Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 13871 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 13871 Anno 2025
commesso il fatto avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen. ed al fine di agevolare l’attività dell’associazione mafiosa, essendo il COGNOME reggente pro-tempore del mandamento mafioso di Porta Nuova; reato commesso in Palermo il 21 luglio 2014 (capo 1 della rubrica delle imputazioni); Presidente: NOME Relatore: NOME Data Udienza: 04/03/2025
b) il COGNOME del reato di concorso (con NOME COGNOME) in trasferimento fraudolento di valori (artt. 81 cpv., 110 cod. pen., 12-quinquies d.l. n. 306/92 – oggi art. 512-bis cod. pen. – 7 d.l. 152/91 – oggi art. 416-bis.1 cod. pen.) per avere, al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniali, fittiziamente attribuito a NOME COGNOME la titolarità della rivendita di pesce surgelato ‘RAGIONE_SOCIALE‘ in realtà appartenente allo stesso NOME COGNOME, con l’aggravante di aver commesso il fatto avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen. ed al fine di agevolare l’attività dell’associazione mafiosa; reato commesso in Palermo il giorno 1 luglio 2015 (capo 3 della rubrica delle imputazioni);
con condanna di entrambi a pena ritenuta di giustizia determinata in continuazione con la sentenza della Corte di appello di Palermo del 20 settembre 2019 (divenuta irrevocabile il 10 giugno 2021) per i reati, tra gli altri, di associazione mafiosa e di illecita concorrenza con minaccia o violenza.
Nel presente giudizio gli imputati sono stati altresì condannati al risarcimento dei danni, liquidati in misura equitativa, a favore delle parti civili costituite RAGIONE_SOCIALE e Associazione Nazionale per la lotta contro le illegalità e le mafie ‘NOME COGNOME‘.
Infine, Ł stata disposta la confisca della ditta RAGIONE_SOCIALE e della società RAGIONE_SOCIALE
Ricorrono per Cassazione avverso la predetta sentenza i difensori degli imputati, deducendo:
2.1. per NOME COGNOME:
2.1.1. Nullità della sentenza ex art. 606, lett. b) cod. proc. pen. per inosservanza o erronea applicazione della legge penale con particolare riferimento agli artt. 12-quinquies d.l. 306/92 (oggi art. 512-bis cod. pen.) in relazione agli artt. 192 e 530 cod. proc. pen.
La difesa del ricorrente ha, innanzitutto, evidenziato che per configurare il reato in contestazione Ł necessario procedere alla verifica della provenienza delle risorse utilizzate per l’acquisto del bene in capo al soggetto che non ne risulta titolare formale, verifica che nel caso in esame non risulta essere stata effettuata. NØ, evidenzia ancora parte ricorrente, potrebbe essere consentito qualificare come provento di reato tutte le disponibilità di un soggetto solo in funzione di una pregressa affiliazione ad una compagine associativa di stampo mafioso.
2.1.2. Nullità della sentenza ex art. 606, lett. e), cod. proc. pen. per contraddittorietà della motivazione per travisamento della prova.
Rileva la difesa del ricorrente che la Corte territoriale avrebbe operato una lettura parcellizzata degli elementi probatori e, in particolare, delle dichiarazioni dei testi NOME COGNOME e Lgt. COGNOME il quale ultimo si sarebbe limitato a rappresentare alcune congetture investigative che invece i Giudici di merito hanno valutato come elementi probatori.
Sempre secondo la difesa del ricorrente, la Corte territoriale sarebbe altresì incorsa in un travisamento probatorio nell’analisi delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia NOME COGNOME
NOME COGNOME (che in altro processo avrebbe reso dichiarazioni diametralmente opposte attribuendo la titolarità dell’esercizio commerciale ad altro soggetto e la mera gestione al COGNOME) e NOME COGNOME
Infine, rileva parte ricorrente, sarebbero del tutto ininfluenti i richiami contenuti ai verbali di interrogatorio dei collaboratori NOME COGNOME e NOME COGNOME dato che gli stessi nulla hanno riferito in ordine all’attività commerciale oggetto dell’imputazione.
2.1.3. Nullità della sentenza ex art. 606, lett. e), cod. proc. pen. per vizio di motivazione per
travisamento delle prove con particolare riferimento alla circostanza aggravante di cui all’art. 7 del d.l. 152/91.
Sulle premesse che all’esito del giudizio di appello lo stesso Procuratore generale aveva chiesto l’esclusione della predetta circostanza aggravante, e che il ‘metodo mafioso’ secondo la Corte di appello Ł desumibile dal tenore delle minacce ai commercianti di prodotti ittici affinchØ fosse imposto loro di ricorrere in via esclusiva alle ditte di COGNOME e COGNOME, rileva la difesa del ricorrente che alcun elemento probatorio raccolto in dibattimento riporta direttamente o indirettamente a minacce, anche implicite, rivolte dal COGNOME a chicchessia.
Aggiunge la difesa del ricorrente che il contenuto delle conversazioni intercettate non proverebbe la ricorrenza della aggravante in esame e che l’esistenza della stessa non può essere ricondotta alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia COGNOME e COGNOME
2.1.4. Nullità della sentenza ex art. 606, lett. e), cod. proc. pen. per vizio di motivazione per travisamento delle prove con particolare riferimento alla aggravante di cui all’art. 7 del d.l. 152/91. Si duole la difesa del ricorrente del fatto che la predetta circostanza aggravante Ł stata ritenuta sussistente anche sotto il profilo dell”agevolazione mafiosa’ in quanto, secondo i Giudici, presso l’esercizio commerciale ‘RAGIONE_SOCIALE‘ sarebbe stato costituito un punto di incontro per gli appartenenti al sodalizio ‘al riparo da controlli di polizia’ ed al riguardo osserva:
a) che gli incontri tra il COGNOME e gli altri soggetti di interesse investigativo non venivano svolti in luogo nascosto agli occhi degli investigatori che li hanno videoregistrati;
b) non Ł dato comprendere quale contributo sarebbe stato in concreto dato all’associazione mafiosa.
2.2. per NOME COGNOME:
2.2.1. Violazione del divieto di bis in idem di cui all’art. 649 cod. proc. pen.
Rileva la difesa del ricorrente che con la sentenza del 20 settembre 2019 della Corte di appello di Palermo (divenuta irrevocabile il 10 giugno 2021) il COGNOME era stato condannato per i medesimi fatti di cui Ł processo qualificati alla stregua dell’art. 513-bis cod. pen.
2.2.2. Violazione di legge in relazione all’art. 512-bis cod. pen.
Rileva la difesa del ricorrente, dopo avere riassunto gli elementi che secondo i Giudici di merito sarebbero fondanti l’affermazione della penale responsabilità dell’imputato, che avrebbero errato gli stessi Giudici nel ritenere che il COGNOME, pur risultando come un semplice dipendente della ‘RAGIONE_SOCIALE‘ ne avrebbe gestito di fatto tutta l’attività commerciale e avrebbe intrattenuto tutti i rapporti sia con i fornitori che con i clienti.
In particolare, non vi sarebbe prova dell’attribuzione illecita del compendio patrimoniale richiesto dalla norma incriminatrice in assenza di elementi atti a comprovare la provenienza dal patrimonio del Ruggeri dei mezzi economici e strumentali necessari per la costituzione e la gestione della ditta. Prosegue, poi, la difesa del ricorrente evidenziando che i Giudici di merito non avrebbero tenuto in debito conto il momento dell’acquisto dei beni strumentali all’esercizio della predetta attività da parte della titolare apparente NOME COGNOME (sorella dell’imputato) e che vi Ł assenza di prova circa la immissione nell’attività da parte del ricorrente di beni di provenienza illecita.
In sostanza, secondo la difesa del ricorrente, sarebbe stata omessa la valutazione di elementi da ritenersi decisivi per la configurazione della condotta di ‘attribuzione’ non essendosi tenuto conto, tra l’altro, che l’attività di gestione dell’azienda era da sempre stata svolta dai componenti della famiglia COGNOME mediante l’utilizzazione di risorse di provenienza lecita (anche da parte di NOME COGNOME che vi aveva conferito il proprio TFR e da parte della madre NOME COGNOME) e comunque derivanti da un lecito e successivo incremento del patrimonio con conseguente utilizzo dei ricavi per pagare i fornitori.
A ciò si aggiunge, prosegue la difesa del ricorrente, che la condotta oggetto di contestazione nell’imputazione Ł quella di avere ‘attribuito’ fittiziamente a NOME COGNOME la titolarità della rivendita di pesce surgelato RAGIONE_SOCIALE quindi con riferimento ad una azione che si dovrebbe collocare nel momento inziale della costituzione della società e non, come in realtà sarebbe avvenuto, in un momento successivo, il che determinerebbe una violazione della correlazione tra incolpazione e condanna.
A ciò si aggiunge che se Ł ben vero che secondo la giurisprudenza di legittimità il reato può configurarsi anche con l’ingresso di un soggetto in una attività economica in corso, Ł pur vero che Ł comunque necessario che sia dimostrata la provenienza dall’imputato delle risorse economiche utilizzate, nonchØ che sia provata l’esistenza del dolo specifico di eludere le disposizioni di legge in materia di prevenzione patrimoniale in capo a tutti i concorrenti del reato, elementi che secondo la difesa del ricorrente non sarebbero presenti nel caso in esame.
La Corte di appello nell’evidenziare che la COGNOME risulta avere effettuato finanziamenti pari a 196,371,27 euro avrebbe, poi, erroneamente disatteso il fatto che la difesa dell’imputato aveva dimostrato il lecito e successivo incremento del patrimonio della ditta legato alle operazioni di acquisto (con pagamento dilazionato) e successiva vendita del prodotto ittico e che pertanto la restituzione dei predetti finanziamenti sotto forma di ‘reso soci’ era stata realizzata con gli utili conseguiti dall’azienda secondo l’indicato modus operandi .
Prosegue la difesa del ricorrente rilevando come da tutto il compendio probatorio emergerebbe che anche i fratelli dell’imputato ed il proprio affine NOME COGNOME lungi dall’essere meri prestanome si occupavano, ognuno per il proprio ruolo di ogni aspetto dell’attività commerciale.
Ancora, sempre secondo la difesa del ricorrente difetterebbero sia la prova della provenienza illecita di tutto o di parte dell’investimento effettuato da NOME COGNOME e sia la prova della sproporzione di tale investimento rispetto alla situazione reddituale lecita della stessa e dell’imputato.
Quanto, poi, al profilo soggettivo del reato in contestazione, osserva la difesa del ricorrente di avere bene illustrato le ragioni per le quali gli interessati erano pervenuti alla decisione di intestare la società a NOME COGNOME legate al fatto che nei confronti dell’odierno imputato e del di lui fratello NOME erano stati elevati numerosi protesti bancari con la conseguenza che gli stessi non avrebbero piø avuto la possibilità di aprire conti bancari o di accedere ad alcun prestito o finanziamento. Da ciò ne conseguirebbe che la finalità della provvista economica per il funzionamento della società e l’intestazione della azienda non erano legate alla finalità di eludere le misure di prevenzione patrimoniale, quanto, piuttosto alle ragioni sopra esposte. Anche sotto tale dedotto profilo la Corte territoriale non avrebbe motivato.
2.2.3. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 7 della l. n. 203/1991 in ordine alla sussistenza della circostanza aggravante di agevolazione dell’associazione mafiosa.
Osserva la difesa del ricorrente che il Tribunale aveva ritenuto la sussistenza della predetta circostanza aggravante richiamando una condotta sussumile sotto la fattispecie di cui all’art. 513-bis cod. pen. (in relazione alla quale gli imputati COGNOME e COGNOME hanno già subito condanna) così confondendo l’aggravante contestata in ordine a quest’ultimo reato con quella oggetto di contestazione in relazione ai fatti di cui al presente processo.
Ci si troverebbe pertanto in presenza di una omessa motivazione sul punto dato che la Corte di appello non ha spiegato le ragioni per le quali l’operazione di intestazione fittizia della società a NOME COGNOME sarebbe stata posta in essere con metodo mafioso od al fine di agevolare una associazione mafiosa, condotta che, oltretutto, doveva essere caratterizzata da un indimostrato dolo specifico.
Inconferente sarebbe, invece, il fatto che l’imputato abbia creato un vero e proprio monopolio nei quartieri di Palermo per la rivendita di prodotti ittici.
NØ potrebbero valere, secondo parte ricorrente, gli elementi indicati dalla Corte di appello legati al fatto che l’intestazione fittizia della società avrebbe anche consentito di creare un punto di incontro per gli appartenenti al sodalizio criminale non essendovi prova – e comunque non essendo stato spiegato dalla Corte territoriale – che l’obbiettivo perseguito dal COGNOME, oltre a quello contestato di sottrarre le proprie risorse ad un eventuale misura di prevenzione di carattere patrimoniale fosse anche quello di favorire la cosca di riferimento e l’interesse collettivo dei relativi associati.
2.2.4. Violazione degli artt. 133 e 81 cod. pen.
Rileva la difesa del ricorrente di avere rappresentato in sede di gravame innanzi alla Corte di appello che il COGNOME con la citata sentenza del 20 settembre 2019 (divenuta irrevocabile) nella quale era chiamato a rispondere sia del reato di associazione di tipo mafioso che di quello di cui all’art. 513-bis cod. pen. (pure aggravato ex art. 7 d.l. n. 152/1991 e relativo ad una pluralità di condotte) si era visto irrogare in sede di continuazione per quest’ultimo reato satellite la pena di un anno di reclusione, medesima pena che gli Ł stata applicata sempre a titolo di continuazione ‘esterna’ con i fatti di cui alla citata sentenza per il reato di cui al presente procedimento caratterizzato comunque da una condotta ‘una tantum’ e senza violenza o minaccia. Osserva pertanto che vi sarebbe una sproporzione di trattamento sanzionatorio nel momento in cui Ł stata irrogata la medesima pena in relazione a due fatti di ben diversa portata delittuosa e che la Corte di appello ha omesso di motivare in relazione a detta doglianza difensiva.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Prima di passare all’esame delle varie questioni sottoposte a questa Corte di legittimità occorre ricordare brevemente i limiti decisionali in materia della Corte di cassazione.
Il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve mirare a verificare che la relativa motivazione sia: a) “effettiva”, ovvero realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non “manifestamente illogica”, ovvero sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non internamente “contraddittoria”, ovvero esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d) non logicamente “incompatibile” con altri atti del processo, dotati di una autonoma forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o radicalmente inficiare sotto il profilo logico la motivazione (nell’affermare tale principio, la Corte ha precisato che il ricorrente, che intende dedurre la sussistenza di tale incompatibilità, non può limitarsi ad addurre l’esistenza di atti del processo non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione o non correttamente interpretati dal giudicante, ma deve invece identificare, con l’atto processuale cui intende far riferimento, l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione adottata dal provvedimento impugnato, indicare le ragioni per cui quest’ultimo inficia o compromette in modo decisivo la tenuta logica e l’interna coerenza della motivazione).
Non Ł dunque sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano semplicemente ‘contrastanti’ con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante e con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità, nØ che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione piø persuasiva di quella fatta propria dal giudicante.
Ogni giudizio, infatti, implica l’analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e l’individuazione, nel loro ambito, di quei dati che – per essere obiettivamente piø significativi, coerenti tra loro e convergenti verso un’unica spiegazione – sono in grado di superare obiezioni e
dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento. E’, invece, necessario che gli atti del processo richiamati dal ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione sia in grado di disarticolare l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione. Il giudice di legittimità Ł, pertanto, chiamato a svolgere un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica e internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernenti ‘atti del processo’.
Tale controllo, per sua natura, Ł destinato a tradursi in una valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale ‘esistenza’ della motivazione e sulla permanenza della ‘resistenza’ logica del ragionamento del giudice.
Al Giudice di legittimità Ł quindi preclusa – in sede di controllo della motivazione – la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti e del relativo compendio probatorio, preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perchØ ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Tale modo di procedere trasformerebbe, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice del fatto, mentre questa Corte Suprema, anche nel quadro della nuova disciplina introdotta dalla legge 20 febbraio 2006 n. 46, Ł – e resta – giudice della motivazione.
In sostanza, in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo; per cui sono inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, O., Rv. 262965).
NØ la Suprema Corte può trarre valutazioni autonome dalle prove o dalle fonti di prova, neppure se riprodotte nel provvedimento impugnato. Invero, solo l’argomentazione critica che si fonda sugli elementi di prova e sulle fonti indiziarie contenuta nel provvedimento impugnato può essere sottoposto al controllo del giudice di legittimità, al quale spetta di verificarne la rispondenza alle regole della logica, oltre che del diritto, e all’esigenza della completezza espositiva (Sez. 6, n. 40609 del 01/10/2008, COGNOME, Rv. 241214).
A ciò si aggiunge che in materia di ricorso per Cassazione, perchØ sia ravvisabile la manifesta illogicità della motivazione considerata dall’art. 606 primo comma lett. e) cod. proc. pen., la ricostruzione contrastante con il procedimento argomentativo del giudice, deve essere inconfutabile, ovvia, e non rappresentare soltanto una ipotesi alternativa a quella ritenuta in sentenza (cfr. con riferimento a massime di esperienza alternative, Sez. 1, n. 13528 del 11/11/1998, COGNOME, Rv. 212054) dovendo il dubbio sulla corretta ricostruzione del fatto-reato nei suoi elementi oggettivo e soggettivo fare riferimento ad elementi sostenibili, cioŁ desunti dai dati acquisiti al processo, e non ad elementi meramente ipotetici o congetturali seppure plausibili (Sez. 4, n. 22257 del 25/03/2014, COGNOME, Rv. 259204; Sez. 5, n. 18999 del 19/02/2014, Rv. 260409).
Del resto in tema di vizi della motivazione, il controllo di legittimità operato dalla Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, nØ deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di
apprezzamento (Sez. 5, n. 1004 del 30/11/1999, dep. 2000, Moro, Rv. 215745; Sez. 2, n. 2436 del 21/12/1993, dep. 1994, Modesto, Rv. 196955), ciò perchØ la correttezza o meno dei ragionamenti dipende anzitutto dalla loro struttura logica e questa Ł indipendente dalla verità degli enunciati che la compongono.
Ancora, come si andrà meglio ad approfondire in seguito, le difese dei due ricorrenti propongono, peraltro in via ipotetica, una ricostruzione alternativa a quella operata dai giudici di merito, ma, in materia di ricorso per Cassazione, perchØ sia ravvisabile la manifesta illogicità della motivazione considerata dall’art. 606 primo comma lett. e) cod. proc. pen., la ricostruzione contrastante con il procedimento argomentativo del giudice, deve essere inconfutabile, ovvia, e non rappresentare soltanto una ipotesi alternativa a quella ritenuta in sentenza.
A ciò si aggiunge che «In tema di ricorso in cassazione ai sensi dell’art. 606, comma primo lett. e), la denunzia di minime incongruenze argomentative o l’omessa esposizione di elementi di valutazione, che il ricorrente ritenga tali da determinare una diversa decisione, ma che non siano inequivocabilmente munite di un chiaro carattere di decisività, non possono dar luogo all’annullamento della sentenza, posto che non costituisce vizio della motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati dal contesto, ma Ł solo l’esame del complesso probatorio entro il quale ogni elemento sia contestualizzato che consente di verificare la consistenza e la decisività degli elementi medesimi oppure la loro ininfluenza ai fini della compattezza logica dell’impianto argomentativo della motivazione» (Sez. 2, n. 9242 del 8/2/2013, Reggio, Rv. 254988).
Inoltre, Ł giurisprudenza consolidata di questa Corte che, nella motivazione della sentenza, il giudice di merito non Ł tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo; nel qual caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata. (in questo senso v. Sez. 6, n. 20092 del 04/05/2011, COGNOME, Rv. 250105; Sez. 4, n. 1149 del 24.10.2005, dep. 2006, COGNOME, Rv 233187).
Del resto, questa Corte ha chiarito che in sede di legittimità non Ł censurabile una sentenza per il suo silenzio su una specifica deduzione prospettata col gravame quando la stessa Ł disattesa dalla motivazione della sentenza complessivamente considerata. Pertanto, per la validità della decisione non Ł necessario che il giudice di merito sviluppi nella motivazione la specifica ed esplicita confutazione della tesi difensiva disattesa, essendo sufficiente per escludere la ricorrenza del vizio che la sentenza evidenzi una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione della deduzione difensiva implicitamente e senza lasciare spazio ad una valida alternativa. SicchØ, ove il provvedimento indichi con adeguatezza e logicità quali circostanze ed emergenze processuali si sono rese determinanti per la formazione del convincimento del giudice, sì da consentire l’individuazione dell’iter logico-giuridico seguito per addivenire alla statuizione adottata, non vi Ł luogo per la prospettabilità del denunciato vizio di preterizione. (Sez. 2, n. 29434 del 19.5.2004, COGNOME, Rv. 229220; Sez. 2, n. 1405 del 10/12/2013, dep. 2014, Cento, Rv. 259643).
Quanto detto vale anche per le memorie difensive ex art. 121 cod. proc. pen. depositate in sede di giudizio di merito atteso che «L’omessa valutazione di una memoria difensiva non determina alcuna nullità, ma può influire sulla congruità e sulla correttezza logico-giuridica della motivazione del provvedimento che definisce la fase o il grado nel cui ambito sono state espresse le ragioni difensive» (Sez. 1, n. 26536 del 24/06/2020, Cilio, Rv. 279578
Sulla base dei principi sopra esposti vanno dunque esaminati gli odierni ricorsi non prima di aver
doverosamente dato atto che la sentenza della Corte di appello di Palermo contiene anche legittimi richiami alla sentenza del Tribunale in conformità al consolidato orientamento di questa Corte che ritiene che la motivazione per relationem sia legittima «quando: 1) faccia riferimento, recettizio o di semplice rinvio, a un legittimo atto del procedimento, la cui motivazione risulti congrua rispetto all’esigenza di giustificazione propria del provvedimento di destinazione; 2) fornisca la dimostrazione che il giudice ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti con la sua decisione; 3) l’atto di riferimento, quando non venga allegato o trascritto nel provvedimento da motivare, sia conosciuto dall’interessato o almeno ostensibile, quanto meno al momento in cui si renda attuale l’esercizio della facoltà di valutazione, di critica ed, eventualmente, di gravame e, conseguentemente, di controllo dell’organo della valutazione o dell’impugnazione». (Sez. U, n. 17 del 21/06/2000, Primavera, Rv. 216664).
Da ciò ne consegue che «Ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, la struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando i giudici del gravame, esaminando le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza, concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione» (Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, COGNOME, Rv. 257595), con la conseguenza che «Ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, ricorre la cd. “doppia conforme” quando la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado sia attraverso ripetuti richiami a quest’ultima sia adottando gli stessi criteri utilizzati nella valutazione delle prove, con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale» (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218 – 01). Enunciati i principi di cui sopra che debbono intendersi richiamati in tutti i successivi passaggi della presente sentenza Ł il momento di passare all’esame delle questioni poste nei ricorsi.
Ritiene, innanzitutto, questa Corte la manifesta infondatezza delle questioni poste dalle difese di entrambi gli imputati come riassunte ai superiori paragrafi 2.1.2 e 2.2.2 (meritevoli di trattazione congiunta) che sostanzialmente tendono ad escludere che il COGNOME ed il COGNOME, persone aventi tra loro stretti legami collaborativi, fossero i gestori di fatto – il primo della RAGIONE_SOCIALE ed il secondo della LCR RAGIONE_SOCIALE – di aziende che si occupano della commercializzazione di prodotti ittici. Sulla doverosa premessa che il reato di cui all’art. 512-bis cod. pen. (già 12-quinquies del d.l. n. 306/92) Ł un reato a forma libera e che l’attribuzione fittizia dei beni e, nelle specie, delle aziende di cui Ł processo può ben essere desunta da una serie di indici rivelatori quali la concentrazione in capo all’interponente di poteri di gestione e di controllo delle società unita ad una insufficiente redditualità storica dei presunti interposti con le iniziative imprenditoriali assunte o, ancora, dallo svolgimento degli interposti di altra attività lavorativa o dalla loro inesperienza professionale nel settore, deve evidenziarsi che i Giudici di entrambi i gradi di merito hanno motivatamente quanto logicamente evidenziato come in capo agli odierni ricorrenti – entrambi destinatari di misure di prevenzione personali e successivamente condannati con sentenza irrevocabile per il reato di associazione di tipo mafioso oltre che per quello (tra gli altri) di cui all’art. 513-bis cod. pen. ricorrevano i predetti elementi.
2.1. Con riguardo alla posizione dell’imputato COGNOME i Giudici di merito hanno, infatti, evidenziato sulla base di un compendio probatorio costituito dalle dichiarazioni di collaboratori di giustizia, da intercettazioni e da accertamenti di Polizia Giudiziaria compiuti anche attraverso sistemi di videosorveglianza, che:
a) il COGNOME non ricopriva alcun ruolo formale nell’organigramma della RAGIONE_SOCIALE, società costituita nel settembre 2013 ma di fatto divenuta operativa solo nell’aprile 2015, tuttavia si comportava come proprietario dell’azienda, riscuotendone i proventi e riservandosi le principali decisioni relative alla gestione della stessa; lo stesso – come evidenziato in sede dibattimentale da un teste di NOMECOGNOME – era quasi sempre presente nei locali dell’azienda e tutti i dipendenti si rivolgevano a lui per ogni questione concernente l’attività commerciale;
b) l’interposto NOME COGNOME soggetto privo di precedenti penali e giudiziari, pur risultando formalmente titolare della RAGIONE_SOCIALE, non era mai presente in azienda in quanto era un dipendente ‘in nero’ della RAGIONE_SOCIALE del COGNOME ed a ciò si aggiunge che Ł risultato che il COGNOME era soggetto senza esperienze pregresse nel settore della commercializzazione di prodotti ittici e non versava in condizioni economiche tali da avergli consentito l’avvio di tale impresa commerciale;
c) indicativa Ł, poi, una conversazione intercettata e richiamata dalla Corte di appello (v. pagg. 50 e 51 della sentenza impugnata) avente una duplice valenza dimostrativa, sia circa il fatto che il COGNOME lavorava per il COGNOME, che con riguardo al fatto che il COGNOME era il gestore dell’attività della RAGIONE_SOCIALE nella quale il COGNOME aveva ricordato al COGNOME che senza il suo assenso non si doveva dare il pesce ad alcuno;
d) i vari collaboratori di giustizia indicati specificamente nelle sentenze di merito hanno indicato il COGNOME come ‘gestore’ dell’attività di rivendita del pesce.
A ciò si aggiunge a livello generale ma come elemento pienamente rilevante anche in relazione al reato per il quale si procede – ed il discorso vale anche per la posizione dell’imputato COGNOME della quale si dirà nel prosieguo – il ruolo degli imputati, oramai definitivamente consolidato in sentenza irrevocabile, non solo in relazione alla condanna per associazione mafiosa ma soprattutto per il reato di cui all’art. 513-bis cod. pen. caratterizzato dalla finalità di ottenere il monopolio del commercio di prodotti ittici in alcune aree della città di Palermo, elemento questo che ben costituisce per prova logica un ulteriore corollario agli elementi accusatori già evidenziati e che consentono di ritenere che entrambi gli imputati rivestivano in concreto un effettivo ruolo di vertice nelle aziende operanti nel settore del commercio ittico di cui alle rispettive imputazioni.
2.2. Con riguardo alla posizione dell’imputato NOME COGNOME i Giudici di merito hanno, a loro volta, evidenziato sempre sulla base di un compendio probatorio costituito dalle dichiarazioni di collaboratori di giustizia, da intercettazioni e da accertamenti di Polizia Giudiziaria compiuti anche attraverso sistemi di videosorveglianza, che:
a) il COGNOME formalmente dipendente della RAGIONE_SOCIALE si comportava come proprietario ed amministratore della stessa riscuotendone i proventi e riservandosi le principali decisioni relative alla gestione della società;
b) la presenza in loco di NOME COGNOME, formale titolare dell’azienda, Ł stata riscontrata poche volte nel corso dell’attività di videosorveglianza a differenza dell’odierno imputato e del fratello NOME COGNOME il quale ultimo svolgeva prevalentemente attività di carico e scarico merci ed al pari di NOME COGNOME non intratteneva alcun rapporto con fornitori e clienti in quanto di tale attività si occupava solamente l’odierno ricorrente;
c) NOME non Ł, in sostanza, risultata ricoprire alcun ruolo gestorio o decisorio in seno alla società;
d) il ruolo effettivo di vertice rivestito dall’imputato nella gestione dell’attività della RAGIONE_SOCIALE ha trovato poi conforto in una serie di intercettazioni telefoniche ed ambientali (richiamate nella sentenza di appello ed ampiamente riportate per stralci nella sentenza di primo grado) dalle quali, come evidenziato dai Giudici di merito, si evince che persino quando l’odierno imputato era ristretto in carcere per altra causa, lo stesso continuava a dare direttive per la gestione della società e per il recupero dei crediti della stessa, oltre che in relazione alla necessità di vendere i beni dell’azienda
affinchØ il relativo patrimonio non potesse essere intaccato da eventuali azioni giudiziarie.
Resta solo da dire sul punto che la difesa dell’imputato COGNOME tenta inammissibilmente nel ricorso qui in esame di proporre una lettura diversa del compendio probatorio con particolare riguardo alle dichiarazioni testimoniali e di quelle dei collaboratori di giustizia (tutte invece adeguatamente analizzate dai Giudici di merito) ma, come già evidenziato in premessa, non compete a questa Corte di legittimità, in presenza comunque di motivazioni dei Giudici di merito, congrue, logiche e non caratterizzate da palesi travisamenti degli elementi analizzati, una rivalutazione di tali elementi.
Non risultano esservi, poi, dubbi circa la ricorrenza nel caso in esame dell’elemento soggettivo dei reati in contestazione in capo agli imputati.
Entrambi, come detto, sono stati condannati per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. e raggiunti da misura di prevenzione personale il che ha portato i Giudici di merito logicamente quanto motivatamente a ritenere che le condotte oggetto di contestazione fossero finalizzate ad eludere disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniali, certamente presumibili vista la situazione nella quale si trovavano entrambi gli imputati.
Del resto, si Ł poc’anzi evidenziato come Ł emerso dal compendio intercettativo di come il COGNOME abbia anche fornito dal carcere indicazioni finalizzate allo svuotamento dell’attività commerciale al fine di prevenire azioni giudiziarie sullo stesso. A ciò deve aggiungersi, come osservato dalla Corte di appello (pag. 64) che il COGNOME era stato sottoposto a misura di prevenzione personale in data 28 novembre 2012 con decreto divenuto il 23 novembre 2013 e proprio in detto arco temporale la LCR RAGIONE_SOCIALE (già precedentemente costituita) aveva iniziato ad operare.
Altrettanto Ł a dirsi del COGNOME che il collaboratore di giustizia COGNOME ha indicato come soggetto che ‘aveva paura di essere sotto osservazione’ e che aveva il timore di poter essere raggiunto anche da provvedimenti ablativi e di sottoposizione alle misure di prevenzione (v. pag. 56 sentenza di appello).
In punto di diritto occorre, poi, ricordare che questa Corte di legittimità ha chiarito che il delitto di trasferimento fraudolento di valori può essere commesso anche da chi non sia ancora sottoposto a misure di prevenzione patrimoniali e ancora prima che il relativo procedimento sia iniziato, occorrendo solo, ai fini della configurabilità del dolo specifico di eludere le disposizioni di legge in materia di prevenzione patrimoniale, che l’interessato possa fondatamente presumere l’avvio di detto procedimento. Si tratta, infatti, di una fattispecie a forma libera, finalisticamente orientata ad evitare l’attribuzione fittizia della titolarità o della disponibilità di denaro o altre utilità, protesa ad eludere talune disposizioni legislative, tra le quali le norme in materia di misure di prevenzione patrimoniali, di modo che, per questa sua caratteristica, risulta irrilevante che il provvedimento di prevenzione non sia stato ancora disposto (v. ex multis : Sez. 2, n. 12636 del 27.2.2024, Licata, non mass.; Sez. 3, n. 23097 del 8.5.2019, COGNOME, Rv. 276199).
A nulla rileva, poi, il fatto che, come nel caso della società RAGIONE_SOCIALE i beni siano intestati ad un familiare avendo sempre questa Corte chiarito che «ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 12-quinquies della legge n. 356 del 1992 – ora art. 512-bis cod. pen. – Ł sufficiente l’attribuzione fittizia ad altri della titolarità o della disponibilità di denaro, beni o altre utilità, anche nel caso in cui i beni siano stati intestati ad un familiare di un soggetto sottoposto o sottoponibile ad una misura di prevenzione patrimoniale» (Sez. 2, n. 12680 del 06/12/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 276325 – 01, in motivazione; Sez. 6, n. 22568 del 11/04/2017, F., Rv. 270035).
Quanto, poi all’elemento soggettivo in capo agli altri soggetti coinvolti nelle vicende in contestazione (nelle specie gli interposti), fermo restando il principio secondo il quale «Il delitto previsto dall’art. 512-bis cod. pen. richiede che tutti i concorrenti nel reato abbiano agito con il dolo specifico di eludere le disposizioni di legge in materia di prevenzione patrimoniale, per la cui prova in giudizio
non Ł sufficiente dar conto della fittizia attribuzione della titolarità o disponibilità di denaro, beni o altre utilità, sicchØ Ł imprescindibile, ai fini della sua punibilità, che l’intestatario fittizio sia a conoscenza del fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione con il dolo specifico di aggirarle» (Sez. 2, n. 45080 del 14/10/2021, COGNOME, Rv. 282437 – 01) deve rilevarsi che quanto al COGNOME (formalmente preposto alla RAGIONE_SOCIALE) lo stesso, come sopra evidenziato, era privo di risorse economiche e non era mai presente in azienda in quanto addirittura lavorava presso la RAGIONE_SOCIALE e quindi emergeva ictu oculi che lo stesso si era prestato per favorire l’azione delittuosa del Calcagno, mentre per quanto riguarda NOME COGNOME i Giudici di merito hanno sottolineato come sia emerso chiaramente che la stessa si Ł adoperata per consentire al fratello (del quale, rileva l’odierno Collegio, appare evidente che non potesse non conoscere la situazione processuale) di assumersi la titolarità formale dell’azienda.
In ordine a quest’ultimo aspetto deve evidenziarsi come sia il Tribunale (pag. 77) che la Corte di appello (pag. 67) hanno preso in considerazione il fatto che la difesa ha sostenuto – come ribadito anche in questa sede di legittimità – che la condotta di NOME COGNOME consistita nella formale assunzione della titolarità della RAGIONE_SOCIALE era legata non alla finalità di consentire al fratello NOME di eludere le disposizioni in materia di prevenzione quanto, piø semplicemente, al fatto che lo stesso, a causa di pregresse problematiche bancarie e di esposizione debitoria verso l’Erario non avrebbe mai potuto assumere formalmente la gestione di una società commerciale ma non hanno ritenuto fondata tale tesi difensiva.
Detto elemento Ł stato dai Giudici di merito logicamente considerato nell’ottica della piena consapevolezza di NOME COGNOME di essere stata utilizzata come prestanome in favore del fratello odierno imputato.
Sul punto si Ł già detto in premessa, richiamando assunti giurisprudenziali in materia, come la ricostruzione difensiva (nella specie qui esaminata con riguardo alle finalità dell’intestazione fittizia della RAGIONE_SOCIALE) circa le ragioni contrastanti con il procedimento argomentativo del Giudice, deve essere inconfutabile, ovvia, e non rappresentare soltanto una ipotesi alternativa a quella ritenuta in sentenza, in quanto non Ł altrimenti sottoponibile all’esame della Corte di legittimità. Rileva, altresì, l’odierno Collegio come i Giudici di merito risultano aver fatto corretta applicazione del principio secondo il quale «Il delitto di trasferimento fraudolento di valori ex art. 512-bis cod. pen. non ha natura di reato plurisoggettivo improprio, ma rappresenta una fattispecie a forma libera che si concretizza nell’attribuzione fittizia della titolarità o disponibilità di denaro o altro bene o utilità, sicchØ colui che si renda fittiziamente titolare di tali beni – nella specie, un familiare – con lo scopo di aggirare le norma in materia di prevenzione patrimoniale o di contrabbando, o di agevolare la commissione dei reati di ricettazione, riciclaggio o impiego di beni di provenienza illecita, risponde a titolo di concorso nella stessa figura criminosa posta in essere da chi ha operato la fittizia attribuzione, in quanto con la sua condotta cosciente e volontaria contribuisce alla lesione dell’interesse protetto dalla norma» (Sez. 2, n. 35826 del 12/07/2019, Como, Rv. 277075 – 01) e ciò Ł quanto sostanzialmente affermato in relazione alla posizione di NOME COGNOME nei confronti della quale, Ł appena il caso di ricordarlo, per i fatti qui in esame non Ł stata pronunciata sentenza di assoluzione ma di non doversi procedere perchØ il reato Ł stato dichiarato estinto per intervenuta prescrizione a causa dell’esclusione della circostanza aggravante dell’agevolazione mafiosa.
Deve, infine, essere ricordato con riguardo all’elemento soggettivo dei fatti-reato in contestazione che, come ha già avuto modo di precisare già in tempi remoti questa Corte Suprema, ‘ai fini dell’accertamento dell’elemento psicologico del soggetto agente, essendo la volontà ed i moti dell’anima interni al soggetto, essi non sono dall’interprete desumibili che attraverso le loro manifestazioni, ossia attraverso gli elementi esteriorizzati e sintomatici della condotta. … Ne deriva che i singoli elementi e quindi anche quelli soggettivi attraverso cui si estrinseca l’azione, inerenti al
fatto storico oggetto del giudizio, impongono una loro analisi la quale, essendo pertinente ad elementi di fatto, costituiscono appannaggio del giudizio di merito, non di quello della legittimità che può solo verificare la inesistenza di vizi logici, la correttezza e la compiutezza della motivazione, l’assenza di errori sul piano del diritto, così escludendosi in tale sede un terzo riapprezzamento del merito’ (Sez. 1, sent. n. 12726 del 28/09/1988, dep. 1989, Alberto, Rv. 182105).
Non fondate sono poi le questioni meritevoli di trattazione congiunta sollevate dalle difese di entrambi i ricorrenti riassunte ai superiori paragrafi 2.1.1 e 2.2.2 nelle quali si sostiene che difetterebbe nei casi in esame la prova della provenienza illecita delle risorse economiche utilizzate per la costituzione e la gestione delle predette società.
Sul punto deve, innanzitutto, evidenziarsi che, pur nella consapevolezza della esistenza di una controversia in campo dottrinale e, in minima parte, giurisprudenziale in materia, ritiene l’odierno Collegio di aderire al consolidato indirizzo di questa Corte di legittimità secondo il quale «il delitto di trasferimento fraudolento di valori ex art. 512-bis cod. pen., deve ritenersi integrato anche in presenza di condotte aventi ad oggetto beni non provenienti da delitto, in accordo con la “ratio” dell’incriminazione che persegue unicamente l’obiettivo di evitare manovre dei soggetti potenzialmente assoggettabili a misure di prevenzione, dirette a non far figurare la loro disponibilità di beni o altre utilità, a prescindere dalla provenienza di questi da delitto» (Sez. 2, n. 28300 del 16.4.2019, Russo, Rv. 276216-01; Sez. 2, n. 13448 del 16/12/2015, dep. 2016, COGNOME, Rv. 266438 – 01).
Si Ł, infatti, chiarito, a giustificazione dell’assunto che precede – con scelta legislativa operante su un piano di politica criminale non in assoluto irragionevole – che il fatto che la materialità del reato de quo risulta integrata anche in presenza di condotte aventi ad oggetto beni in ipotesi non provenienti da delitto Ł in accordo con la evidenziata ratio dell’incriminazione, che persegue unicamente l’obiettivo di evitare manovre dei soggetti potenzialmente assoggettabili a misure di prevenzione, dirette a non far figurare la loro disponibilità di beni o altre utilità, a prescindere dalla provenienza di questi da delitto dato che, in presenza di disponibilità in parte di provenienza illecita, in parte lecita, l’interessato, nascondendo la titolarità di queste ultime, potrà ottenere, con riguardo alle prime, il medesimo effetto elusivo costituente ratio dell’incriminazione delle condotte di cui alla norma in esame.
Mentre, infatti, le valutazioni in ordine alla legittimità della provenienza dei beni rilevano invece in altri ambiti e, segnatamente, ai fini delle valutazioni relative alla confisca allargata o di prevenzione, le stesse tuttavia non riguardano il reato di trasferimento fraudolento di valori che colpisce le condotte anche solo ‘potenzialmente’ elusive di eventuali misure di prevenzione patrimoniale e che risulta integrato attraverso l’accertamento del “trasferimento con fine elusivo”, non essendo necessario che l’indagine si estenda all’accertamento della illiceità della provvista utilizzata per l’acquisto dei beni fraudolentemente trasferiti.
Del resto, risulta evidente dallo stesso contenuto della norma incriminatrice come la natura ‘illecita’ del bene fittiziamente attribuito ad altri si presenta come elemento estraneo alla struttura della fattispecie delittuosa in esame. Laddove, infatti, il legislatore ha ritenuto elemento costitutivo della fattispecie delittuosa la provenienza da delitto del bene (si pensi a mero titolo di esempio alle fattispecie di cui agli artt. 648-bis e 648-ter cod. pen.) lo ha indicato espressamente.
NØ può valere a dimostrare il contrario la circostanza, da ritenersi consolidata sia nella giurisprudenza costituzionale (v. sentenza n. 94/2019 della Corte cost.) che in quella di legittimità, legata al fatto che possono essere sottoposti a misura di prevenzione patrimoniale soltanto i beni di provenienza illecita, ciò in quanto il delitto di trasferimento fraudolento di valori Ł un reato di pericolo astratto (v. Sez. 2, n. 7317 del 18/11/2022, dep. 2023, COGNOME, Rv. 284386 – 01) la cui condotta Ł
– e resta – punibile anche se la temuta misura di prevenzione patrimoniale non venga, in una prospettiva futura, mai adottata.
Ciò doverosamente premesso, v’Ł da dire che in assenza di prova che il COGNOME, come detto soggetto privo di risorse economiche adeguate, abbia investito nella costituzione della ditta RAGIONE_SOCIALE ed in assenza quantomeno di allegazioni difensive caratterizzate da un qualche fondamento che tendano a indicare che soggetti diversi dal COGNOME abbiano investito proprie risorse nell’attività commerciale Ł ipso facto evidente, senza necessità di particolari approfondimenti, che le risorse economiche per la costituzione e la gestione di detta azienda non potevano che provenire dall’imputato.
Piø articolata Ł la questione relativa alla posizione dell’imputato COGNOME in relazione alla società RAGIONE_SOCIALE
Risulta dalle sentenze di merito e documentalmente provato che la società era stata inizialmente costituita con fondi leciti da parte di NOME COGNOME la quale vi aveva investito la somma di circa 2.500,00 euro ricevuta a titolo di TFR a seguito del licenziamento da altra società presso la quale aveva in precedenza svolto attività lavorativa.
Risulta, ancora, sempre dalle sentenze di merito, che Ł stato accertato che gli ulteriori apporti economici alla società apparentemente provenienti dal NOME COGNOME «non sono giustificati dal reddito dalla stessa dichiarato in quanto le disponibilità patrimoniali del socio unico della RAGIONE_SOCIALE sono risultate di molto inferiori rispetto all’ammontare dei finanziamenti eseguiti e sono stati peraltro eseguiti in contanti sempre al di sotto della soglia dei mille euro. In particolare, Ł stato rilevato che i redditi percepiti da NOME sono risultati nulli nel 2010, pari a euro 9.791,00 nel 2011, ad euro 2.112,00 nel 2012, a euro 3.896,47 del 2013, a euro 7.7.92,28 nel 2014. Inoltre, il nucleo familiare della COGNOME era composto da COGNOME NOME che non risulta avere mai dichiarato redditi. A fronte di tali risultanze la COGNOME risulta avere effettuato finanziamenti peri a euro 196.371,27 nei primi sei mesi del 2014, poi restituiti come ‘reso soci’ nei mesi successivi» (in tal senso pag. 76 della sentenza del Tribunale).
La RAGIONE_SOCIALE, infatti, si sarebbe limitata a stipulare una fideiussione a garanzia dei crediti vantati nei confronti dell’azienda da parte dell’Istituto Bancario ‘Credito Siciliano’.
Rileva l’odierno Collegio da un lato come quelli indicati dai Giudici di merito sono elementi fortemente indicativi del fatto che le risorse economiche utilizzate potessero provenire proprio dall’imputato (come detto reale dominus della gestione aziendale) e, dall’altro, che la difesa dell’imputato non ha fornito neppure a titolo di allegazione la possibilità che le risorse economiche potessero provenire da terzi e si Ł limitata a fornire una possibile spiegazione alternativa costituita dal fatto (non documentato) che tali risorsi potessero essere ricavate dal meccanismo commerciale adottato circa il pagamento dilazionato nel tempo della merce acquistata rispetto ai ricavi della merce nel frattempo venduta.
Deve, infatti,constatarsi che anche in questo caso ci si trova in presenza di una ricostruzione alternativa ed ipotetica dei fatti che per le ragioni può volte sopra indicate non può essere oggetto di sottoposizione a questa Corte di legittimità.
Deve, infine, ricordarsi, visto che trattasi anche in questo caso di una questione sottoposta a questa Corte di legittimità che Ł infondata l’osservazione difensiva secondo la quale il contestato reato a carico del COGNOME non sarebbe configurabile perchØ sulla base della disposizione normativa che consente di configurare il reato di cui all’art. 512-bis cod. pen. la fittizia attribuzione della titolarità del bene dovrebbe nel caso di una azienda avvenire ab origine della costituzione della stessa mentre nel caso in esame RAGIONE_SOCIALE Ł stata costituita da altri componenti della famiglia dell’imputato. Sul punto Ł appena il caso di ricordare che i Giudici di merito risultano aver fatto corretta applicazione del principio secondo il quale « Il delitto di trasferimento fraudolento di valori, quando Ł
riferito ad una attività imprenditoriale, si può configurare, non solo con riferimento al momento iniziale dell’impresa, ma anche in una fase successiva, allorquando in un’impresa o società sorta in modo lecito si inserisca un terzo quale socio occulto, che avvalendosi dell’interposizione fittizia persegua le finalità illecite previste dall’art. 12 quinquies, comma primo, D.L. n. 306 del 1992, conv. in l. n. 356 del 1992» (Sez. 2, n. 5647 del 15/01/2014, COGNOME, Rv. 258343 – 01).
Del resto, la previsione normativa non intende formalizzare le modalità attraverso cui può realizzarsi l”attribuzione fittizia’, nØ ricondurre la definizione dei concetti di ‘titolarità’ o ‘disponibilità’ entro schemi tipizzati di carattere civilistico. Essa si presta pertanto a ricomprendere qualsiasi meccanismo di attribuzione apparente, che consenta al soggetto di mantenere un rapporto di signoria col bene, anche al di là delle situazioni del proprietario e del possessore (Sez. 2, n. 39756 del 5.10.2011, COGNOME, Rv. 251193-01, in motivazione), e ciò vale anche nel caso in cui, al fine di eludere l’applicazione di misure di prevenzione patrimoniale, vengano acquistate di fatto le quote di una società commerciale o di servizi già operativa, lasciandone immutata la titolarità formale in capo a terzi che così vengono ad acquisire il ruolo di soggetti interposti (Sez. 2, n. 2080 del 06/12/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 274963 – 01).
Manifestamente infondato Ł, poi, il motivo di ricorso di cui al superiore paragrafo 2.2.1 nel quale dell’imputato COGNOME ha dedotto la violazione del principio del bis in idem essendo stato l’imputato già condannato in maniera definitiva per il reato di cui all’art. 513-bis cod. pen.
La Corte di appello (pagg. 46 e 47) ha correttamente risposto alla medesima doglianza alla stessa sottoposta in sede di gravame da un lato evidenziando le differenze strutturali tra i due reati in quanto l’art. 513-bis cod. pen. richiede per la sua configurabilità gli elementi della violenza e minaccia non richiesti invece dall’art. 512-bis cod. pen. e, dall’altro, sottolineando anche la differenza dei soggetti passivi.
A ciò si aggiunge che l’istituzione dei due reati persegue finalità diverse al punto che Ł addirittura diversa la loro collocazione sistematica nel codice in quanto l’art. 512-bis Ł collocato tra i delitti contro l’economia pubblica mentre quello di cui all’art. 513-bis Ł collocato tra i delitti contro l’industria ed il commercio. Senza contare, infine, che Ł diverso anche il momento consumativo tra i due reati in quanto mentre quello di cui all’art. 512-bis cod. pen. Ł per consolidata giurisprudenza un reato istantaneo ad effetti permanenti che si consuma nel momento in cui Ł realizzata l’attribuzione fittizia, quello di cui all’art. 513-bis cod. pen. Ł un reato che richiede il compimento di azioni successive tanto Ł vero che – come indicato anche nel ricorso formulato nell’interesse dell’imputato COGNOME (v. pag. 49 dell’atto di impugnazione) – l’azione per la quale Ł intervenuta la condanna dell’imputato si Ł sviluppata attraverso «ripetuti atti di intimidazione e minaccia nei confronti di numerose ditte operanti e consumata per lungo periodo e durata».
Fondati sono, invece, i motivi di ricorso (v. superiori paragrafi 2.1.3, 2.1.4 e 2.2.3), anch’essi meritevoli di trattazione congiunta, relativi alla configurabilità della circostanza aggravante contestata ad entrambi gli imputati di cui all’art. 7 del d.l. 152/1991 ora art. 416-bis.1 cod. pen. Detta circostanza aggravante risulta contestata sia sotto il profilo del cd. ‘metodo mafioso’, sia sotto quello del cd. ‘favoreggiamento mafioso’ (‘al fine di agevolare l’associazione mafiosa’).
Risulta dagli atti che già il Procuratore generale in sede del giudizio di appello aveva chiesto l’esclusione della predetta circostanza aggravante.
Non sfugge che in entrambi i giudizi di merito la circostanza aggravante dell’uso del ‘metodo mafioso’ Ł stata ricollegata a condotte per le quali gli imputati hanno conseguito condanna (irrevocabile) per il reato di cui all’art. 513-bis cod. pen. per avere posto in essere atti di intimidazione e minaccia ai danni di altre aziende operanti nel campo dei prodotti ittici.
Non si può tuttavia non osservare che – come detto poc’anzi – il reato di cui all’art. 513-bis cod. pen. ha connotazioni strutturali anche di carattere temporale completamente diverse da quello di cui all’art. 512-bis cod. pen. e che la eventuale ricorrenza della circostanza aggravante de qua doveva nel caso in esame essere valutata in relazione a quest’ultimo reato al momento della sua consumazione e non può essere traslata da altri reati già contestati agli imputati.
Il fatto che gli imputati sono soggetti condannati per mafia e continuativamente coinvolti nel ‘circuito mafioso’ non sta certo a significare che ogni azione delittuosa dagli stessi compiuta consente di configurare l’aggravante del ‘metodo mafioso’: l’analisi circa la ricorrenza di detta circostanza aggravante deve, infatti, essere operata con specifico riguardo all’azione contestata.
Con ciò non si vuol dire che anche il reato di cui all’art. 521-bis cod. pen. non può essere aggravato ai sensi dell’art. 416-bis.1 cod. pen. ma il ‘metodo mafioso’ (cioŁ quell’elemento che aggrava il reato per la maggiore forza derivante da una prospettazione di una condotta tipicamente mafiosa e dalla coartazione psicologica alla stessa collegata) deve avere attinenza alle ‘modalità’ con le quali si Ł realizzata l’attribuzione fittizia (come detto reato istantaneo ad effetti permanenti) e non di certo alle ‘finalità’ per le quali tale attribuzione Ł stata realizzata.
Sul punto le motivazioni contenute nella sentenza impugnata (che sostanzialmente ricalcano quelle del Tribunale) non appaiono pertinenti in relazione alla predetta circostanza aggravante e congrue a dare risposta alle doglianze difensive sollevate in sede di gravame non essendo dato comprendere nei confronti di chi o con quali modalità il contestato ‘metodo mafioso’ sarebbe stato utilizzato ai fini di realizzare la fittizia intestazione dei beni.
Quanto al profilo dell”agevolazione mafiosa’ il discorso Ł parzialmente diverso ma porta a conseguenze identiche.
In entrambe le sentenze di merito risulta che i Giudici hanno ritenuto di configurare detta circostanza aggravante sulla base del fatto che, a seguito dei servizi di videosorveglianza compiuti dal personale di Polizia Giudiziaria presso i locali delle aziende di cui alle imputazioni, sono stati registrati incontri tra gli imputati ed altri soggetti legati a vario titolo a cosche criminali.
Non va però trascurato che la circostanza dell’aggravante in contestazione richiede l’elemento soggettivo del dolo specifico (‘il fine di agevolare l’attività dell’associazione’) che, ancora una volta, in presenza di un reato istantaneo come quello di cui all’art. 512-bis cod. pen., deve essere rapportato al momento di consumazione dello stesso.
Per intenderci, per la configurabilità della circostanza aggravante dell’agevolazione mafiosa non basta la constatazione che i locali dell’azienda costituita o gestita con modalità denotanti una intestazione fittizia siano (anche) frequentati da malavitosi legati a consorterie criminali ed utilizzati per riunioni con gli stessi ma occorre che all’atto della consumazione del reato gli imputati non solo abbiano operato all’accertato scopo di eludere le disposizioni in materia di prevenzione ma anche all’ulteriore scopo (dolo specifico) di favorire l’associazione mafiosa mettendo a disposizione degli stessi delle unità immobiliari (peraltro neppure occulte) ai fini di compiere riunioni nell’interesse della consorteria.
Di tutto ciò non vi Ł alcuna traccia nelle motivazioni delle sentenze di merito (non essendo neppure dati conoscere gli scopi e gli argomenti trattati in occasione degli incontri videoregistrati) e non essendo possibile configurare una circostanza aggravante sulla base di mere congetture.
La carenza motivazionale riscontrata impone un annullamento sul punto della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Palermo affinchØ si ponga rimedio ai vizi motivazionali riscontrati.
7. L’accoglimento dei motivi di ricorso relativi alla circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. rende, allo stato, superflua l’analisi del motivo di ricorso di cui al superiore paragrafo 2.2.4
formulato dalla difesa dell’imputato COGNOME e relativo al trattamento sanzionatorio riservato allo stesso.
Per le considerazioni or ora esposte, la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente alla contestata e ritenuta circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Palermo. L’infondatezza degli ulteriori motivi di ricorso ne impone il rigetto.
Il richiesto ristoro delle spese sostenute nel presente grado di giudizio dalle costituite parte civili, peraltro strettamente legato anche alla ricorrenza o meno della circostanza aggravante ancora sub iudice , non può che essere rimandato al mento della definitiva conclusione del procedimento.
P.Q.M
Annulla la sentenza impugnata limitatamente all’aggravante di cui all’art. 416 bis.1 cod. pen. con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Palermo. Rigetta nel resto i ricorsi. Spese delle parti civili al definitivo.
Così Ł deciso, 04/03/2025
Il Consigliere estensore
Il Presidente
NOME
NOME COGNOME