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Trattamento punitivo: quando il ricorso è inammissibile

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un’imputata contro la determinazione del trattamento punitivo. Il ricorso era basato sull’errato presupposto che la Corte d’Appello si fosse discostata dal minimo edittale senza adeguata motivazione. In realtà, la pena base era stata fissata proprio al minimo legale, rendendo la censura infondata e il ricorso, di conseguenza, inammissibile.

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Pubblicato il 25 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Trattamento Punitivo: L’Inammissibilità del Ricorso Basato su Presupposti Errati

L’ordinanza n. 22325/2024 della Corte di Cassazione offre un importante chiarimento sui limiti di ammissibilità dei ricorsi che contestano il trattamento punitivo applicato dal giudice di merito. In particolare, la Suprema Corte ribadisce un principio fondamentale: un’impugnazione non può basarsi su un’errata interpretazione della sentenza contestata, specialmente quando la pena base è già stata fissata al minimo previsto dalla legge.

I Fatti del Caso

Una ricorrente si rivolgeva alla Corte di Cassazione per contestare la sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Milano. L’unico motivo del ricorso verteva su un presunto vizio di motivazione e sulla violazione dell’art. 133 del codice penale. Secondo la difesa, la Corte territoriale si era discostata dal minimo edittale nella determinazione della pena senza fornire una motivazione sufficiente e logica, ignorando le deduzioni difensive.

La doglianza si concentrava, quindi, sulla presunta inadeguatezza delle argomentazioni del giudice d’appello nel giustificare una pena ritenuta superiore al minimo di legge.

La Decisione della Corte sul Trattamento Punitivo

La Suprema Corte ha esaminato il ricorso e lo ha dichiarato inammissibile. La decisione si fonda su un’analisi attenta della sentenza impugnata, dalla quale emergeva una realtà processuale diversa da quella rappresentata dalla ricorrente.

Contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, la Corte d’Appello non si era affatto discostata dal minimo edittale. Anzi, aveva rideterminato la pena attestandola proprio sul minimo di due anni di reclusione. Gli aumenti successivi erano dovuti all’applicazione della continuazione tra i reati (ex art. 81 cpv. cod. pen.), aumenti che erano già stati correttamente individuati e motivati in modo adeguato dal giudice di primo grado. Di conseguenza, il ricorso partiva da un “errato presupposto”, ovvero la contestazione di un discostamento dal minimo edittale che, nei fatti, non era mai avvenuto.

Le Motivazioni della Decisione

La Corte di Cassazione ha evidenziato che il motivo di ricorso era “indeducibile”. Questo termine tecnico indica che la questione sollevata non poteva essere validamente proposta in sede di legittimità. Il motivo è semplice: la motivazione della Corte d’Appello sul trattamento punitivo era non solo presente, ma anche sufficiente e non illogica.

La censura della ricorrente muoveva da un presupposto di fatto errato: la presunta applicazione di una pena base superiore al minimo. La Cassazione ha chiarito che la Corte d’Appello aveva invece confermato la pena minima, rendendo l’intera argomentazione difensiva priva di fondamento. Il ricorso, pertanto, non contestava un vizio reale della sentenza, ma una sua errata lettura.

In questi casi, il ricorso perde la sua funzione di controllo sulla legittimità della decisione e diventa uno strumento improprio per ridiscutere il merito della valutazione del giudice, cosa non permessa in Cassazione. L’inammissibilità è stata quindi la conseguenza inevitabile, con la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende.

Le Conclusioni e le Implicazioni Pratiche

Questa ordinanza rafforza un principio cardine del sistema delle impugnazioni: i motivi di ricorso devono essere specifici e pertinenti, basati su vizi concreti e dimostrabili della decisione impugnata, non su interpretazioni errate o supposizioni. Contestare un trattamento punitivo è legittimo solo se si può dimostrare che il giudice ha violato la legge o ha fornito una motivazione manifestamente illogica o assente.

Quando, come nel caso di specie, la pena è fissata al minimo edittale, una doglianza per violazione dell’art. 133 c.p. è intrinsecamente infondata. La decisione insegna che è fondamentale, prima di impugnare una sentenza, analizzarla con estrema attenzione per assicurarsi che le censure che si intendono sollevare abbiano un solido fondamento giuridico e fattuale. In caso contrario, il rischio è non solo il rigetto del ricorso, ma anche una condanna a ulteriori spese.

È possibile contestare una sentenza se si ritiene che il giudice si sia discostato dal minimo della pena senza una valida motivazione?
Sì, è possibile, ma il ricorso deve fondarsi su un presupposto corretto. Nel caso specifico, il ricorso è stato dichiarato inammissibile perché la Corte territoriale aveva in realtà applicato la pena base nel minimo edittale di due anni, rendendo la censura infondata.

Cosa significa che un ricorso è dichiarato inammissibile?
Significa che la Corte non esamina il merito della questione perché il ricorso non rispetta i requisiti di legge. In questo caso, il ricorso si basava su un’errata interpretazione della sentenza impugnata e quindi su un presupposto di fatto inesistente.

Quali sono state le conseguenze per la ricorrente dopo la dichiarazione di inammissibilità?
La ricorrente è stata condannata al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma di tremila euro in favore della Cassa delle ammende, come previsto dalla legge in caso di inammissibilità del ricorso.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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