Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 44747 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 44747 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 22/10/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
NOME nato a REGGIO CALABRIA il 03/07/1985
COGNOME NOME nato a REGGIO CALABRIA il 16/12/1970 COGNOME NOME nato a LODI il 16/12/1976 COGNOME NOME nato a REGGIO CALABRIA il 16/01/1956 COGNOME NOME nato a REGGIO CALABRIA il 12/01/1989 COGNOME NOME nato a REGGIO CALABRIA il 07/05/1979
avverso la sentenza del 16/06/2023 della CORTE APPELLO di REGGIO CALABRIA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; 4:1 udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto dei ricorsi; udito per la parte civile l’avv. NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso di COGNOME Paolo; uditi per gli imputati l’avv. NOME COGNOME l’avv. NOME COGNOME l’avv. NOME COGNOME e l’avv. NOME COGNOME che hanno concluso chiedendo l’accoglimento dei ricorsi proposti nell’interesse dei rispettivi assistiti.
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Reggio Calabria ha confermato la condanna di COGNOME NOME per i reati di partecipazione ad associazione mafiosa, tentata estorsione aggravata e di trasferimento fraudolento di valori; di COGNOME NOME e COGNOME NOME per il reato di trasferimento fraudolento di valori; di COGNOME NOME per i reati di partecipazione ad associazione mafiosa, trasferimento fraudolento di valori, detenzione di arma clandestina, ricettazione della stessa e detenzione di munizioni per arma comune da sparo; di COGNOME NOME e COGNOME NOME per il reato di detenzione di sostanze stupefacenti ed il primo anche per quello di trasferimento fraudolento di valori. In parziale riforma della pronunzia di primo grado con la medesima sentenza la Corte territoriale ha assolto il COGNOME per il reato di concorrenza illecita aggravata, il COGNOME NOME ed il COGNOME per i reati aggravati di detenzione e porto di armi anche clandestine e di ricettazione di queste ultime, il COGNOME per il reato di partecipazione ad associazione mafiosa ed ha escluso a carico del COGNOME l’aggravante mafiosa originariamente contestatagli e invece riconosciuto al COGNOME NOME le attenuanti generiche, concedendo a questi ultimi il beneficio della sospensione condizionale della pena.
2. Avverso la sentenza ricorrono con atti autonomi tutti gli imputati.
2.1 Il ricorso proposto da COGNOME NOME articola due motivi. Con il primo deduce erronea applicazione della legge penale e vizi di motivazione. In particolare il ricorrente lamenta che l’affermazione di responsabilità dell’imputato sia stata affermata in sentenza motivando esclusivamente sulla fittizia intestazione al medesimo dell’attività commerciale della quale invece è stato ritenuto essere titolare il COGNOME NOME. Per contro in maniera solo apodittica i giudici del merito, nonostante le sollecitazioni difensive sul punto, avrebbero affermato la sussistenza dei presupposti per la rilevanza del fatto ai sensi del contestato art. 512-bis c.p. e sulla configurabilità del dolo specifico necessario per l’integrazione del reato, peraltro senza considerare le risultanze processuali da cui emergerebbe come il COGNOME avrebbe agito per finalità diverse – e dunque non tipiche – da quelle indicate dalla norma incriminatrice succitata. Con il secondo motivo viene eccepito che, una volta esclusa dalla Corte l’aggravante mafiosa, in realtà il reato si sarebbe prescritto già prima della pronunzia della sentenza impugnata.
2.2 Il ricorso proposto da COGNOME Paolo articola otto motivi.
2.2.1 Con il primo viene dedotta violazione di legge per difetto di motivazione in merito alle censure proposte con l’atto d’appello e con la memoria depositata nel corso del giudizio di secondo grado in merito alla sussistenza del reato di associazione mafiosa
con particolare riguardo alla configurabilità di una “costola” della cosca ‘ndranghetista “Labate” capeggiata da NOME NOME operativa nel quartiere di Gebbione ed alla quale l’imputato è stato ritenuto appartenere.
2.2.2 Con il secondo motivo il ricorrente denunzia erronea applicazione della legge penale e vizi di motivazione.
Sotto un primo profilo lamenta che la Corte avrebbe motivato in maniera solo apparente sull’organicità del gruppo riconducibile al COGNOME ed al COGNOME alla cosca “Labate”. Gli unici elementi obiettivi evocati dai giudici del merito sarebbero, infatti, costituiti dalla pregressa intraneità dei due coimputati al summenzionato peraltro risalente al 1997, momento dal quale né questi ultimi, né alcuno degli altri presunti appartenenti al gruppo è stato coinvolto nelle indagini o nei processi succedutisi negli anni ad oggetto l’attività del clan ‘ndranghetista. La sentenza impugnata avrebbe poi illogicamente valorizzato le generiche dichiarazioni rilasciate dal collaboratore COGNOME il quale, peraltro, non avrebbe mai narrato dell’esistenza di una articolazione dell’associazione operante al Gebbione e avrebbe comunque riferito fatti già noti perché oggetto di precedenti procedimenti penali. La Corte avrebbe poi sostanzialmente travisato o considerato solo parzialmente le intercettazioni evocate a riscontro del citato collaboratore, dalle quali emergerebbero invece sia i profondi attriti insorti tra il Toscano ed il sodalizio, sia l’intenzione di quest’ultimo, dopo la sua scarcerazione, di non voler avere più a che fare con lo stesso. Ed in proposito il ricorso lamenta altresì che la Corte non si sarebbe confrontata con i rilievi difensivi ad oggetto l’effettivo significato delle menzionate captazioni, limitandosi ad affermare in maniera apodittica la costante ed attuale adesione del Toscano all’associazione contestata al capo 1).
I medesimi vizi motivazionali affliggerebbero anche le conclusioni assunte dai giudici dell’appello in merito alla partecipazione all’associazione del Falco ed in particolare alla sua consapevolezza della stessa esistenza di una “costola” della cosca “Labate” diretta dal COGNOME NOME ed alla sussistenza del dolo specifico necessario per la configurabilità del reato contestatogli. Nuovamente la Corte territoriale avrebbe travisato od omesso di considerare il contenuto della conversazione intrattenuta dall’imputato con la compagna del COGNOME oggetto di captazione, mentre le dichiarazioni del COGNOME che lo riguardano avrebbero ad oggetto, a tutto concedere, i rapporti intercorrenti tra il COGNOME ed il COGNOME NOME, figlio di NOME, il quale è stato però assolto dalla contestazione associativa. Inconferente sarebbe poi la conoscenza da parte dell’imputato dell’esistenza della cosca “Labate” e della presenza criminale nel Gebbione, quartiere dove egli è nato e cresciuto, e che dunque non potrebbe costituire, come preteso dalla
sentenza impugnata, effettivo indice del suo organico inserimento nel contesto mafioso di cui si tratta.
2.2.3 Analoghi vizi vengono dedotti con il terzo motivo con riguardo all’affermazione della responsabilità dell’imputato per la tentata estorsione ai danni del Triolo. Nuovamente la Corte avrebbe omesso di fornire risposta alle contestazioni della difesa, che aveva rilevato l’assenza della prova del tornaconto economico che il COGNOME avrebbe ricavato dalla sua “intermediazione” tra la vittima ed il COGNOME in merito al pagamento del credito vantato da quest’ultimo, conseguendone il difetto della prova degli stessi elementi costitutivi del reato contestato. Mere congetture sarebbero in tal senso le supposizioni che la persona offesa ha formulato in merito ai presunti vantaggi ricavati dal Toscano, mentre il fatto che la stessa sia stata costretta a pagare l’esatto ammontare del credito al più avrebbe dovuto portare il giudice dell’appello alla riqualificazione del fatto ai sensi dell’art. 393 c.p.
2.2.4 Ancora erronea applicazione della legge penale e vizi di motivazione vengono dedotti anche con il quarto motivo in merito alla contestazione relativa all’intestazione. fittizia della ditta Croce Granata. In proposito la Corte avrebbe solo apoditticamente. ritenuto che il COGNOME NOME ed il COGNOME NOME siano stati gli effettivi titolar dell’impresa sin dalla sua fondazione nel 2004, non essendo stata acquisita alcuna evidenza del loro coinvolgimento nella sua gestione, invece pacificamente imputabile al COGNOME NOME, e nonostante il fatto che gli stessi sono rimasti in stato di detenzione fino al 2009. Quanto poi all’apertura della ditta Croce Amaranto, è la stessa sentenza impugnata a dare atto del fatto che la sua intestazione a COGNOME NOME è stata determinata dall’impossibilità del COGNOME e del COGNOME NOME di superare l’interdittiva antimafia a causa della loro pregressa condanna per il reato di associazione mafiosa e non già dal timore dell’applicazione di misure di prevenzione patrimoniali. Non di meno apoditticamente la Corte avrebbe ritenuto la continuità tra le summenzionate ditte, assumendo erroneamente, come detto, che la RAGIONE_SOCIALE fosse effettivamente nella titolarità del Toscano e del Laurendi. Né sarebbe stato provato che la nuova attività sia stata avviata utilizzando risorse finanziarie di illecita provenienza, come invece necessario.
2.2.5 Sempre i medesimi vizi vengono denunziati anche con il quinto motivo in merito al riconoscimento dell’aggravante mafiosa in riferimento ai menzionati reati di tentata estorsione e intestazione fittizia. In proposito la Corte avrebbe apparentemente ritenuto integrata la suddetta aggravante in entrambe le sue declinazioni, oggettiva e soggettiva, tipizzate dall’art. 416-bis.1 c.p., senza in ogni caso motivare sul perché le minacce asseritamente realizzate dall’imputato sarebbero estrinsecazione del metodo
mafioso e senza evidenziare gli elementi idonei a comprovare la finalità agevolatrice del sodalizio mafioso perseguita ed alla consapevolezza da parte del Falco della stessa.
2.2.6 Analoghi vizi vengono ancora dedotti con il sesto motivo in merito alla configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 416-bthcomma 4 c.p., riconosciuta sulla base del mero riscontro oggettivo della disponibilità di armi, senza alcun accertamento della sua effettiva correlazione con gli scopi del sodalizio. Né peraltro sarebbe stata fornita dimostrazione della consapevolezza da parte dell’imputato di tale disponibilità. 2.2.7 Con il settimo ed ottavo motivo il ricorrente censura, infine, la commisurazione degli aumenti di pena per la continuazione disposti in relazione ai reati fine addebitati all’imputato, nonostante l’intervenuta assoluzione per uno di quelli originariamente contestatigli e l’esclusione dell’aggravante di cui all’art. 416-bis comma 6 c.p. e nonostante la riduzione di pena invece disposta nei confronti del COGNOME, nonché l’ingiustificata negazione delle attenuanti generiche a dispetto del comportamento collaborativo tenuto dal COGNOME.
2.3 Il ricorso proposto da COGNOME Vincenzo articola due motivi. Con il primo il ricorrente deduce erronea applicazione della legge penale e vizi di motivazione in merito alla sussistenza del reato di interposizione fittizia contestato all’imputato, nonché alla configurabilità dell’aggravante mafiosa ritenuta dai giudici del merito. Quanto al primo profilo la Corte territoriale avrebbe sostanzialmente omesso di confutare i rilievi svolti con il gravame di merito in ordine al fatto che dalle intercettazioni, apoditticamente poste a fondamento della condanna del COGNOME, emergerebbe che in realtà l’obiettivo perseguito dal padre e dal NOME NOME, ai quali viene attribuita l’effettiva titolarità dell’impresa di onoranze funebri ritenuta sol formalmente intestata al ricorrente, sarebbe stato quello di sottrarre l’attività a procedimenti esecutivi da cui era gravata e non già di evitare che il bene potesse essere assoggettato ad una misura di prevenzione patrimoniale. E che questo fosse lo scopo dell’operazione incriminata già era stato invero riconosciuto dal giudice di primo grado, il quale avrebbe poi arbitrariamente associato a tale finalità anche quella rilevante ai fini dell’applicazione dell’art. 512-bis c.p., come per l’appunto immotivatamente sostenuto anche nella sentenza impugnata. Non meno apodittica sarebbe poi la conferma del riconoscimento dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 c.p., non avendo i giudici dell’appello evidenziato elementi idonei a dimostrare il ricorso al metodo mafioso ovvero che l’imputato abbia eventualmente agito per agevolare il sodalizio mafioso piuttosto che il padre. Con il secondo motivo vengono dedotti erronea applicazione della legge penale e vizi di motivazione in merito alla commisurazione della pena base, rilevando altresì il ricorrente come il dispositivo della sentenza
impugnata riporti una pena finale diversa e superiore a quella effettivamente determinata in motivazione.
2.4 Il ricorso proposto da COGNOME NOME articola quattro motivi.
2.4.1 Con il primo vengono dedotti erronea applicazione della legge penale e vizi di motivazione in merito alla ritenuta esistenza del sodalizio mafioso del quale l’imputato è stato ritenuto partecipe. In tal senso, secondo il ricorrente, in maniera solo apparente. e senza confutare i rilievi svolti sul punto con il gravame di merito, la sentenza impugnata ha sostenuto l’avvenuta “gemmazione” di una articolazione autonoma e riconoscibile del clan Labate della quale il COGNOME farebbe parte. Il giudice dell’appella avrebbe peraltro trascurato alcune risultanze processuali (due intercettazioni e le dichiarazioni del collaboratore COGNOME, pure evidenziate con i motivi d’appello) dimostrative del fatto che l’imputato, fin dal 2009, aveva preso le distanze dall’associazione facente capo ai Labate e come in ogni caso non sussista prova dell’attualità del suo organico inserimento nel contesto ‘ndranghetista evocato.
2.4.2 Analoghi vizi vengono evidenziati con il secondo motivo in merito alla ritenuta configurabilità del reato di intestazione fittizia dell’impresa di onoranze funebri “Croce Granata” prima e “Croce Amaranto” poi. Anche in questo caso la Corte avrebbe totalmente omesso il doveroso confronto con i rilievi articolati con il gravame di merito al fine di evidenziare l’insussistenza della prova della titolarità occulta della menzionata impresa da parte del COGNOME, asseritannente protrattasi dal 2004 al 2017, non chiarendo in ogni caso il fondamento delle proprie conclusioni sul punto, tanto più che il compendio intercettivo evocato a sostegno delle proprie conclusioni dai giudici del merito sarebbe concentrato in un solo periodo dell’ultimo anno citato in precedenza. Non di meno la sentenza impugnata avrebbe omesso di motivare sulla sussistenza del dolo specifico richiesto dall’art. 512-bis c.p., non considerando la reale finalità che aveva portato alla costituzione della nuova ditta e che in maniera chiara è emersa dalle risultanze processuali pure poste a fondamento della decisione impugnata, ossia l’intenzione di NOME NOME di sottrarre l’attività alle procedure esecutive intentate al fine di ripagare i debiti realizzati dal figlio NOME e non già all’eventuale applicazione di misure di prevenzione patrimoniali.
2.4.3 Con il terzo motivo il ricorrente lamenta difetto di motivazione sulla sussistenza della finalità di profitto in relazione alla ricettazione d’arma contestata al capo 16) dell’imputazione, mentre con il quarto deduce erronea applicazione della legge penale e vizi di motivazione in merito al diniego delle attenuanti generiche ed alla commisurazione della pena, peraltro erroneamente calcolata con riguardo all’aumento per la continuazione per la contravvenzione di cui al capo 17).
2.5 Il ricorso proposto nell’interesse di COGNOME NOME articola tre motivi.
2.5.1 Con il primo deduce erronea applicazione della legge penale e vizi di motivazione in merito alla affermazione della responsabilità dell’imputato per il reato di cui all’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990. Lamenta in proposito il ricorrente come dal compendio intercettivo, che costituisce l’unica fonte dell’accusa mossa al COGNOME, non emerga la prova del reato, ma soltanto quella della sua dedizione al consumo personale di cocaina. In particolare in alcuna maniera sarebbe stato dimostrato cosa effettivamente l’imputato abbia consegnato al COGNOME, né specificato di quale stupefacente si sarebbe trattato o in quale quantitativo. Trattandosi peraltro dell’intercettazione di conversazioni intervenute tra terzi prive di oggettivi riscontri ulteriori, la Corte sarebbe venuta meno all’onere di fornire una rigorosa motivazione in merito all’idoneità delle stesse a dimostrare l’effettiva destinazione dello stupefacente.
2.5.3 Ancora erronea applicazione della legge penale e vizi di motivazione vengono dedotti anche con il terzo motivo in merito alla commisurazione della pena, il cui scostamento dal minimo edittale sarebbe stato giustificato in maniera solo apodittica.
2.5.2 Analoghi vizi vengono denunciati con il secondo motivo con riguardo al reato di intestazione fittizia di cui al capo 12). Anzitutto apodittica sarebbe l’imputazione al Toscano del reato anche con riguardo all’attività condotta sotto la ditta “RAGIONE_SOCIALE“, atteso che alcun elemento consentirebbe di ritenere che la stessa abbia costituito la mera prosecuzione sotto altra denominazione di quella oggetto della “RAGIONE_SOCIALE” intestata all’imputato. Quest’ultima è stata infatti chiusa nel 2017 a causa dei debiti che la gravavano e dei conseguenti pignoramenti, mentre il Toscano alcun contributo avrebbe potuto prestare alla costituzione della nuova ditta, atteso che quando la stessa è stata avviata, egli era già detenuto. In secondo luogo il ricorrente lamenta l’omessa considerazione da parte dei giudici del merito delle risultanze processuali indicative dell’effettiva ed autonoma gestione da parte dell’imputato della “RAGIONE_SOCIALE“. Né sarebbe stata dimostrata l’effettiva idoneità dell’intestazione all’imputato dell’impresa di eludere l’eventuale applicazione di misure di prevenzione patrimoniali. Quanto alla contestata aggravante di cui all’art. 416-bis.1 c.p., alcuna prova avrebbe fornito la Corte territoriale dell’effettiva direzionalità agevolatrice della condotta attribuita al ricorrente, tanto più che egli è stato contestualmente assolto dall’accusa di partecipazione allo stesso sodalizio mafioso che si vorrebbe essere stato agevolato attraverso la consumazione del reato di cui si tratta. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
2.6 Il ricorso di COGNOME NOME articola tre motivi.
2.6.1 Con il primo e terzo vengono dedotti erronea applicazione della legge penale e vizi di motivazione in merito all’affermazione della responsabilità dell’imputato per il reato di cui all’art. 73 d.P.R. n. 209 del 1990. Il ricorrente rileva come, alla luce dei principi fissati in proposito dalla giurisprudenza di legittimità, i giudici del merito non
abbiano fornito motivazione adeguata alla natura del compendio probatorio posto a fondamento della decisione impugnata, costituito esclusivamente da intercettazioni il cui contenuto sarebbe tutt’altro che univoco. In particolare sulla base del tenore delle captazioni valorizzate sarebbe manifestamente illogico affermare che il COGNOME NOME abbia consegnato al COGNOME un quantitativo di stupefacente incompatibile con il consumo personale di quest’ultimo e, dunque, penalmente irrilevante. In tal senso deporrebbero infatti sia il tenore delle conversazioni intercettate, sia il contesto in cui è avvenuta la menzionata consegna e il fatto che l’imputato si sarebbe successivamente liberato di quanto consegnatogli addirittura in presenza dei Carabinieri. In assenza di riscontri oggettivi, altrettanto illogicamente la Corte avrebbe poi valorizzato una conversazione intrattenuta dal COGNOME NOME con altro soggetto non identificato nel corso della quale il primo aveva fatto riferimento alla consegna di un “pacco di cocaina”, termine non univocamente indicativo dell’entità ponderale della sostanza ceduta. E nella sentenza, così come in quella di primo grado, sarebbe stata travisata una ulteriore intercettazione che vede come protagonista il summenzionato NOME NOMECOGNOME dal cui contenuto emergerebbe in maniera chiara come il debito del figlio saldato da quest’ultimo non riguardava una fornitura di droga, rimanendo una mera congettura quella per cui lo stupefacente sarebbe stato dato al COGNOME NOME in “conto vendita”. Nemmeno rilevante, come invece preteso dai giudici territoriali, sarebbe poi la conversazione intrattenuta sempre da NOME NOME con il COGNOME, atteso che neanche in questa occasione vengono operati riferimenti precisi al quantitativo dello stupefacente e comunque il dialogo riguarda NOME NOME e non dimostrerebbe che anche il COGNOME fosse eventualmente a conoscenza degli accordi assunti da quest’ultimo con i suoi fornitori.
2.6.2 Con il secondo e terzo motivo vengono dedotti erronea applicazione della legge penale e vizi di motivazione in merito alla mancata derubricazione del fatto nel meno grave reato previsto dal quinto comma del citato art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 pure invocata dalla difesa, posto che l’incertezza sulla consistenza ponderale dello stupefacente asseritamente detenuto dall’imputato – peraltro già attestata dalla stessa formulazione dell’imputazione – l’ambiguità delle conversazioni intercettate, nonché l’assenza di ulteriori elementi sintomatici del coinvolgimento del COGNOME in attività di spaccio, siano tutti elementi che non consentirebbero di escludere tale qualificazione.
Il difensore del COGNOME ha depositato memoria con la quale ha ribadito le censure articolate con il primo motivo di ricorso.
Il ricorso di COGNOME NOME è fondato nei termini di seguito esposti.
Premesso che il primo motivo non è manifestamente infondato nella parte in cui denunzia vizi di motivazione della sentenza impugnata in merito alla consapevolezza da parte dell’imputato della finalità perseguita dal Toscano attraverso l’intestazione fittizia del bar allo stesso COGNOME, deve invece rilevarsi come sia certamente fondato il secondo motivo. Infatti, una volta esclusa da parte dei giudici del merito la contestata aggravante mafiosa di cui all’art. 416-bis.1 c.p., non è in dubbio che il reato di cui al capo 13), consumato il 2 luglio 2012 (cfr. Sez. U, n. 8 del 28/02/2001, Ferrarese, Rv. 218768), si sia prescritto già prima della pronunzia della sentenza d’appello, anche tenuto conto dei periodi di sospensione del relativo termine registrati nei gradi di merito e volendo considerare altresì quelli derivanti dall’applicazione dell’art. 304 comma 1 lett. c) e comma 2 c.p.p. nonostante l’imputato non sia stato sottoposto a misura custodiale (ex multis Sez. 5,’n. 14863 del 21/12/2020, dep. 2021, COGNOME, Rv. 281138). Ricordato che in presenza di una causa di estinzione del reato il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell’art. 129, comma secondo, c.p.p. soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell’imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di “constatazione”, ossia di percezione ictu °culi, che a quello di “apprezzamento” e sia quindi incompatibile cori qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, COGNOME, Rv. 244274), condizioni che non ricorrono che nel caso di specie alla luce della motivazione della sentenza e della stessa natura delle doglianze articolate con il primo motivo di ricorso, deve allora disporsi l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata nei confronti del COGNOME per la ragione evidenziata.
Le censure, in parte sovrapponibili, proposte con il primo motivo del ricorso di COGNOME NOME e con i primi due di quello del COGNOME in merito alla loro partecipazione all’associazione di tipo mafioso contestata al capo 1) sono nel loro complesso infondate, ancorché per molti versi inammissibili.
2.1 Anzitutto generica e manifestamente infondata è la doglieknza avanzata con il primo motivo del ricorso del Falco per cui la Corte territoriale non avrebbe confutato i rilievi svolti con il gravame di merito e con la memoria depositata nel giudizio d’appello con riguardo alla stessa sussistenza dell’associazione ipotizzata nell’editto accusatorio. Il ricorrente, infatti, si limita in maniera assertiva ad affermare il menzionato difetto di motivazione, senza indicare in che termini l’apparato argomentativo del provvedimento impugnato non abbia risposto alle sollecitazioni difensive, peraltro contraddicendosi
nella misura in cui nel motivo successivo formula invece precise critiche al ragionamento svolto dai giudici del merito, riconoscendo dunque che una motivazione sul punto è stata fornita, rimanendo eventuali carenze o incongruenze della medesima riconducibile al vizio di cui all’art. 606 lett. e) c.p.p. e non già a quello denunziato violazione di legge. Ed in proposito va ricordato che l’obbligo di motivazione del giudice dell’impugnazione non richiede necessariamente che egli fornisca specifica ed espressa risposta a ciascuna delle singole argomentazioni, osservazioni o rilievi contenuti nell’atto d’impugnazione, se il suo discorso giustificativo indica le ragioni poste a fondamento della decisione e dimostra di aver tenuto presenti i fatti decisivi ai fini del giudizio, sicchè, quando ricorre tale condizione, le argomentazioni addotte a sostegno dell’appello, ed incompatibili con le motivazioni contenute nella sentenza, devono ritenersi, anche implicitamente, esaminate e disattese dal giudice (ex multis Sez. 1, n. 37588 del 18/06/2014, COGNOME, Rv. 260841).
2.2 Sull’enucleabilità dell’associazione oggetto di contestazione quale gemmazione della cosca Labate le residue doglianze del COGNOME e quelle del- COGNOME si rivelano nel complesso infondate.
La Corte territoriale non ha negato che nel tempo, come eccepito, il COGNOME NOME e lo stesso COGNOME abbiano avuto attriti con la “casa madre”, nella quale pacificamente hanno militato come accertato a seguito della condanna definitiva emessa a loro carico proprio per la partecipazione alla cosca COGNOME, riconoscendo che la circostanza sia emersa da alcuni brani delle conversazioni intercettate e dalle stesse dichiarazioni del collaboratore COGNOME. Anzi i giudici dell’appello hanno perfino individuato nel risentimento coltivato dai due imputati per non essere stati supportati finanziariamente dal sodalizio durante la loro detenzione la ragione principale dei ricordati attriti.
La sentenza ha però elencato una serie di circostanze ritenute in maniera tutt’altro che illogica indicative del fatto che il COGNOME ed il COGNOME non siano giunti ad una definitiva rottura con i Labate, abbandonando il contesto ‘ndranghetista nel quale avevano militato in precedenza, limitandosi a ritagliare nel quartiere in cui storicamente operavano una maggiore autonomia per il proprio gruppo e ad allentare i rapporti con quello di riferimento, che all’evidenza ha tollerato tale situazione, ma continuando ad esercitare in quel territorio la propria influenza criminale di chiara matrice mafiosa. Ed in tal senso la Corte ha valorizzato una serie di fatti – dalla tentata estorsione ai danni del Triolo, sulla quale si tornerà successivamente trattando degli ulteriori motivi del ricorso del COGNOME, all’intervento del Toscano nel conflitto tra il Bullac ed il Criaco o alla vicenda relativa all’apertura di un esercizio commerciale da parte del Repaci – ritenuti indicativi del riconoscibile ruolo egemone assunto nel “Gebbione” dalla compagine guidata dai due imputati e della effettiva identificabilità del medesimo come
sodalizio di tipo mafioso. Diversi dei fatti citati non sono nemmeno stati considerati dai ricorrenti, mentre di alcune delle captazioni valorizzate dalla sentenza (in particolare quelle ad oggetto le conversazioni intrattenute dal COGNOME con NOME COGNOME e il COGNOME NOME) gli stessi propongono in definitiva una mera interpretazione del compendio intercettivo alternativa, senza individuare effettive manifeste illogicità in quella fatta propria dai giudici del merito, seguendo invece un approccio atomizzante lacunoso allo stesso materiale, che, per l’appunto, la Corte territoriale ha correttamente considerato anche nella sua globale capacità dimostrativa. Quanto al contributo dichiarativo del COGNOME, va evidenziato che lo stesso assume un peso limitato nel discorso giustificativo della sentenza e comunque i giudici di merito hanno evidenziato come le sue rivelazioni sull’autonoma operatività del gruppo riconducibile al Toscano ed al COGNOME hanno trovato specifico riscontro negli episodi citati in precedenza e nelle risultanze delle intercettazioni, né si comprende, non avendolo i ricorrenti precisato, in che termini la Corte territoriale non avrebbe invece confutato i rilievi difensivi ad oggetto l’asserita genericità delle sue dichiarazioni.
2.3 Inammissibili sono infine le doglianze proposte con il secondo motivo del ricorso del COGNOME in merito alla dimostrazione della consapevole intraneità dell’imputato al sodalizio mafioso. Quelle proposte dal ricorrente, infatti, si rivelano mere censure in fatto o interpretazioni alternative del compendio intercettivo valorizzato dai giudici del merito, che peraltro prescindono da un effettivo confronto con la motivazione della sentenza sul punto. La Corte, ancorando la propria valutazione a circostanze specifiche, ha infatti evidenziato il fattivo contributo prestato dal COGNOME alle attività del sodalizio, comprovata non solo dal suo ruolo nella gestione dell’agenzia di pompe funebri, ma soprattutto nella vicenda relativa alla tentata estorsione nei confronti del Triolo, mentre, quanto alla configurabilità dell’elemento soggettivo del reato, plastica dimostrazione della consapevolezza dell’imputato di partecipare ad una articolazione della ‘ndrangheta e della sua volontà di fornire un contributo alla stessa dall’interno è stata logicamente tratta dai giudici del merito dalla già citata conversazione intrattenuta dallo stesso con NOMECOGNOME la cui significatività è stata ritenuta altrettanto logicamente anche in ragione della natura del rapporto che legava quest’ultima al COGNOME, nonché in quelle intercorse con quest’ultimo, nemmeno considerate nel ricorso.
2.4 Manifestamente infondato e generico è infine il sesto motivo del Falco in merito alla configurabilità dell’aggravante relativa al carattere armato dell’associazione, esaustivamente giustificata dalla Corte territoriale sulla base del contenuto di alcune delle intercettazioni valorizzate nella motivazione della sentenza e logicamente interpretate dai giudici del merito nel senso della disponibilità delle armi da parte degli associati per la difesa degli interessi del sodalizio. Peraltro la disponibilità di armi da
parte del sodalizio è stato ritenuto non solo sulla base delle dichiarazioni del COGNOME, come eccepito, ma altresì in ragione del sequestro di quelle rinvenute in possesso del COGNOME. Quanto alla consapevolezza da parte dell’imputato del carattere armato dell’associazione questa è stata desunta in maniera altrettanto logica dal ruolo associativo tutt’altro che marginale ricoperto dallo stesso e dal contenuto della sua conversazione con la compagna del COGNOME, idonea ad evidenziare come egli abbia al limite quantomeno ignorato per colpa la circostanza, condizione sufficiente perché la stessa gli venga addebitata secondo il costante insegnamento di questa Corte (ex multis Sez. 2, n. 50714 del 07/11/2019, COGNOME, Rv. 278010).
Con riguardo alla tentata estorsione ai danni di COGNOME NOME (capo 5) dell’imputazione) le censure proposte con il terzo motivo del ricorso del COGNOME sono nel loro complesso infondate, così come quelle articolate con il quinto motivo in merito al riconoscimento dell’aggravante “mafiosa” di cui all’art. 416-bis.1 c.p.
L’imputato ha ammesso di essere stato latore al Triolo delle minacce del Toscano e, prima ancora, colui che aveva intimato alla vittima di recarsi presso l’ufficio di quest’ultimo per discutere del suo debito insoluto e, dunque, il suo contributo materiale alla consumazione del reato. Con il motivo in esame vengono quindi contestate la sussistenza dell’elemento psicologico del reato, nonché la qualificazione giuridica attribuita dai giudici del merito al fatto, da ricondurre, secondo il ricorrente, a paradigma dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, .difettando la prova di qualsivoglia profitto ritraibile o ritratto dal COGNOME – e a maggior ragione dal COGNOME dall’intermediazione svolta tra il COGNOME e il suo creditore.
In proposito va anzitutto osservato come non sia in dubbio – né i giudici territoriali lo hanno negato – che scopo dell’azione criminosa fosse esclusivamente la riscossione nel suo esatto ammontare del credito vantato dal COGNOME. Ciò peraltro non è sufficiente per ritenere sussistere i presupposti per l’invocata derubricazione del fatto.
Il ricorrente argomenta sul punto dal dictum di Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, COGNOME, Rv. 280027 – 02, per le quali il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione si differenziano tra loro in relazione all’elemento psicologico, da accertarsi secondo le ordinarie regole probatorie. La citata sentenza ha chiarito come nel primo caso, l’agente persegua il conseguimento di un profitto nella convinzione non meramente astratta ed arbitraria, ma ragionevole, anche se in concreto infondata, di esercitare un proprio diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria, mentre nel secondo agisce per conseguire un profitto nella piena consapevolezza della sua ingiustizia. E nello stesso senso il Supremo Collegio ha avvertito – come sostenuto
anche dal ricorrente – che, ai fini dell’integrazione del delitto di esercizio arbitrario dell proprie ragioni, la pretesa arbitrariamente coltivata dall’agente deve, peraltro, corrispondere esattamente all’oggetto della tutela apprestata in concreto dall’ordinamento giuridico, e non risultare in qualsiasi modo più ampia, atteso che ciò che caratterizza il reato in questione è la sostituzione, operata dall’agente, dello strumento di tutela pubblico con quello privato, e l’agente deve, quindi, essere animato dal fine di esercitare un diritto con la coscienza che l’oggetto della pretesa gli possa competere giuridicamente.
Sempre la sentenza NOME ha poi ribadito, in linea con l’orientamento tradizionale della giurisprudenza di legittimità, che per configurare il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in luogo di quello di estorsione, nel caso in cui la condotta tipica sia posta in essere da un terzo a tutela di un diritto altrui, occorre che il terzo abbia commesso il fatto al solo fine di esercitare il preteso diritto per conto del suo effettive titolare, dal quale abbia ricevuto incarico di attivarsi, e non perché spinto anche da un fine di profitto proprio, ravvisabile ad esempio nella promessa o nel conseguimento di un compenso per sé, anche se di natura non patrimoniale. In tal senso, ha ulteriormente chiarito il Supremo Collegio, qualora il terzo agente – seppure inizialmente inserito in un rapporto inquadrabile ex art. 110 c.p. nella previsione dell’art. 393 stesso codice – inizi ad agire in piena autonomia per il perseguimento dei propri interessi, deve ritenersi che tale condotta integri gli estremi del concorso nel reato di estorsione.
Fermi questi principi, le Sezioni Unite hanno però precisato che, laddove sia contestata – come nel caso di specie – l’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 c.p., l’utilizzo de metodo mafioso possa costituire indice del dolo tipico dell’estorsione, ma, soprattutto, che nei casi in cui ricorra la fattispecie soggettiva della suddetta aggravante, la finalizzazione della condotta all’agevolazione della consorteria mafiosa, interesse ulteriore (anche se di per sé di natura non patrimoniale) rispetto a quello di ottenere la mera soddisfazione del diritto arbitrariamente azionato, comporta la sussumibilità del fatto «sempre e comunque nella sfera di tipicità dell’art. 629 c.p.».
Alla luce delle illustrate coordinate esegetiche appare dunque corretta la qualificazione giuridica attribuita dai giudici del merito al fatto contestato all’imputato al capo 5). Infatti, l’aggravante “mafiosa”, ritualmente contestata, è stata motivatamente riconosciuta dalla Corte territoriale in entrambe le sue declinazioni in ragione delle concrete modalità con le quali si è svolta la vicenda di cui si tratta.
Ed in tal senso la sentenza impugnata in maniera tutt’altro che illogica ha soprattutto valorizzato, sul versante oggettivo dell’aggravante, la sequenza degli eventi (la “convocazione” della vittima per vedersi intimare il pagamento del credito e
successivamente l’invio di un emissario – il COGNOME per l’appunto, sulla cui intraneità al sodalizio guidato dal COGNOME già si è detto – latore di una esplicita minaccia ad oggetto condotte violente in grado di causare danni alla stessa vittima certamente superiori al valore del debito non soddisfatto), mentre su quello soggettivo ha posto in rilievo come il COGNOME abbia intimato alla persona offesa di non adempiere a mani del creditore (come sarebbe stato naturale), bensì versando il danaro a mani dello stesso coimputato e ciò all’evidente fine di rafforzare il ruolo della consorteria quale autorità regolatrice delle controversie nel territorio di riferimento. Conseguentemente non decisivo è l’aggiuntivo riferimento operato dai giudici di merito ad un ulteriore concreto profitto che il COGNOME avrebbe potuto ricevere dal creditore a titolo di retribuzione della sua “intermediazione” ipotizzato dal COGNOME.
Conseguentemente risultano infondate anche le censure svolte dal ricorrente con il quinto motivo in merito alla configurabilità della citata aggravante, mentre del tutto generiche appaiono quelle relative alla consapevolezza da parte dell’imputato della finalità sottesa all’interessamento del Toscano alla vicenda e che emerge in maniera convincente dal complesso della motivazione della sentenza.
Quanto al reato di cui all’art. 512-bis c.p. contestato al capo 12) e ad oggetto la ditta di onoranze funebri denominata “RAGIONE_SOCIALE” e, successivamente, “RAGIONE_SOCIALE“, anzitutto generiche e meramente contestative, oltre che inedite in quanto attinenti a profilo non già devoluto al giudice dell’appello con il gravame di merito, si rivelano le obiezioni sollevate con il secondo motivo del ricorso di NOME NOME e con il quarto di quello del Falco circa l’effettiva finalizzazione dell’intestazione fittizia contenimento del rischio di applicazione di misure di prevenzione patrimoniali cui erano esposti COGNOME NOME e COGNOME NOME
4.1 In realtà entrambe le sentenze di merito hanno logicamente desunto la finalità in questione dalla prossimità della costituzione della ditta e della sua fittizia intestazione nel 2004 al passaggio in giudicato della sentenza con la quale i due effettivi titolari sono stati condannati per il reato di cui all’art. 416-bis c.p., nonché dal fatto che, anche nel momento in cui si era resa necessario mutarne la denominazione, nuovamente si era proceduto a nominare un intestatario di comodo nella persona del COGNOME NOME, scelto proprio perché, potendo conseguire il certificato antimafia al contrario del padre e del COGNOME, non avrebbe attirato l’immediata attenzione degli inquirenti sull’azienda.
4.2 Generica e comunque manifestamente infondata è poi l’obiezione sollevata con il ricorso del COGNOME e con quello del COGNOME NOME in merito al difetto della prova di un effettivo coinvolgimento del COGNOME NOME e dello stesso COGNOME nella gestione
dell’attività sin dal suo avvio. In proposito si osserva come la Corte territoriale abbia diffusamente argomentato sulla significatività del compendio intercettivo dal quale ha tratto la prova dell’effettiva titolarità dell’impresa già all’atto della sua fondazion rimanendo irrilevante che tale compendio sia stato raccolto nel 2017, posto che è al contenuto delle conversazioni intercettate che i giudici del merito hanno fatto riferimento, ritraendone con ragionamento logico – e con il quale comunque i ricorrenti non si sono confrontati – la conclusione che il COGNOME e il COGNOME sono stati fin dal 2004, per l’appunto, gli effettivi titolari della Croce Granata, prima, e della Croce Amaranto, poi, costituendo tra loro una società irregolare occulta. Non di meno sulla base della stessa piattaforma probatoria la sentenza ha altresì ampiamente dimostrato che, oltre ad esserne i titolari, il COGNOME NOME e il COGNOME NOME sono sempre stati anche coloro che effettivamente hanno assunto le scelte gestionali, amministrando di fatto l’impresa dopo la loro scarcerazione, rimanendo irrilevante che nel primo periodo anche il COGNOME NOME possa aver cogestito il patrimonio aziendale, peraltro spendendo il nome dell’impresa per contrarre debiti non necessariamente connessi alla sua attività.
4.3 In realtà, come accennato, la doglianza è anche manifestamente infondata. Infatti, ai fini della sussistenza del reato non assume rilievo l’identità di colui cui eventualmente gestisce il bene, posto che la “gestione” o la “amministrazione” di quest’ultimo, anche qualora fittiziamente affidata ad altri al fine di eludere l’applicazione di misure di prevenzione patrimoniali, non è profilo che interessa ai fini dell’integrazione della fattispecie tipica. Ciò che conta, infatti, è esclusivamente la titolarità del bene medesimo, che deve essere fittiziamente intestata ad un soggetto diverso da colui che ne ha l’effettiva disponibilità (Sez. 2, n. 29633 del 28/05/2019, Kazazi, Rv. 276733). È dunque in ogni caso irrilevante stabilire se NOME COGNOME abbia o meno partecipato alla gestione dell’impresa tra il 2004 e l’ottobre 2017, una volta accertato che effettivi titolari dell’attività allo stesso formalmente intestata erano comunque il padre e NOME NOME, circostanza di ·cui, come detto, la Corte territoriale ha fornito ampia dimostrazione.
4.4 Infondate sono poi le censure proposte con il primo motivo del ricorso di COGNOME NOME e le residue doglianze articolate con i ricorsi di COGNOME NOME e COGNOME in ordine al reato di cui al capo 12).
Invero generiche e meramente contestative si rivelano quelle tese a confutare le conclusioni assunte dalla Corte territoriale in ordine alla continuità tra la Croce Granata e la Croce Amaranto, che la sentenza ha logicamente fondato proprio sulla permanente attribuibilità della proprietà dell’impresa al COGNOME NOME ed al COGNOME NOME e sulla loro intenzione, documentata dal contenuto delle captazioni riportate dai giudici
del merito, non già di intraprendere una attività del tutto nuova, bensì di trasferire la medesima azienda sotto altra ditta per schermarla dalle pretese dei creditori, ovviamente, trattandosi di ditta individuale, sostituendo il fittizio intestatario dell stessa, rimanendo dunque irrilevante la formale chiusura della Croce Granata e la registrazione di una nuova licenza sotto il nominativo di Croce Amaranto.
È invece, e per l’appunto, infondata l’obiezione comune ai citati ricorrenti per cui l’operazione non avrebbe avuto come finalità la sottrazione dell’azienda all’eventuale applicazione di misure di prevenzioni patrimoniali. In proposito è anzitutto opportune ribadire il consolidato orientamento di questa Corte per cui il dolo specifico non è escluso dall’esistenza di finalità concorrenti con quella tipizzata dall’art. 512-bis c.p. (già art. 12-quinquies legge 7 agosto 1992, n. 356) (ex multis Sez. 2, n. 46704 del 09/10/2019, Fotia, Rv. 277598). Principio di cui i giudici territoriali hanno fatto buon governo, non disconoscendo che la necessità di “trasformare” la Croce Granata nella Croce Amaranto fosse insorta per evitare le procedure di esecuzione conseguite all’esposizione debitoria provocata da NOME NOME e alla necessità di sostituirlo dopo il suo arresto, ma evidenziando come il conseguimento di tale . obiettivo non imponeva l’intestazione della nuova ditta a soggetto diverso dai suoi effettivi titolari. In altri termini la situazione contingente creata dallo “scellerato” comportamento del precedente intestatario non ha semplicemente consentito di proseguire l’attività sotto le insegne della Croce Granata e sotto la guida formale di quest’ultimo, ma non ha certo eliso la concorrente volontà di NOME NOME COGNOME e COGNOME NOME di continuare a non apparire come gli effettivi titolari dell’impresa per le stesse ragioni che avevano determinato l’originaria intestazione della ditta al figlio del primo ed infatti gli stes hanno proceduto ad intestare fittiziamente anche la nuova ditta, questa volta al figlio del secondo, per le ragioni già ricordate.
4.5 Irrilevante è poi, ai fini dell’attribuzione del reato anche al COGNOME NOME ed al COGNOME NOME, che gli stessi, come eccepito, siano stati intestatari soltanto di una delle due ditte sotto le cui insegne è stata condotta l’azienda. Infatti, il delitto trasferimento fraudolento di valori, che ha natura di reato istantaneo con effetti permanenti, si consuma, qualora la condotta criminosa si articoli in una pluralità di attribuzioni fittizie, nel momento in cui viene realizzata l’ultima di esse (ex multis Sez. 2, n. 38053 del 05/10/2021, COGNOME, Rv. 282129). In realtà entrambi, sebbene in momenti diversi, sono concorsi nella realizzazione del disegno fraudolento, consentendo, rispettivamente, al momento della costituzione dell’impresa e in quello successivo del cambio di denominazione la schermatura della sua titolarità, nella consapevolezza della finalità così perseguita dai propri genitori.
4.6 Manifestamente infondato è l’ultimo rilievo articolato sul punto con il quarto motivo del ricorso del Falco in merito al difetto della prova che la Croce Amaranto sia stata costituita utilizzando risorse finanziarie di illecita provenienza. Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, infatti, il delitto di trasferiment fraudolento di valori deve ritenersi integrato anche in presenza di condotte aventi ad oggetto beni di non comprovata provenienza da delitto, in accordo con la ratio dell’incriminazione che persegue unicamente l’obiettivo di evitare manovre dei soggetti potenzialmente assoggettabili a misure di prevenzione, dirette a non far figurare la loro disponibilità di beni o altre utilità, a prescindere, per l’appunto, dalla provenienza di questi (ex multis Sez. 2, n. 28300 del 16/04/2019, Russo, Rv. 276216).
4.7 Fondate sono invece le censure proposte dai ricorrenti in merito alla configurabilità dell’aggravante mafiosa in riferimento al reato di cui si tratta, solo genericamente riconosciuta dalla Corte territoriale senza precisare le ragioni che consentirebbero dl escludere che il reato di cui al capo 12) sia stato commesso nell’esclusivo interesse dei Toscano e del Laurendi e non già del sodalizio, fermo restando che nessuna indicazione. è stata fornita dai giudici del merito con riguardo alla possibilità di ritenere l medesima aggravante integrata nella sua declinazione oggettiva, peraltro difficilmente ipotizzabile attesa la natura del reato in contestazione e alle concrete modalità di consumazione del medesimo per dome ricostruite nelle sentenze di merito.
Quanto ai reati concernenti il fucile e le munizioni rinvenute presso la propria abitazione, il COGNOME NOME, a parte la commisurazione della pena su cui si tornerà in seguito, non contesta l’affermazione di responsabilità per i reati di cui ai capi 15) e 17), ma soltanto, con il terzo motivo di ricorso, la configurabilità di quello di ricettazione contestato al capo 16), lamentando, come si è già illustrato, il difetto della prova di quale profitto l’imputato intendesse perseguire acquisendo l’arma. La doglianza è manifestamente infondata, atteso che per il consolidato insegnamento di questa Corte il profitto, il cui conseguimento integra il dolo specifico del reato di ricettazione, può avere anche natura non patrimoniale (Sez. 2, n. 45071 del 14/10/2021, COGNOME, Rv. 282508). La finalità di profitto in tal senso intesa è quindi insita nella detenzione da parte di soggetto dedito ad attività illecite di un’arma ricevuta dopo che altri l’avevano clandestinizzata, che rivela, in assenza di elementi contrari non evidenziati con il ricorso, la volontà di averne la eventuale disponibilità per la realizzazione delle proprie attività criminali, indipendentemente dal fatto che la stessa venga poi effettivamente utilizzata.
6. Le doglianze, in larga parte sovrapponibili, proposte da COGNOME NOME e dal COGNOME con riguardo al reato di detenzione di sostanze stupefacenti contestato al capo 11) dell’imputazione sono parzialmente fondate.
6.1 Invero generiche e versate in fatto risultano quelle tese a sostenere l’insussistenza del reato ovvero l’irrilevanza penale del fatto. Infatti la Corte territoriale ha dato ampia dimostrazione del fatto che l’involucro consegnato dal COGNOME al COGNOME contenesse dello stupefacente e »n particolare , cocaina ,collegando logicamente una serie di captazioni, una delle quali ha avuto come interlocutore lo stesso COGNOME, il quale nell’occasione ha ammesso la circostanza. Il tentativo dei ricorrenti di concentrare l’attenzione partitamente su ognuna delle suddette captazioni si traduce in un inammissibile approccio atomistico al compendio probatorio e soprattutto finisce per omettere il compiuto confronto con il ragionamento sviluppato dai giudici del merito. La sentenza, pur riconoscendo che il COGNOME fosse all’epoca dedito al consumo abituale di cocaina, ha poi escluso che quella cui si riferisce l’imputazione fosse destinata esclusivamente all’uso personale del medesimo e ciò non solo interpretando il senso di quanto affermato dal NOME NOME nel corso di una delle conversazioni intercettate nel corso della quale questi ha evocato il termine “pacco” per riferirsi allo stupefacente, ritenuto descrivere un quantitativo incompatibile con tale utilizzo – ma soprattutto facendo riferimento a quelle in cui egli ha narrato dell’abboccamento avuto con i fornitori del figlio che reclamavano il pagamento della droga (circostanza che peraltro evidenzia plasticamente che quelle sulla consegna in conto vendita dello stupefacente non sono mere congetture dei giudici territoriali, come invece eccepito con il ricorso del COGNOME). Ed in tal senso la Corte ha logicamente inferito dall’episodio che quello acquistato dal COGNOME NOME non potesse essere un quantitativo di cocaina compatibile con l’esclusivo uso personale, sviluppando sul punto una articolata motivazione con la quale i ricorrenti non si sono sostanzialmente confrontati. Generica e manifestamente infondata è poi l’obiezione, sollevata sempre dal COGNOME, circa l’impossibilità che egli . Xsia liberato di quanto consegnatogli dal COGNOME mentre si trovavano nella stazione dei Carabinieri o durante il tragitto per raggiungerla, giacchè in proposito la sentenza, rimasta ancora una volta incontestata, ha precisato come dalle stesse parole del COGNOME oggetto di captazione sia emerso come egli abbia agito prima di giungere nel luogo indicato. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
6.2 Colgono invece nel segno le censure relative alla mancata derubricazione del fatto nella fattispecie di cui all’art. 73 comma 5 d.P.R. n. 309 del 1990 formulate con il ricorso del COGNOME e sostanzialmente avanzate anche in quello del COGNOME NOME. Se, come illustrato al punto precedente, la Corte territoriale ha logicamente escluso che il quantitativo di stupefacente detenuto fosse destinato all’uso personale di
quest’ultimo, la motivazione con la quale ha altresì escluso la configurabilità del meno grave reato di cui alla disposizione da ultima menzionata non risulta altrettanto convincente.
In proposito va anzitutto ricordato che, qualora gli indizi a carico dell’imputato consistano in mere dichiarazioni captate nel corso di operazioni di intercettazione senza che sia operato il sequestro della sostanza stupefacente (la c.d. droga parlata), la loro valutazione, ai sensi dell’art.192, comma 2 c.p.p., deve essere compiuta dal giudice con particolare attenzione e rigore ed, ove siano prospettate più ipotesi ricostruttive del fatto, la scelta che conduce alla condanna dell’imputato deve essere fondata in ogni caso su un dato probatorio “al di là di ogni ragionevole dubbio”, caratterizzato da un alto grado di credibilità razionale, con esclusione soltanto delle eventualità più remote (ex multis Sez. 6, n. 27434 del 14/02/2017, Albano, Rv. 270299).
Principi questi di cui la sentenza impugnata non ha fatto buon governo. Infatti in maniera apodittica i giudici del merito hanno desunto dalle risultanze delle attività di intercettazione che il quantitativo di stupefacente detenuto fosse così rilevante da risultare incompatibile con i parametri che definiscono la tipicità della fattispecie di cui al citato quinto comma dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990. Né la Corte ha dimostrato di aver tenuto conto delle circostanze in cui il fatto sarebbe stato consumato. Infatti, se è vero che il quantitativo detenuto, per le ragioni già illustrate in precedenza, non poteva ritenersi minimo, è altresì indubitabile che dal compendio intercettivo (ad esempio la conversazione captata tra il COGNOME e COGNOME NOME) emergevano elementi, sostanzialmente ignorati dai giudici del merito, apparentemente indicativi del fatto che l’involucro di cui si è liberato il COGNOME non fosse di dimensioni particolarmente rilevanti. Né la Corte ha chiarito effettivamente in che momento l’imputato si sarebbe liberato del “pacco”, ossia se prima o dopo l’intervento dei Carabinieri, circostanza che ulteriormente appare in grado di influire sulla valutazione dell’effettiva consistenza del quantitativo detenuto. Ancora, non essendo stata sequestrata la droga, non è possibile formulare alcuna conclusione sulla sua qualità e dunque escludere la sua compatibilità con la fattispecie meno grave. Infine la sentenza non precisa se siano o meno stati acquisiti elementi indicativi di una stabile dedizione del NOME NOME all’attività di spaccio e possa dunque escludersi che egli avesse acquistato un quantitativo eccedente il suo consumo personale, ma la cui cessione fosse in definitiva funzionale a finanziare tale consumo. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
In definitiva il giudice del merito non ha sciolto i ragionevoli dubbi sollevati dalle difese in ordine all’effettiva tipicità del fatto in riferimento alla fattispecie prevista dal pr comma piuttosto che a quella di cui al quinto comma del più volte citato art. 73, risultando dunque la motivazione della sentenza sul punto carente.
7. In conclusione , JQi=setttei9a=tr GLYPH deve essere annullata senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di COGNOME NOME, perché il reato ascrittogli al capo 13) delle imputazioni è estinto per prescrizione. La stessa sentenza deve poi essere annullata limitatamente alla aggravante di cui all’art. 416-bis.1 c.p., contestata nel capo 12) delle imputazioni, nonché, nei confronti di COGNOME NOME e COGNOME NOME, limitatamente alla qualificazione giuridica del reato di cui al capo 11) delle imputazioni, con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Reggio Calabria. L’annullamento in riferimento ai capi 11) e all’aggravante contestata al capo 12) comporta l’assorbimento dei motivi proposti dal COGNOME, da COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME in merito al trattamento sanzionatorio, che spetterà al giudice del rinvio esaminare, anche con riguardo alle eccepite discrasie in proposito additate dai ricorrenti tra il dispositivo della sentenza annullata e la sua motivazione. Nel resto i ricorsi di COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME devono essere rigettati.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di COGNOME NOME perché il reato ascrittogli al capo 13 delle imputazioni è estinto per prescrizione. Annulla la medesima sentenza limitatamente alla aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., contestata nel capo 12 delle imputazioni, nonché, nei confronti di COGNOME NOME e COGNOME NOME limitatamente alla qualificazione giuridica del reato di cui al capo 11 delle imputazioni, con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Reggio Calabria. Rigetta nel resto i ricorsi di COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME.
Così deciso il 22/10/2024
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