME, Rv. 263980-01).
Nel caso in esame, con il secondo motivo del proprio atto di appello, il COGNOME aveva tra l’altro lamentato che la motivazione della sentenza di primo grado in punto di determinazione della misura della pena si sarebbe «sostanzia nel mero e acritico riferimento ai criteri indicati dalla norma contenuta nell’art. 133 c.p.», sicché la stessa motivazione non avrebbe «consent di individuare le ragioni del censurato convincimento giudiziale», il Tribunale di Locri avrebbe «radicalmente omesso di argomentare sul punto», non sarebbero state comprensibili «le ragioni per le quali il giudice di primo grado ha inteso discostarsi dal minimo edittale» e la valutazione dello stesso Tribunale non avrebbe potuto «considerarsi connotata dalla necessaria completezza» .
A tale proposito, si deve rammentare che la giurisprudenza della Corte di cassazione è costante nell’affermare che la determinazione della pena tra il minimo e il massimo edittale rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito ed è
insindacabile nei casi in cui la pena sia applicata in misura media e, ancor più, se prossima al minimo, anche nel caso in cui il giudicante si sia limitato a richiamare
criteri di adeguatezza, di equità e simili, nei quali sono impliciti gli elementi di cu all’art. 133 cod. pen. (tra le tante, Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015,
COGNOME, Rv. 265283-01).
Anche successivamente, è stato ribadito che la graduazione della pena rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale, per assolvere al relativo obbligo
di motivazione, è sufficiente che dia conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133
cod. pen. con espressioni del tipo: “pena congrua”, “pena equa” o “congruo aumento”, come pure con il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a
delinquere, essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla
misura media di quella edittale (Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, COGNOME Rv.
271243-01).
Nel caso di specie, la pena base irrogata dal Tribunale di Locri di sei mesi di reclusione ed € 60,00 di multa è, quanto a quella detentiva, pari al minimo edittale
(che è, appunto, di sei mesi di reclusione) e, quanto a quella pecuniaria, di pochissimo superiore al minimo edittale (che è di € 51,00), con la conseguenza che, diversamente da quanto era stato sostenuto dal COGNOME con il proprio motivo di appello, l’obbligo di motivazione ben poteva ritenersi assolto dal Tribunale di Locri mediante l’espressione, da esso utilizzata, «valutati tutti gli elementi di cui all’art. 133 c.p.».
La censura che era stata proposta dal ricorrente – effettivamente non esaminata dalla Corte d’appello di Reggio Calabria – era, perciò, manifestamente infondata, con la conseguenza che tale omesso esame non può costituire causa di annullamento della sentenza impugnata.
In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento, nonché, essendo ravvisabili profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento della somma di C 3.000,00 in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 27/05/2025.