Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 24689 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 24689 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 04/06/2025
SENTENZA
Sui ricorsi proposti da: NOME COGNOME nato in Marocco il 28/4/1983 NOME nato a Correzzola il 2/12/1956 NOME nato a Padova l’11/2 /1982 avverso la sentenza resa il 17 settembre 2024 dalla Corte di appello di Venezia visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dalla Consigliera NOME COGNOME sentite le conclusioni del Pubblico Ministero in persona della Sostituta Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto l’annullamento del provvedimento limitatamente alla confisca disposta in solido tra i concorrenti il rigetto del ricorso. sentite le conclusioni dell’avv. NOME COGNOME e dell’avv. NOME COGNOME anche in sostituzione dell’avv. NOME COGNOME che hanno insistito per l’accoglimento d ei motivi di ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1.Con il provvedimento impugnato la Corte di appello di Venezia ha confermato la sentenza resa il 23 novembre 2023 dal GUP del Tribunale di Padova, che ha dichiarato la responsabilità degli imputati NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME per il reato di truffa aggravata e li ha condannati alla pena di giustizia.
Si addebita agli imputati di avere, in concorso tra loro, facendo apparire COGNOME e COGNOME come giovani imprenditori e cedendo i Marcato in favore dei primi in concessione numerosi appezzamenti di terreno da pascolo, indotto l’Avepa e l’Agea ad erogare, in favore dei primi, somme stanziate dal Fondo agricolo europeo e in particolare diritti all’aiuto per un importo complessivo pari a oltre 4 milioni di euro.
2.Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso i difensori dei tre imputati con atto unico, deducendo:
2.1 Vizio di motivazione e travisamento della prova per contrasto delle argomentazioni della sentenza con i documenti agli atti, nonché violazione dell’art. 640
cod.pen. in punto di ritenuta sussistenza degli elementi costitutivi del reato di truffa. La Corte di merito ha travisato il risultato di prova offerto dai contratti di affitto sottoscritti dagli imputati COGNOME e COGNOME ed ha effettuato una interpretazione della norma di riferimento errata. L’art. 30 del Regolamento UE n. 1307 del 2013 individua i soggetti destinatari dei diritti all’aiuto facendo riferimento al numero di ettari detenuti l’ultimo giorno utile per la presentazione della domanda; nel caso di specie COGNOME e COGNOME, al momento della presentazione della domanda, avevano in essere diversi contratti di affitto con la società RAGIONE_SOCIALE e hanno correttamente indicato il numero di ettari da loro detenuti; il giudice di appello afferma che l’utilizzo dello strumento del contratto di subaffitto, sublocazione e subconcessione dei contratti di fondi rustici è vietato, ma questa affermazione si pone in contrasto col dettato dell’art. 14 della legge citata, che consente alle parti di derogare alle norme dettate in materia di contratti agrari, a condizione che i relativi accordi siano stipulati con l’assistenza delle rispettive organizzazioni sindacali di categoria. La società RAGIONE_SOCIALE aveva la disponibilità di migliaia di ettari di fondi rustici a titolo di concessione dai Comuni e dalle Comunità montane con specifica autorizzazione al subaffitto.
L’affermazione secondo cui la breve durata di questi contratti sarebbe un elemento fortemente indicativo della loro simulazione, sarebbe illogica ed apodittica poiché la durata annuale, nei contratti cosiddetti in deroga, è previsione tipica, senza dire che l ‘ attività di pascolo prevede necessariamente una turnazione delle aree sulle quali viene esercitata.
Altro punto della motivazione da cui emerge un travisamento dei risultati della prova è rappresentato dal passaggio contenuto alle pagine 49 e 50 della sentenza, in cui, nell’individuare gli artifizi, si pone l’accento sulla circostanza che COGNOME e COGNOME non avrebbero mai posto in essere alcuna attività agricola; questa affermazione trova ampia smentita nei documenti acquisiti al giudizio di primo grado ed esistenti nel fascicolo processuale, rappresentati dalle fatture di acquisto del bestiame e da quelle relative a servizi e lavorazioni forniti da terzi; dal contratto di comodato di stalla; dai relativi registri dai modelli di monticazione e demonticazione regolarmente vidimati; dalla denuncia di smarrimento di animali; dalla documentazione Inps relativa al
personale dipendente; tutti questi documenti attestano che COGNOME e COGNOME hanno svolto l’attività servendosi di terzisti, in persona dei COGNOME
La successiva cessione di parte dei titoli non può dimostrare che non abbiano mai svolto l’attività imprenditoriale, mentre la cronologia conferma che i due giovani imprenditori, avendo disponibilità di fondi destinati al pascolo in misura inferiore all’anno precedente, si sono determinati a monetizzare parte dei titoli attraverso la loro cessione in quanto la normativa lo permetteva, diversamente da quanto sostenuto in sentenza a pag. 52. Altro profilo evidenziato in sentenza è dato dalla circostanza che i due imputati non avessero alcuna esperienza nel settore, all’epoca della presentazione della domanda, ma la disciplina normativa attribuisce e riserva l’accesso ai diritti all’aiuto proprio ai giovani imprenditori che non abbiano svolto tale attività agricola negli anni precedenti.
Le richiamate dichiarazioni rese a sommarie informazioni confermano l’assunto difensivo secondo cui COGNOME e COGNOME hanno esercitato l’attività di imprenditore agricolo servendosi di cosiddetti terzisti, rappresentati dagli stessi COGNOME o da soggetti dai primi incaricati, non incorrendo e non violando alcun divieto della normativa di settore.
Ne consegue che l’attribuzione da parte di Agea dei titoli a Scarabello e Bouiy non può essere qualificata come frutto di un artifizio, dal momento che è avvenuta a seguito di un regolare procedimento amministrativo.
Lamenta inoltre il ricorrente che nella sentenza di primo grado il giudice non ha affrontato il tema relativo alla individuazione del soggetto indotto in errore, limitandosi ad individuare in via generica gli enti pagatori come coloro che avrebbero subito il danno derivante dalla asserita attività truffaldina.
La sentenza offre al riguardo una motivazione illogica e richiama per relationem la decisione di primo grado, così risultando affetta da una palese mancanza di motivazione su un elemento costitutivo del fatto tipico; va infatti rilevato che l’ente che concede i titoli all’esito della presentazione della relativa domanda, RAGIONE_SOCIALE, è diverso dall’ente RAGIONE_SOCIALE, che successivamente eroga i contributi, sicché il soggetto tratto in inganno non può che essere RAGIONE_SOCIALE.
Osserva il ricorrente che i diritti all’aiuto sono beni aventi contenuto economico e in quanto tali possono essere scambiati in relazione al loro valore economico e concorrono a formare il patrimonio dell’azienda in cui sono impiegati, al pari delle immobilizzazioni diverse da quelle materiali. La loro acquisizione, a seguito di artifizi e raggiri, rappresenta illecito profitto, con conseguente corrispettivo danno per l’ente concedente; da ciò consegue che il momento consumativo della truffa va individuato nel compimento dell’atto di attribuzione dei titoli, in quanto a quella data si è realizzata la condotta, considerato che la disciplina all’epoca vigente consentiva all’agricoltore di alienare i titoli indipendentemente dall’utilizzo, monetizzandone il valore.
2.2 Vizio di motivazione per travisamento della prova, nella parte in cui ritiene infondato il secondo motivo di appello relativo alla mancanza di rilievo penale della condotta sulla base di una corretta interpretazione della legislazione comunitaria e nazionale in materia di Diritto all’aiuto.
La Corte distrettuale ha introdotto un nuovo elemento di prova non considerato dal giudice di primo grado e rappresentato dalla relazione della d.ssa COGNOME che esprime una serie di valutazioni sulle attività delle società del gruppo Marcato, manifestando perplessità in ordine al rispetto della normativa di settore.
In assenza di elementi specifici, questo documento viene utilizzato dalla Corte per desumere la sussistenza di un movente in capo agli odierni ricorrenti per la realizzazione della condotta criminosa e per sostenere che l’attività francamente truffaldina realizzata nel caso di specie rappresenta un vero e proprio aggravamento in quanto, utilizzando lo strumento del subaffitto a sé stessi di terra ed animali in loro possesso, gli imputati ottengono il doppio risultato di mantenere, mediante l’utilizzo di teste di legno, la titolarità dei fondi e l’utilizzo dei collegati titoli.
Va tuttavia osservato che la medesima relazione riconosce, in un passaggio non richiamato dal provvedimento impugnato, che non emergono violazioni di carattere formale alla normativa regolamentare Ue e a quella nazionale, poiché la documentazione prodotta è formalmente idonea all’ottenimento dei contributi, con particolare riferimento al rispetto dei criteri di mantenimento previsto per le superfici destinate a pascolo.
Questo documento, pertanto, comprova la tesi difensiva secondo cui l’attività svolta dal cosiddetto gruppo COGNOME fosse lecita. L’unica differenziazione rispetto ad altre analoghe condotte diffuse nel settore è data dal fatto che nel caso di specie COGNOME NOME avesse richiesto il rilascio di una delega sui conti corrente intestati a Scarabello e a Bouiy.
Inoltre la Corte a pagina 65 ritiene sproporzionate le movimentazioni di denaro in favore dei Marcato, sebbene l’imputato abbia reso ampia spiegazione sui costi sostenuti per l’esercizio dell’attività in favore dei due giovani imprenditori, e ciò ha determinato un travisamento per omissione di un risultato di prova decisivo.
2.3 Vizio di motivazione in ordine all’elemento soggettivo della truffa poiché non emergono prove a sostegno del dolo e si è ritenuto di desumerlo dalla affermata sussistenza degli artifizi e raggiri, mentre non è stata dimostrata la conoscenza degli stessi da parte dell’imputata COGNOME la quale , a riprova della sua buonafede, ha venduto parte dei titoli al marito NOME COGNOME e continua a detenere il 50% dei titoli rimanenti dalle vendite effettuate.
2.4 Vizio di motivazione in punto di individuazione del momento consumativo del reato per evidente contrasto con la normativa di settore e omesso riconoscimento dell’intervenuta prescrizione dei reati commessi negli anni 2015, 2016 e 2017.
Secondo il Tribunale e la Corte la condotta realizzata integra una fattispecie unica a consumazione prolungata che si conclude con l’ultimo pagamento effettuato, a dispetto di quanto evidenziato dalla difesa, secondo cui i titoli all’aiuto sono disaccoppiati rispetto ai terreni e possono essere autonomamente trasferiti a terzi, assumendo la qualifica di beni aventi contenuto economico.
La Corte ha affermato che i successivi pagamenti accreditati richiedevano soltanto la permanenza, in capo al beneficiario dei titoli, del possesso dei terreni cui erano collegati e il reato si consuma con l’ultimo pagamento indebito effettuato in relazione ai titoli acquisiti.
Il ricorrente osserva, invece, che essendo le erogazioni non riconducibili esclusivamente all’originario comportamento fraudolento, ma risultando necessario il compimento da parte dell ‘ agente di ulteriori attività illecite, come la presentazione di distinte domande nelle annualità successive, i fatti contestati integrano plurimi e autonomi fatti di reato in continuazione tra loro, sicché risulterebbe maturato il termine di prescrizione in relazione al fatto attributivo dei titoli dalle successive erogazioni percepite fino al 30 luglio 2017 e le cifre relative alle condotte prescritte dovrebbero essere scorporate dal quantum della confisca.
2.5 Vizio di motivazione in ordine alla mancata concessione delle attenuanti generiche, alla determinazione della pena e travisamento della prova sul comportamento processuale degli imputati, poiché con l’atto di appello si lamentava l’omessa valutazione di elementi positivi nella condotta degli imputati, i quali sin dalle indagini preliminari avevano chiesto di essere sottoposti ad interrogatorio e presentato una lunga memoria ed avevano poi reso ampie e spontanee dichiarazioni, così ponendo in essere un comportamento processuale collaborativo, ma tale elemento è stato disatteso dai giudici.
Inoltre, è stata trascurata la circostanza che l’attività connessa all’erogazione dei contributi fosse stata comunque effettivamente svolta, con conseguente ridimensionamento della gravità della condotta.
2.6 Violazione di legge nella parte in cui conferma la confisca disposta dalla sentenza di primo grado e vizio di motivazione nell’individuazione del quantum delle erogazioni prese a riferimento per la determinazione della complessiva entità della confisca, alla luce dei principi affermati dalla recente sentenza delle Sezioni unite di questa Corte del 28 settembre 2024, per tre ordini di ragioni:
2.6.1 Sotto un primo profilo, nel determinare gli importi da confiscare, la Corte non ha considerato i costi effettivamente sostenuti dai M arcato per svolgere l’attività agricola, che avrebbero dovuto essere detratti dagli importi erogati.
2.6.2. La sentenza indica l’importo delle erogazioni asseritamente percepite dagli imputati COGNOME e COGNOME in somme tra loro diverse, alle pagg. 72-73 e 56-57, e poi
le imputa anche ai COGNOME, il che rende non chiaro il prospetto di calcolo esposto poco prima del dispositivo.
2.6.3 La confisca per l’intera somma erogata, indicata in oltre quattro milioni di euro, è stata disposta in solido a carico dei signori COGNOME padre e figlio, senza alcun riparto correlato all’effettivo grado di responsabilità personale di ciascuno degli imputati, in violazione dei principi affermati dalla recente sentenza pronunziata dalle Sezioni unite chiamata a pronunciarsi sulla questione di diritto se in caso di concorso di persone nel reato la confisca possa essere disposta per intero, indipendentemente da quanto da ciascuno percepito.
Secondo l’informazione provvisoria, nota al momento della presentazione del ricorso, in caso di concorso di persone nel reato va esclusa ogni forma di solidarietà passiva e la confisca va disposta nei confronti del singolo concorrente limitatamente all’importo di quanto dal medesimo conseguito e, solo nel caso di mancata individuazione della quota di arricchimento del singolo, soccorre il criterio della ripartizione in parti uguali.
A fronte di questa decisione la pretesa di attribuire ad entrambi i signori COGNOME il conseguimento come profitto del reato concorsuale dell’identica cifra di oltre quattro milioni di euro, in quanto confluiti in società dei COGNOME palesa tutta la propria fragilità poiché non specifica a chi le società si riferiscano.
In particolare alla ditta individuale COGNOME NOME furono ceduti i titoli per un valore di circa 833.000 euro, corrispondentemente confiscati sia a carico di NOME che di NOME COGNOME, ma non è spesa una parola per spiegare la riconducibilità di detta somma anche ad NOME COGNOME; per questo la confisca a carico di NOME per la quota di denaro percepita dalla società del figlio risulta illegittima.
2.7 Con nota trasmessa il 19 maggio 2025, i difensori hanno allegato motivi nuovi in ordine alla confisca, lamentando l’illegi ttimità della misura ablatoria avente ad oggetto il valore complessivo della condotta illecita, in assenza di prova certa della successiva percezione da parte dei ricorrenti, considerato che i titoli erogati a Bouiy e Scarabello sono stati ceduti a società la cui riconducibilità soggettiva ai due ricorrenti COGNOME non è stata esattamente accertata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.I ricorsi sono inammissibili perché propongono motivi non consentiti, o perchè risultano reiterativi dei motivi di gravame e deducono inesistenti travisamenti della prova, mentre invocano una diversa interpretazione delle fonti di prova, o perché deducono censure non formulate con i motivi di appello, in violazione dell’art. 606 quarto comma cod.proc.pen.
1.1 Appare necessario premettere che la Corte di appello ha pienamente confermato la ricostruzione in fatto e le considerazioni in diritto operate dal Tribunale, così giungendo a conclusioni analoghe, sulla scorta di una conforme ponderazione del compendio istruttorio, con motivazione del tutto immune da illogicità o omissioni sui temi devoluti. È quindi opportuno ricordare che questa Corte ha ripetutamente chiarito che la sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complessivo corpo argomentativo, specie quando i motivi di gravame non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate e ampiamente chiarite nella pronuncia di primo grado (Sez. U, n. 6682 del 04/02/1992, COGNOME, Rv. 19122901; Sez. 6, n. 8309 del 14/01/2021, COGNOME; Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218-01; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, COGNOME, Rv. 257595-01; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, dep. 2012, COGNOME, Rv. 252615-01;).
Pertanto, in presenza di una “doppia conforme” anche nell’iter motivazionale, il giudice di appello non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente ogni risultanza processuale, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale, egli spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente i fatti decisivi. Ne consegue che, in tal caso, debbono considerarsi implicitamente disattese le argomentazioni che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (Sez. 3, n. 13266 del 19/02/2021, COGNOME; Sez. 2, 19 n. 46261 del 18/09/2019, COGNOME, Rv. 277593-01; Sez. 1, n. 37588 del 18/06/2014, COGNOME, Rv. 260841-01).
Può osservarsi, ancora in via preliminare, che è preclusa alla Corte di cassazione la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito attraverso una diversa ed alternativa lettura, sia pure anch’essa logica, dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o comunque di attendibilità delle fonti di prova (Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, COGNOME, Rv. 277758-01; Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, COGNOME Rv. 273217-01, Sez. 5, n. 15041 del 24/10/2018, COGNOME, Rv. 275100-01, Sez. 4, 1219 del 14/09/2017, COGNOME, Rv. 271702-01, Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, COGNOME, Rv. 269217-01; Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, COGNOME, Rv. 26548201).
Occorre inoltre precisare che il travisamento della prova, nel quale sarebbero incorsi entrambi i giudici di merito, consiste in un errore percettivo e non valutativo della prova stessa, tale da minare alle fondamenta il ragionamento del giudice e il sillogismo che adesso presiede. In particolare consiste nell’affermare come esistenti fatti certamente non esistenti, ovvero come inesistenti fatti certamente esistenti. Il travisamento in particolare è configurabile quando si introduce nella motivazione un’inf ormazione rilevante che non esiste nel processo, ma anche quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia ed è ravvisabile ed efficace solo
se l’errore accertato sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio (Sez.6, n. 5146 del 16 gennaio 2014, COGNOME,rv 258774).
Nel caso in esame non ricorrono i denunziati travisamenti della prova poiché i giudici hanno preso in considerazione tutti gli elementi agli atti e li hanno interpretati secondo criteri di logica, in una visione complessiva della vicenda, ritenendo alcune questioni poste dalla difesa non dirimenti nell’ambito del robusto compendio acquisito o attribuendo ai dati valorizzati dagli imputati un significato coerente al contesto.
1.2 I primi tre motivi con i quali la difesa censura la rilevanza penale della condotta posta in essere dagli imputati, la sussistenza di artifizi e raggiri nella condotta dagli stessi realizzati e l’elemento soggettivo del reato di truffa da parte dell’imputata COGNOME sono generici poiché non si confrontano con gli argomenti della sentenza impugnata e si limitano a reiterare in modo quasi pedissequo le censure dedotte con i motivi di appello, cui la Corte ha risposto con articolata ed esaustiva motivazione.
Il robusto compendio probatorio che palesa l’ingegnoso meccanismo fraudolento attivato nell’inter esse dei Marcato, per consentire di fruire di erogazioni indebite, è costituito dai documenti acquisiti; dalla ricostruzione delle operazioni di affitto di terreni realizzate dai soggetti coinvolti; dal tenore delle testimonianze e dei messaggi whatsapp che gli imputati si erano scambiati nei giorni precedenti l’inserimento della domanda e nei mesi successivi; dal contenuto di diverse intercettazioni, comunicazioni, verbali e di testo ignorate dagli impugnanti.
In sintesi è emerso con inequivoca evidenza che attraverso un ‘articolata operazione, avvalendosi di COGNOME e di COGNOME come meri prestanome, in quanto soggetti muniti dei requisiti richiesti dalla normativa comunitaria per poter accedere agli aiuti in favore dei nuovi agricoltori, per ragioni di età e per non avere mai svolto attività di imprenditore agricolo, attraverso la cessione in sub-affitto in loro favore di terreni nella disponibilità della RAGIONE_SOCIALE, società dei Marcato -terreni che continuavano nella sostanza ad essere gestiti dai coimputati COGNOME – era stato possibile ottenere il riconoscimento di un numero ingente di titoli di aiuto, che in parte vennero riscossi e monetizzati e in parte, negli anni successivi, ceduti agli stessi COGNOME o conferiti e ceduti a società a costoro facenti capo.
In punto di fatto è certo e incontestato che NOME COGNOME, lavoratore dipendente di un Centro assistenza agricola (CAA), ha deciso di aprire un’azienda agricola nel maggio 2015; ha chiesto contributi agricoli, nella veste di nuovo imprenditore agricolo, alla Riserva nazionale, sulla base del possesso di oltre 1000 ettari di terreno, che risulta aver preso in affitto da società gestite dai coimputati COGNOME; ha ottenuto un ingente numero di d iritti all’Aiuto e, a distanza di un anno dall’apertura della sua azienda, ha chiuso l’impresa , cedendo a COGNOME quale ditta individuale, la metà dei titoli ottenuti; dopo sei mesi i restanti titoli sono stati conferiti ad una società
del COGNOME, di cui COGNOME cesserà di essere socio nel 2018, a fronte di un pagamento di 2.000 euro. Una condotta per molti versi analoga viene posta in essere da NOME COGNOME, moglie di NOME COGNOME, la quale, pur non avendo alcuna intenzione di gestire un’impresa agricola , inoltra domanda per ottenere il rilascio di un numero ingente di titoli di aiuto, che in parte cede ai COGNOME.
I due prestanome COGNOME e COGNOME non hanno mai esercitato attività di impresa, a dispetto della documentazione depositata a loro firma, che vorrebbe accreditare la tesi secondo cui i predetti avrebbero agito come capi delle rispettive aziende, avvalendosi dei servizi e del personale dei COGNOME come terzisti; anche le movimentazioni sui loro conti correnti, per far fronte ai costi di gestione delle rispettive aziende, erano effettuate con piena autonomia da COGNOME in forza di una delega rilasciatagli dai coimputati.
Le censure formulate dai difensori non contestano le condotte ricostruite nella loro materialità in fase di indagine e riassunte in sentenza e si appuntano su alcuni aspetti della motivazione che non assumono incidenza dirimente nell’articolato iter motivazionale seguito dai giudicanti a sostegno della prospettazione accusatoria; nel contempo, procedono alla parcellizzazione delle singole fasi della complessa operazione per non confrontarsi con gli esiti evidenti della complessiva operazione ricostruita in sentenza , da cui emerge il carattere fraudolento dell’operazione attivata.
L’artifizio e raggiro su cui tutta la vicenda si incentra è costituito dalla simulata volontà dei due soggetti, che avanzarono la richiesta di diritti all’ aiuto quali nuovi e giovani imprenditori agricoli, di intraprendere l’ attività di impresa agricola, come dichiarato in occasione della domanda per il rilascio dei titoli di aiuto, mentre si erano prestati ad agire come prestanome, acquisendo in sublocazione terreni nella disponibilità dei Marcato, per consentire a costoro di fruire di contributi cui non avrebbero avuto diritto, in quanto destinati solo a giovani agricoltori che svolgessero attività di capo azienda.
La sentenza in maniera scrupolosa e puntigliosa evidenzia tutti gli elementi che concorrono nel palesare il carattere fittizio della operazione diretta esclusivamente ad accaparrarsi contributi indebiti, deliberati dall’Agea in forza di una falsa rappresentazione, ed erogati dall’ Avepa.
Giova ribadire che ai fini della configurabilità del delitto di truffa, non è necessaria l’identità fra la persona indotta in errore e quella che ha subito il danno patrimoniale, purché, anche in assenza di contatti diretti fra il truffatore e il truffato, sussista un nesso di causalità tra l’induzione in errore, il profitto e il danno. (Sez. 2, n. 45599 del 30/10/2024, COGNOME, Rv. 287155 – 01)
Il ricorso non si confronta con le risultanze richiamate e trascura volutamente alcune emergenze probatorie dirimenti che comprovano l’illiceità della complessa vicenda ricostruita nella sentenza di secondo grado: in particolare non considera il tenore inequivoco dei messaggi whatsapp cui da cui emerge con lampante evidenza
l’intento fraudolento dei protagonisti dell’operazione sin dall’origine posta in essere per consentire ai COGNOME, padre e figlio, di accedere a finanziamenti europei non dovuti, tramite COGNOME, il quale anche nella sua veste di operatore del CAA, ha curato l’inserimento delle domande di ammissione alla riserva, anche in nome della COGNOME, nell’interesse dei COGNOME, come dimostrato dagli accertamenti della Guardia di Finanza e dal tenore dei messaggi, che la difesa ignora.
Neppure ricorre il travisamento denunziato con il secondo motivo poiché la Corte ha richiamato la relazione della dott.ssa COGNOME che ha evidenziato il carattere elusivo, anche se formalmente corretto dell’operazione intrapresa, che risulta fraudolenta perché basata su una simulazione della realtà.
Alla stregua del robusto compendio probatorio, deve ritenersi implicitamente esclusa la verosimiglianza dell’assunto difensivo secondo cui la COGNOME non sarebbe stata consapevole di contribuire alla realizzazione di una frode; le censure formulate con il ricorso, oltre che generiche, non sono consentite poiché invocano una diversa ricostruzione di merito, in assenza di manifeste illogicità e travisamenti.
1.2 La quarta censura, con cui si deduce l’intervenuta estinzione di alcune condotte per prescrizione, è manifestamente infondata.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, condivisa dal Collegio ed applicabile al caso in esame, in tema di frode in danno di enti previdenziali per ricezione indebita di emolumenti periodici, è configurabile il reato di truffa c.d. “a consumazione prolungata” quando le erogazioni pubbliche, a versamento rateizzato, siano riconducibili ad un originario ed unico comportamento fraudolento, mentre si configurano plurimi ed autonomi fatti di reato quando, per il conseguimento delle erogazioni successive alla prima, sia necessario il compimento di ulteriori attività fraudolente; ne consegue che, ai fini della prescrizione, nella prima ipotesi, il relativo termine decorre dalla percezione dell’ultima rata di finanziamento, mentre, nella seconda, dalla consumazione dei singoli fatti illeciti (Sez. 2, n. 2576 del 17/12/2021, dep. 2022, Cecere, Rv. 282436-01; Sez. 2, n. 53667 del 02/12/2016, COGNOME, Rv. 269381-01).
La categoria del reato unico a consumazione frazionata e prolungata nel tempo, alla quale il suindicato indirizzo giurisprudenziale si è espressamente richiamato, è stata elaborata dalla giurisprudenza per definire una condotta «che sin dall’inizio si prospetta nella volontà di chi intende commetterlo come un’azione che sfocia in un evento che continua a prodursi nel tempo, aumentando logicamente a mano a mano la propria entità. Quando l’azione esecutiva è idonea, ai sensi del secondo comma dell’art. 49 cod. pen., ed ha conseguito l’effetto causale che ne discende, colui che l’ha attuata con coscienza e volontà ne continua a rispondere, ove non ne interrompa egli stesso l’effetto, anche se questo, e cioè l’evento che continua a protrarsi nel tempo, poteva essere interrotto dalla stessa parte offesa» (Sez. 2, n. 1302 del 25/11/1986, COGNOME, Rv. 174983; Sez. 2, n. 4856 del 27/02/1984, Messina, Rv. 164375)
Si è, dunque, al cospetto della prosecuzione degli effetti di una originaria illecita deliberazione, cui si ricollegano, da un lato, l’impossibilità di realizzare l’artificiosa frantumazione di una condotta geneticamente sorta come unitaria e, dall’altro lato, la necessità di tener conto dell’importo complessivo delle somme indebitamente accumulate nel tempo a seguito della iniziale condotta attiva od omissiva.
Alla luce di tale principio, ciò che occorre focalizzare, per quanto di odierno interesse, non è la natura dell’ente o le modalità di erogazione del finanziamento o contributo, quanto, piuttosto, la circostanza che l’autore del reato abbia o meno commesso ulteriori attività fraudolente successive alla prima per conseguire il suo risultato.
Come già evidenziato l a circostanza che l’ente erogatore non coincida con l’ente destinatario del raggiro non ha alcuna rilevanza sulla sussistenza dell’elemento materiale del reato poiché è stato precisato che la struttura del delitto di truffa non esige l’identità fra la persona offesa e quella indotta in errore, e quindi detto reato sussiste pur in mancanza di tale identità, sempre che gli effetti dell’inganno e della condotta dell’ingannato si riversino nel patrimonio del danneggiato. (Sez. 2, n. 3465 del 19/12/1973, dep. 1974, COGNOME, Rv. 126886 – 01)
La Corte, condividendo quanto affermato dal Gup, ha ribadito che la truffa si realizza attraverso l’ottenimento indebito dei d iritti all’aiuto e il loro successivo pagamento da parte dell’ente erogatore, che è stato effettuato tra il 2016 e il 2019, sicché la truffa si è consumata con l’ultimo pagamento effettuato da Avepa in forza dei titoli attribuiti nel 2015; a pag. 68 la Corte osserva che la truffa si è consumata interamente non nel momento della attribuzione dei d iritti all’aiuto , ma al momento della liquidazione in denaro da parte dell’Avepa , in quanto la loro escutibilità era comunque collegata alla permanenza del formale possesso della terra da parte di chi era in grado di incassarli.
La richiamata motivazione è stata contestata dai ricorrenti osservando che la frode si sarebbe consumata al momento dell’attribuzione dei titoli e che l’erogazione dei contributi ad essi collegati è avvenuta in seguito all’inoltro di distinte domande , sicché ricorrono più truffe successive, poiché le erogazioni non sono riconducibili ad un unico comportamento fraudolento, ma presuppongono ulteriori condotte.
La pronunzia n. 21712 del 12/02/2019, Pmt, Rv. 275822 -01, con cui è stato precisato che i diritti all’aiuto sono beni mobili immateriali registrati, non risulta dirimente, nel senso prospettata dalla difesa, in quanto l’attribuzione di un valore economico autonomo a tali titoli (attestato dall’esistenza di un mercato ove i titoli sono oggetto di quotazione e contrattazione, dalla loro trasferibilità mediante negozi giuridici, dall’inserimento dei titoli nel patrimonio dell’azienda agricola condotta dall’imprenditore titolare dei diritti all’aiuto), non incide sulla consumazione della truffa, che è stata correttamente ricondotta all’ultimo pagamento da parte di Avepa dei contributi, in relazione ai titoli conseguiti con frode.
Giova ricordare in questa sede che la truffa è reato istantaneo e di danno che si perfeziona nel momento e nel luogo in cui alla realizzazione della condotta tipica da parte dell’autore fa seguito la “deminutio patrimonii” del soggetto passivo. (Sez. 2, n. 17322 del 18/01/2019, Creo, Rv. 276420 – 01)
Ne consegue che la truffa si consuma nel momento in cui i titoli, e cioè i diritti all’aiuto attribuiti ai richiedenti, COGNOME e COGNOME sono stati portati all’incasso e liquidati dall’ente pubblico , dando luogo ai pagamenti meglio indicati nel capo d’imputazione, poiché si tratta di titoli ottenuti per effetto della prima domanda fraudolenta.
Le cessioni dei titoli in favore delle società dei Marcato, indicate anche nel capo d’imputazione, vanno intese come momento della medesima truffa e mezzo per consentire ai Marcato di lucrare il contributo conseguito fraudolentemente; il danno per l’ente pubblico, legato alla liquidazione dei titoli , non si è ancora interamente realizzato e la truffa non si è ancora interamente consumata. La presentazione della domanda di pagamento è strettamente connessa alla prima attribuzione dei titoli e costituisce mero adempimento esecutivo che non incide sui termini di consumazione della truffa, non richiedendo lo svolgimento di ulteriore attività fraudolenta, riconnettendosi il pagamento alla prima attribuzione dei titoli.
Ne consegue la manifesta infondatezza della dedotta intervenuta prescrizione poiché i termini ex art. 157 cod.pen. hanno iniziato a decorrere dall’ultimo atto di pagamento dei titoli acquisiti fraudolentemente.
1.5 La quinta censura è manifestamente infondata poiché la Corte ha motivato in maniera completa e coerente in ordine alla congruità del trattamento sanzionatorio e al diniego delle attenuanti generiche, condividendo le argomentazioni del primo giudice, ed a tal fine ha valorizzato la obiettiva gravità delle condotte e l’assenza di attività restitutorie e ha osservato che anche il preteso comportamento collaborativo degli imputati si è risolto in una strenua difesa del loro operato.
1.6 La censura relativa alla confisca è inammissibile.
Occorre preliminarmente osservare che con l’appello la difesa si era limitata in merito alla confisca e al quantum della stessa a contestare la mancata contabilizzazione dei costi sostenuti in relazione all’attività di allevamento effettivamente svolta dagli imputati, costi che avrebbero dovuto essere detratti dall’importo dei contributi erogati, nella determinazione del profitto.
Tale censura è stata reiterata con il primo profilo del motivo di ricorso, con cui sono state ampliate le questioni relative alla confisca, articolando profili di censura non dedotti con il gravame.
In ordine al primo aspetto, dedotto con l’appello, il Collegio non può che richiamare la giurisprudenza di questa Corte che, con riguardo a condotte caratterizzate dall ‘ allegazione di contratti “falsi”, ha chiarito come “… il vantaggio ingiusto generato dalla condotta decettiva sia l’intero contributo lucrato e non solo una parte di esso
(ovvero quella riferibile ai terreni riconducibili alla parte del contratto falsificata)” (cfr., così, in motivazione di Sez. 2, n. 53650 del 05/10/2016, COGNOME, Rv. 268853 – 01).
Ciò in quanto la condotta fraudolenta contestata “inquina” l’intera procedura, sicché il contributo ottenuto deve considerarsi integralmente illecito, non essendo possibile detrarre i costi sostenuti per lo svolgimento dell’attività d’impresa , palesemente affrontata in assenza dei requisiti che giustificavano l’erogazione .
Il secondo profilo di censura, in merito a rilevate discrasie nella sentenza di secondo grado nella determinazione degli importi da confiscare, non è sostenuto da adeguato interesse, poiché la pronunzia di appello alle pag. 56 e 57 ha ricostruito puntigliosamente le erogazioni direttamente ricevute dagli imputati COGNOME e COGNOME e se nella indicazione di queste somme in motivazione emergono alcune lievi differenze, ciò risulta privo di conseguenze in quanto il collegio ha disposto la confisca nei confronti dei tre odierni ricorrenti della somma complessiva degli importi erogati da RAGIONE_SOCIALE e dei titoli ceduti ai Marcato, direttamente e in favore di società loro facenti capo; sono queste le cifre rilevanti e al riguardo il ricorrente non evidenzia significative differenze.
In ordine al terzo profilo di censura, devoluto solo in questa sede, va preliminarmente osservato che non sono deducibili con il ricorso per cassazione questioni che non abbiano costituito oggetto di motivi di gravame, dovendosi evitare il rischio che in sede di legittimità sia annullato il provvedimento impugnato con riferimento ad un punto della decisione rispetto al quale si configura un inevitabile difetto di motivazione per essere stato l’argomento intenzionalmente sottratto alla cognizione del giudice di appello. (Sez. 2, n. 29707 del 08/03/2017, COGNOME Rv. 270316 – 01)
Secondo il diritto vivente, alla luce di quanto disposto dall’art. 609, comma 2, cod. proc. pen., non possono essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunciare perché non devolute alla sua cognizione, ad eccezione di quelle rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del giudizio e di quelle che non sarebbe stato possibile proporre in precedenza (Sez. 2, n. 34044 del 20/11/2020, Tocco, Rv. 280306; Sez. 3, n. 27256 del 23/07/2020, COGNOME, Rv. 279903; Sez. 3, n. 57116 del 29/09/2017, B., Rv. 271869; Sez. 3 2, n. 29707 del 08/03/2017, COGNOME, Rv. 270316; Sez. 2, n. 8890 del 31/01/2017, COGNOME, Rv. 269368).
Ne consegue che la doglianza relativa alla disposta solidarietà passiva tra i COGNOME non è consentita, poiché deduce una violazione di legge non proposta con l’appello, che avrebbe potuto essere formulata in quel grado di giudizio.
Né può ritenersi che la recente pronunzia a Sezioni Unite, n. 13783 del 26/09/2024, dep. 2025, COGNOME, Rv. 287756-01, consenta al ricorrente di recuperare in questa fase questioni non dedotte in appello, in quanto la sentenza del più alto consesso di questa Suprema Corte non ha carattere costitutivo, ma interpretativo e ribadisce alcuni principi di diritto in tema di confisca, che sono già stati oggetto di approfondimenti ed elaborazioni da parte di numerose pronunzie, anche se non sempre concordi tra loro.
Neppure è vero che la sentenza in esame non sia conforme ai principi affermati dalle Sezioni unite con la sentenza COGNOME in quanto detta pronunzia ha ribadito al par.32 che il profitto conseguito da ciascun compartecipe nel reato è un tema del processo oggetto di prova e la presunzione di solidarietà del vantaggio, fondata sulla massima di esperienza secondo cui chi partecipa ad un reato ne trae vantaggio, potrà essere superata ‘ attraverso la allegazione di fatti dimostrativi della partecipazione del singolo concorrente al reato per ragioni diverse da quella di trarre una indebita locupletazione e che potrà condurre ad un accertamento anche della inesistenza di un effettivo arricchimento da parte del compartecipe , (..) una verifica che impone, secondo le regole ordinarie del processo, al pubblico ministero di provare il quantum di profitto conseguito dai singoli correi in relazione a ciascun reato; ciascun concorrente potrà a sua volta dimostrare a discarico di non aver conseguito nessun vantaggio o di averne conseguito una parte inferiore rispetto a quella indicata dalla pubblica accusa.(..) Una verifica che giustifica una regola di chiusura che opera in modo oggettivo nel solo caso in cui sia stato provato il conseguimento da parte del singolo partecipe di una quota di profitto o di prezzo del reato, ma al tempo stesso nessuna delle parti sia stata in grado di quantificare in concreto il vantaggio, di dividere il complessivo arricchimento indebito. Una regola di chiusura che, sul presupposto provato che una parte del profitto o del prezzo del reato sia stato conseguito dal compartecipe, consente di ripartire il vantaggio derivante dal singolo reato in parti uguali tra i correi.’ (Sez. U, n. 13783 del 26/09/2024, dep. 2025, COGNOME, Rv. 287756 – 01).
In conclusione la recente sentenza delle Sezioni Unite intende ribadire la necessità di rifuggire da ogni automatismo nel determinare il quantum della confisca, e prima ancora del sequestro, in forza del richiamo al principio di solidarietà, ma riconosce la legittimità di una misura ablatoria uguale tra i correi, quando non emerge e non è allegata la prova del diverso profitto ricavato dal singolo, nel rispetto del principio di proporzionalità.
Ciò posto, nel caso di specie, la Corte di merito, condividendo le argomentazioni del Tribunale, non ha collegato la solidarietà passiva alla concezione monistica del concorso di persone nel reato, ma ha congruamente spiegato a pag. 72 che i due COGNOME, padre e figlio, hanno percepito indistintamente tra loro il profitto del reato, in quanto entrambe le ditte individuali fanno capo alla loro comune gestione e hanno usufruito dei contributi agricoli, anche tramite le loro società, in misura non chiaramente frazionabile tra i due , a prescindere dall’intestazione formale . Nei confronti della COGNOME ha determinato la confisca per equivalente in misura corrispondente al corrispettivo dei titoli erogati in suo favore, in esso ricompreso il valore dei titoli ceduti ai Marcato; la difesa nel corso del giudizio, non ha contestato questo assunto, che è stato oggetto specifico di prova, e trattandosi di questione di fatto, non può farlo per la prima volta in sede di legittimità con il ricorso, nè, a maggior ragione, con memoria o con motivi aggiunti.
Nel giudizio di impugnazione, la facoltà della parte di presentare memorie non può superare le preclusioni fissate dai termini per impugnare e da quelli concessi per la presentazione di motivi nuovi ai sensi dell’art. 585, commi 1, 4 e 5, cod. proc. pen., sicché la memoria difensiva non può contenere doglianze ulteriori e diverse rispetto a quelle proposte con il gravame o con i motivi aggiunti, ma può solo supportare, con dovizia di particolari e più puntuali argomentazioni, i temi già devoluti con il mezzo di impugnazione proposto. (Sez. 3, n. 25868 del 20/02/2024, Di, Rv. 286729 – 01)
Inoltre va ribadito che la facoltà del ricorrente di presentare motivi nuovi incontra il limite del necessario riferimento ai motivi principali, di cui i primi devono rappresentare mero sviluppo o migliore esposizione, ma sempre ricollegabili ai capi e ai punti già dedotti, sicché sono ammissibili soltanto motivi aggiunti con i quali si alleghino ragioni di carattere giuridico diverse o ulteriori, ma non anche motivi con i quali si intenda allargare l’ambito del predetto “petitum”, introducendo censure non tempestivamente formalizzate entro i termini per l’impugnazione. (Sez. 6, n. 36206 del 30/09/2020, Tobi, Rv. 280294 – 01)
2. Per le ragioni sin qui esposte si impone la dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi , che comporta l’inammissibilità anche dei motivi aggiunti, con la conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento di un’ammenda, che si ritiene congruo liquidare in euro 3000 in ragione del grado di colpa nella presentazione della impugnazione.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Roma 4 giugno 2025 Il Consigliere estensore La Presidente
NOME COGNOME NOME COGNOME