Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 47017 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 47017 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 14/11/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a BISEASI (GHANA) il 17/01/1978
avverso la sentenza del 26/10/2023 della Corte d’appello di Brescia Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso; udito il difensore, Avv. NOME COGNOME in sostituzione per delega orale del difensore di fiducia, Avv. COGNOME che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 26 ottobre 2023, la Corte d’appello di Brescia , in parziale riforma della sentenza emessa dal tribunale di Brescia in data 8 maggio 2023, appellata da NOME COGNOME riconosciute in favore del medesimo le circostanze attenuanti generiche, riduceva la pena al medesimo inflitta in 1 anno e 2 mesi di reclusione, c onfermando nel resto l’appellata sentenza che lo aveva riconosciuto colpevole del reato traffico illecito di rifiuti ex art. 452quaterdecies , cod. pen., commesso secondo le
modalità esecutive e spazio -temporali meglio descritte nel capo di imputazione, in relazione a fatti commessi dal 4 marzo al 2 settembre 2018.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il COGNOME a mezzo del proprio difensore di fiducia, articolando sei motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173, disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di violazione di legge e correlato vizio di motivazione con riferimento all’art. 452 -quaterdecies , cod. pen., circa la esistenza dell’ingente quantitativo di rifiuti.
In sintesi, premette il ricorrente che la sentenza di primo grado aveva utilizzato, al fine di ritenere sussistente il reato, non solo il materiale probatorio acquisito nel periodo di indagine, bensì anche 30 spedizioni ad esso antecedenti e conosciute solo nel numero tramite verifica presso agenzia doganale, nonché il risultato del sequestro e della caratterizzazione svolta in epoca successiva al periodo di imputazione di ben un anno e mezzo. Tutto ciò che è avvenuto al di fuori del periodo contestato nell’imputazione, secondo la difesa, non può far parte dell’impianto probatorio, poiché la Procura della Repubblica avrebbe dovuto ampliare la contestazione, cosa che non è avvenuta. La sentenza di primo grado avrebbe disatteso in maniera del tutto illogica tale rilievo, contenendo la motivazione riferimenti sia alle spedizioni effettuate al di fuori del capo di imputazione, sia al materiale sequestrato oltre un anno e mezzo dopo lo stesso periodo indicato nell’imputazione. I giudici di appello, pur riconoscendo la fondatezza delle doglianze difensive, avrebbero tuttavia sostenuto che quanto sopra non avrebbe impedito alla Corte di valorizzare quelle emergenze, facenti parte del materiale utilizzabile, come riscontro di una attività abituale riconducibile all’interno della previsione normativa commessa nell’arco temporale oggetto dell’imputazione. Si tratterebbe di una motivazione illogica in quanto, o si utilizza tutto il materiale probatorio raccolto, ovvero si riconosce che quanto raccolto prima e dopo il periodo indicato nell’imputazione non sia contestabile agli imputati, non essendovi stata contestazione suppletiva, e pertanto non può essere utilizzato come prova nei loro confronti. Escludendo quindi tutto ciò che era stato utilizzato dalla Corte come riprova dell’attività, svuotato l’impianto probatorio delle spedizioni antecedenti al periodo di imputazione, del materiale sequestrato e caratterizzato due anni dopo la contestazione, ben poco resterebbe che possa essere utilizzato come prova della responsabilità penale dell’imputato.
Tanto premesso, le censure difensive si appuntano circa il requisito dell’ingente quantità che costituisce uno degli elementi del reato contestato. A tal proposito, sia il primo giudice che il giudice d’appello, avrebbero misurato il quantitativo in modo del tutto approssimativo, utilizzando il mero dato ponderale del materiale smaltito a seguito del sequestro avvenuto nel febbraio del 2020 per giustificare l’ingente quantitativo del materiale considerato rifiuto, attraverso una valutazione fatta tramite filmati di
videosorveglianza nel periodo marzo-settembre 2018. I giudici avrebbero commesso due errori: un primo errore riguardante l’utilizzo del dato ponderale del sequestro dei luoghi avvenuto un anno e mezzo dopo il termine del periodo di imputazione, e dunque inconferente come prova della sussistenza dell’ingente quantitativo di rifiuti nel periodo contestato; un secondo errore, costituito dal ricorso alla cosiddetta valutazione spannometrica e presuntiva effettuata in sede di indagini e in sede processuale. Secondo la difesa, la presunzione di catalogare materiali quali rifiuti per il tramite di videoregistrazione è del tutto illegittima, come illogico è l’assunto motivazionale adoperato dalla Corte d’appello laddove sottolinea come, in assenza di qualsiasi allegazione e documentazione circa la provenienza e natura dei materiali caricati sui container, quei carichi sono stati considerati correttamente rifiuto. Secondo la difesa non è solo per la mancanza di una pezza di acquisto o di cessione che un bene diventa rifiuto ma, richiamati i criteri indicati dall’Arpa in dibattimento, è evidente come la valutazione svolta sia stata del tutto casuale ed imprecisa circa i materiali di volta in volta caricati sui container, e considerati rifiuti per il solo fatto che in uno solo dei container vi era materiale da considerarsi come tale. Dunque, secondo la difesa, tutto ciò che viene definito per il solo tramite di un’immagine, per quanto accurata essa possa essere, non può costituire prova a carico dell’imputato, rendendo necessaria una più precisa e concreta caratterizzazione del materiale al fine di definirlo con precisione come rifiuto. Peraltro, per poter classificare un materiale come rifiuto spesso serve più che un’osservazione, come emergerebbe dalle affermazioni del personale dell’Arpa di Brescia, che ha minuziosamente rappresentato quali siano i requisiti perché un determinato bene possa essere considerato rifiuto (il riferimento è ad esempio alla distinzione tra le varie tipologie di pneumatici). Epurato quindi il dato ponderale con tutto ciò che non è certo o non è conferente, sarebbe dunque evidente che l’unico elemento di certezza è il materiale sequestrato nell’unico container aperto e liberato dai rifiuti dai tecnici del porto di Genova: l’erroneo riconoscimento di una ingente quantità determinata sulla base di risultanze incerte e non oggettivamente verificate non poteva dunque rientrare nella previsione normativa.
2.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di violazione di legge e correlato vizio di motivazione circa la sussistenza di un’organizzazione nell’attività di traffico illecito di rifiuti.
In sintesi, sostiene la difesa che la Corte d’appello non avrebbe supportato la propria decisione con alcun elemento che non sia la videoregistrazione di persone mai identificate che portavano materiale nel capannone del Benith e caricavano i container. Lo stesso teste COGNOME uno degli operanti che aveva svolto le indagini, nella sua deposizione avrebbe evidenziato come non vi fosse alcun tipo di organizzazione. Non vi sarebbero locali idonei a sostenere anche una benchè minima organizzazione, e quella che viene ritenuta manodopera dalla Corte non sarebbe mai stata identificata, e non è
chiaro se si trattasse delle medesime persone o di soggetti che occasionalmente si recavano sul luogo per aiutarsi nel caricamento dei container che, sostiene la difesa, per almeno i due terzi sono costituiti da materiale del tutto lecito e non considerato come rifiuto. Inoltre, ciò che viene contestato come mezzo, ossia il ragno di proprietà dell’imputato, sarebbe comparso solo in due occasioni, ossia il 24 giugno il 9 agosto, come evidenziato ancora una volta dal teste COGNOME. Non vi è dunque alcun tipo di struttura economica, non vi è materiale nel luogo idoneo per la conservazione e la predisposizione dell’attività e, dunque, non potrebbe riconoscersi la sussistenza di una organizzazione anche solo rudimentale. La stessa presenza occasionale dell’imputato non potrebbe integrare quella organizzazione che la norma invoca al fine di qualificare la responsabilità penale. Le prove dichiarative e documentali escluderebbero la presenza di ogni qualsivoglia genere di organizzazione, rendendo evidente l’erroneità della sentenza laddove la riconosce sulla base di mere suggestioni derivanti dalla mancata compiutezza delle indagini. In altri termini, pur di dare giustificazione alla propria decisione, i giudici d’appello ravvisano, in ciò che è stato mostrato come il ‘caos’ dagli operanti di polizia giudiziaria, una forma rudimentale di organizzazione, elemento questo che non può andare esente da censure.
2.3. Deduce, con il terzo motivo, il vizio di violazione di legge e correlato vizio di motivazione in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo dell’ingiusto profitto.
In sintesi, si sostiene che l’affermazione della Corte d’appello secondo cui la condotta abusiva avrebbe impedito ogni controllo da parte dei soggetti preposti con le inevitabili conseguenze negative per l’integrità dell’ambiente e che avrebbe anche consentito la riduzione dei costi dell’attività, sarebbe censurabile ed inidonea a supportare il giudizio di responsabilità penale con riferimento all’elemento psicologico del reato, ossia l’ottenimento dell’agente di un ingiusto profitto che può essere o meno monetario . Non vi sarebbe un solo elemento all’interno delle emergenze probatorie che possa ricondursi ad un guadagno monetario e/o economico o di altro tipo. L’unico riferimento peraltro generico sarebbe stato fatto dal teste COGNOME che si sarebbe lasciato andare a uno sproloquio rispetto alle discariche abusive in Africa e al pericolo che esse costituiscono per l’ambiente. Quest’ultimo avrebbe commesso una serie di strafalcioni, che vengono sinteticamente riportati in ricorso, ma che costituirebbero delle semplici voci correnti nel pubblico in quanto se, per sentito dire, tutti abbiamo contezza della circostanza per cui in alcune zone del mondo, e in particolare in Africa, vengono bruciati rifiuti di ogni tipo o smaltiti in modo non corretto al fine di recuperarne metalli preziosi, sarebbe tuttavia altrettanto vero che questa vox populi non può costituire una prova del dolo specifico solo esclusivamente perché veicolata tra le prove da un teste di polizia giudiziaria. Diversamente, sostiene la difesa, non vi sarebbe traccia tra gli elementi di prova di un profitto ingiusto incamerato dal ricorrente a fronte delle spedizioni fatte dal Benith all’interno delle quali sono stati sequestrati materiali ritenuti rifiuto. Da qui, l’erroneità
della sentenza laddove reputa sussistente l’elemento soggettivo del dolo specifico in assenza di prove riguardanti l’ingiusto profitto.
2.4. Deduce, con il quarto motivo, il vizio di violazione di legge e correlato vizio di motivazione in ordine alla partecipazione del ricorrente a titolo di concorso ex art. 110, cod. pen. nel reato contestato.
In sintesi, si censura la sentenza impugnata per non avere motivato circa la partecipazione del ricorrente a titolo di concorso nelle attività criminose che sono state accertate come commesse dal Benith. Richiamati i principi espressi in giurisprudenza in ordine alla configurabilità del concorso, si sostiene come in atti non vi sia alcun elemento che possa far concludere per l’esistenza di una consapevolezza da parte del ricorrente di cooperare ad un’azione criminosa. La motivazione sul punto da parte della Corte d’appello sarebbe censurabile poiché, se è indubbio che la condotta del ricorrente abbia in qualche modo agevolato la commissione del reato da parte del COGNOME, i giudici tuttavia non avrebbero motivato rispetto all’elemento soggettivo a supporto della contestazione concorsuale. L’unico elemento che può essere ricondotto a tale motivazione è il cenno al successivo rinvenimento di materiale ritenuto rifiuto, emergenza portata alla luce durante il sequestro presso il piazzale, ma si tratterebbe di un riscontro che ben poco potrebbe rilevare ai fini della valutazione sul dolo concorsuale, facendo riferimento a fatti avvenuti un anno e mezzo dopo rispetto a quelli contestati. La realtà è che non vi sarebbe alcun elemento, nemmeno indiziario, che possa in qualche modo provare che il ricorrente fosse consapevole della condotta criminosa tenuta dal Benith e abbia volontariamente aderito ad essa con il fine di agevolarne la commissione. Diversamente, come attestato dallo stesso imputato, la sua partecipazione sarebbe stata del tutto fortuita e non vi sarebbe stata alcun tipo di volontà delittuosa a sostenerla, non potendosi escludere che l’imputato fosse stato in buona fede nell’aiutare il Benith, in quanto il materiale caricato sul container nelle due occasioni non poteva essere ritenuto un rifiuto nel senso stretto del termine. Mancherebbe pertanto un supporto motivazionale che indichi perché secondo la Corte d’appello il ricorrente avrebbe dovuto sapere quale fosse l’attività occulta del NOME il quale, ricorda la difesa, raccoglieva in modo del tutto lecito beni e materiali di uso comune da connazionali per spedirli nel paese origine.
2.5. Deduce, con il quinto motivo, il vizio di violazione di legge in relazione all’art. 24, Cost.
In sintesi, si duole la difesa di una grave violazione del diritto di difesa che sarebbe stata commessa dalla Procura della Repubblica in sede di udienza preliminare. Premette infatti che, una volta sottoposti a sequestro il capannone del Benith e il piazzale del ricorrente, e fissata l’udienza preliminare, il Gup aveva disposto all’udienza la caratterizzazione dei materiali ivi previsti al fine di distinguere cosa fosse o meno rifiuto e procedere allo smaltimento. Tra i materiali catalogati vi era anche una serie di pneumatici con cerchio rinvenuti sul piazzale del ricorrente. La difesa aveva chiesto che
un proprio consulente potesse avere accesso ai luoghi al fine di misurare il loro battistrada e valutarne le condizioni, istanza rimasta inevasa fino alla data in cui la difesa veniva informata dell’imminente smaltimento di tutti gli pneumatici in quanto, dalla consulenza svolta dal gommista, gli stessi erano stati definiti come rifiuti. Una seconda istanza veniva depositata nuovamente al fine di ottenere la sospensione dell’attività di smaltimento limitatamente agli pneumatici, ma la stessa veniva del tutto disattesa, sino alla decisione del Gup di autorizzare l’accesso ai luoghi per il consulente della difesa, quando però ormai tutto il materiale era stato smaltito sulla base della consulenza del pubblico ministero, che peraltro sarebbe stata del tutto inutilizzabile. La sentenza della Corte d’appello sarebbe dunque censurabile dove utilizza questa prova in pregiudizio rispetto al ricorrente, ponendola alla base del riconoscimento della responsabilità penale dello stesso in quanto anche lui aveva un piazzale pieno di rifiuti, affermazione questa che sarebbe tuttavia frutto di una grave violazione del diritto di difesa dell’imputato nei termini sopra descritti.
2.6. Deduce, infine, con il sesto motivo, il vizio di mancanza della motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio.
In sintesi, si duole la difesa in quanto la sentenza non riferirebbe nulla circa la decisione dei giudici di discostarsi dal minimo edittale. Una volta giustificata la concessione delle attenuanti generiche ai sensi dell’articolo 62-bis cod. pen., non vi sarebbe alcuna motivazione a giustificare il trattamento sanzionatorio a titolo di concorso, sebbene si trattasse di un motivo d’appello specifico.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso, trattato in presenza a seguito di richiesta di discussione orale, è inammissibile.
I l primo, il secondo ed il terzo motivo meritano congiunto esame attesa l’intima connessione dei profili di doglianza ad essi sottesi, contestando infatti con tali motivi la difesa la configurabilità dell’illecito per cui è intervenuta condanna tanto nei suoi elementi oggettivi che soggettivi.
2.1. Tutti i motivi sono inammissibili perché generici per aspecificità e, comunque, manifestamente infondati.
2.2. Sono anzitutto generici, perché non si confrontano con la motivazione dell’impugnata sentenza che, dalle pagg. 15 e segg., soffermandosi sulla posizione dell’attuale ricorrente, dopo aver richiamato quanto argomentato dalla sentenza di primo grado, s i occupa di confutare le identiche doglianze difensive svolte in sede d’appello, replicate davanti a questa Corte senza alcun apprezzabile elemento di novità critica, tentando di trascinare questa Corte, sotto l’apparente deduzione di vizi di violazione di
legge o motivazionali, sul terreno del fatto, chiedendo in sostanza ai giudici di legittimità di procedere ad una rivalutazione degli elementi probatori acquisiti e sulla cui base è stato espresso il giudizio di responsabilità penale, operazione questa del tutto incompatibile con il giudizio di legittimità.
2.3. Ciò vale, anzitutto, con riferimento all’elemento oggettivo dell’ingente quantità, che viene ad essere contestato dalla difesa per le modalità attraverso le quali la Corte d’appello sarebbe perven uta al suo accertamento, ossia sulla base di videoregistrazioni che non avrebbero consentito di verificare quei materiali fossero stati o meno rifiuti e per il ricorso al c.d. metodo spannometrico impiegato. Orbene, con riferimento al primo profilo, afferente alla individuazione di quei materiali come rifiuto (cui i giudici di appello sono pervenuti non solo sulla base della visione delle videoregistrazioni, ma anche sulla scorta di elementi oggettivi, costituiti dalla mancanza di allegazioni documentali circa la provenienza e la natura dei materiali caricati sul container ma anche sulla base di dichiarazioni rese dai testi sentiti all’ud. 6.03.2023 i quali avevano dichiarato di aver ricevuto i PC e gli elettrodomestici che avevano conferito in INDIRIZZO da italiani che volevano disfarsene), l’affermazione contenuta in sentenza secondo cui quanto aveva costituito oggetto del monitoraggio dal marzo al maggio 2018 (pag. 23) mediante osservazione diretta da parte degli operanti di p.g. e per il periodo succe ssivo dall’11.06 al 2.09.2018 a mezzo di videotelecamere installate in punti nodali, rientrasse nella fattispecie contestata, non può costituire oggetto di sindacato di legittimità, trattandosi di accertamento in fatto, immune dai denunciati vizi logico -argomentativi. Del resto, non va dimenticato che, per giurisprudenza costante di questa Sezione, in tema di gestione di rifiuti, l’accertamento della natura di un oggetto quale rifiuto ai sensi dell’art. 183 d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 costituisce una “quaestio facti”, come tale demandata al giudice di merito e insindacabile in sede di legittimità, se sorretta da motivazione esente da vizi logici o giuridici (da ultimo: Sez. 3, n. 25548 del 26/03/2019, Rv. 276009 -02).
2.4. Allo stesso modo, non è censur abile il fatto che la valutazione dell’ingente quantità sia stata eseguita attraverso il ricorso alla c.d. valutazione spannometrica. Già in precedenti occasioni, infatti, questa stessa Sezione si è pronunciata sul punto ritenendo tale modalità valutativa del tutto legittima (Sez. 3, n. 29076 del 5/04/2024, COGNOME, non massimata ; Sez. 3, n. 2401 del 5/10/2017, dep. 2018, COGNOME, non massimata sul punto ; Sez. 3, n. 40109 del 4/06/2015, COGNOME, non massimata ). A tal proposito, si è già ritenuto analogo motivo inammissibile, posto che attraverso il medesimo il ricorrente, come nel caso in esame, più che censurare un preteso vizio della motivazione, svolge doglianze che si risolvono in una manifestazione di dissenso rispetto alla valutazione della prova operata dai giudici di merito, sostanzialmente invocando un terzo grado di merito, operazione, com’ è noto, del tutto inibita davanti a questa Corte di legittimità. Che questa sia la finalità ultima della censura, del resto, discende dallo stesso tenore
dell’impugnazione, ponendo in discussione il ricorrente i pretesi errori valutazione delle videoriprese e la inattendibilità della valutazione dell’ingente quantitativo dei rifiuti operata prima dalla polizia giudiziaria e successivamente dai giudici di merito, giungendo quindi ad affermare che questi ultimi non avrebbero spiegato e giustificato in concreto come e perché e sulla scorta di quali concreti parametri di valutazione abbiano ritenuto che i rifiuti in questione fossero qualificabili in termini di ‘ingente quantità’. Locuzione, quest’ultima, che va riferita al quantitativo complessivo di rifiuti trattati attraverso la pluralità delle operazioni svolte, anche quando queste ultime, singolarmente considerate, possono essere qualificate di modesta entità (tra le tante: Sez. 3, n. 46950 del 11/10/2016, Rv. 268667 -01), donde, correttamente, la Corte d’appello ha ritenuto (pag. 24) priva di pregio l’obiezione difensiva secondo cui i singoli trasporti potessero avere ad oggetto quantitativi non ingenti, valorizzando sul punto anche la frequenza delle spedizioni a mezzo container ed al modus operandi ed alla gestione dello stoccaggio organizzato.
2.5. Ad analogo approdo deve pervenirsi, poi, in ordine al secondo profilo di doglianza afferente all’elemento oggettivo della sussistenza dell’organizzazione. Sul punto, rispondendo ad identico motivo di appello replicato ancora una volta senza alcun apprezzabile elemento di novità critica in questa sede di legittimità, i giudici di appello a pag. 23 chiariscono come risulta essere stata certamente svolta in maniera organizzata, non escludendo la organizzazione la circostanza che la stessa sia più o meno rudimentale, l’attività di ricezione dei rifiuti, essendo stata predisposta ad hoc un’area ove confluivano più mezzi e persone a scaricare il materiale, che veniva poi nell’area sistemato. Egualmente organizzata, si legge in sentenza, era la attività di trasporto, dato che, appunto, sul luogo confluivano mezzi che scaricavano i container per essere riempiti di materiale, tra cui rifiuti, da trasportare in Africa, attività alla quale presiedeva Benith e che materialmente era posta in essere da più soggetti che si coordinavano tra loro; tali container , una volta riempiti, venivano prelevati dalle motrici che li agganciavano e li trasportavano al porto di Genova per la spedizione extra UE. Analogamente, infine, i giudici ritengono integrata la condotta di esportazione, la cui natura continuativa è certamente avallata, si precisa in sentenza, non solo dal fatto che ben 6 sono i trasporti organizzati in due mesi, ma che risultano accertate 30 precedenti spedizioni analoghe, le ultime delle quali risalgono al 12 e 29 mar zo 2018, ma anche dal fatto che l’attività di accumulo del materiale e di stoccaggio dello stesso è stata accertata ben oltre il 2.09.2018, tanto che l’11.02.2020 era effettuato il sequestro di quantitativi imponenti di materiali, gran parte dei quali, dopo una lunga e difficoltosa attività di classificazione, sono stati inviati in discarica. La sentenza, quindi, a pag. 24, conclude ritenendo che quanto accertato integri il reato contestato, integrato da più operazioni rese possibili dall’allestimento di me zzi e attività continuative. Mezzi che, sottolinea la sentenza, sono economici, personali e materiali, in quanto il sito di INDIRIZZO era luogo di stoccaggio
del materiale, i mezzi erano costituiti dagli strumenti per accatastarlo e farne una cernita sommaria, il ragno del ricorrente per sollevare e spostare il materiale più pesante non caricabile a meno, il personale erano gli uomini che portavano il materiale e poi lo caricavano sui container, e gli autisti di cui gli imputati si servivano: uomini, mezzi, materiali, organizzazione ritenuta con motivazione non manifestamene illogica, sufficiente a rendere economicamente redditizia l’attività così organizzata al di fuori di qualsiasi controllo dalle autorità preposte.
2.6. Al cospetto di tale apparato argomentativo, dunque, le doglianze del ricorrente appaiono del tutto prive di pregio, in quanto tradiscono il “dissenso” sulla ricostruzione dei fatti e sulla valutazione delle emergenze processuali svolta dai giudici di merito in merito alla sussistenza d ell’elemento dell’organizzazione, attingendo la sentenza impugnata e tacciandola per presunte violazioni di legge e vizi motivazionali con cui, in realtà, si propongono doglianze non suscettibili di sindacato in sede di legittimità. Sul punto, va ribadito come la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (Sez. 5, n. 1004 del 30/11/1999, dep. 2000, Rv. 215745; Sez. U, n. 930 del 13/12/1995, dep. 1996, Clarke, Rv. 203428 -01).
2.7. Prive di pregio, infine, sono anche le censure riguardanti la sussistenza dell’ingiusto profitto e, quindi, del dolo del ricorrente. Sul punto, a pag. 24 la sentenza impugnata richiama la giurisprudenza di questa Corte secondo cui ai fini della configurabilità del delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, di cui all’art. 452quaterdecies cod. pen., il profitto – che può consistere non soltanto in un ricavo patrimoniale, ma anche nel vantaggio conseguente dalla mera riduzione dei costi aziendali o nel rafforzamento di una posizione all’interno dell’azienda – è ingiusto qualora discenda da una condotta abusiva che, oltre ad essere anticoncorrenziale, può anche essere produttiva di conseguenze negative, in termini di pericolo o di danno, per la integrità dell’ambiente, impedendo il controllo da parte dei soggetti preposti sull’intera filiera dei rifiuti (Sez. 3, n. 16056 del 28/02/2019, Rv. 275399 -01; conforme, Sez. 3, n. 37113 del 14/06/2023, Foti ed altro, non massimata ). Dunque, il requisito dell’ingiusto profitto non deriva dall’esercizio abusivo dell’attività di gestione dei rifiuti, bensì dalla condotta continuativa ed organizzata di gestione dei rifiuti finalizzata a conseguire vantaggi (risparmi di spesa e maggiori margini di guadagno) altrimenti non dovuti (Sez. 3 , n. 35568 del 30/05/2017, Savoia, Rv. 271138). Sul punto, la Corte d’appello ha ritenuto indubbio che la condotta abusiva abbia impedito ogni controllo da parte dei soggetti preposti, con le inevitabili conseguenze negative per l’integrità dell’ambiente e che abbia anche consentito la riduzione dei costi dell’attività. Ancora una volta, nel contestare tale approdo dei giudici di merito, la difesa svolge censure che, muovendo da
una critica aperta alle dichiarazioni rese dal teste COGNOME che avrebbe fatto riferimento ad una ‘voce corrente nel pubblico’ che in Africa vengono bruciati rifiuti di ogni tipo o smaltiti in modo non corretto al solo fine di recuperare metalli preziosi, si risolvono all’evidenza in doglianz e meramente fattuali, attraverso le quali si attinge la sentenza non già per contestarne la logicità dell’apparato argomentativo, ma per tentare di trascinare la Corte di legittimità sul terreno del fatto, chiedendo in sostanza ai giudici della Cassazione di sostituirsi a quelli di merito nella valutazione dell’esistenza dell’ingiustizia del profitto, operazione inibita a questa Corte.
3. Anche il quarto motivo è inammissibile.
3.1. In ordine alla sussistenza del concorso del ricorrente nel reato oggetto di volontà comune con il Benith, valgono le considerazioni espresse alle pagg. 25/26 della sentenza impugnata, in cui è la stessa Corte d’appello che, pur riconoscendo il ruolo secondario del ricorrente, evidenzia come il suo concorso consapevole emerge non solo dalle parziali ammissioni del medesimo di aver aiutato il Benith nel carico dei container, osservando come mentre l’imputato aveva limitato a due sole occasioni tale cooperazione, diversamente gli accertamenti avevano dato conto di una sua presenza alla guida del ‘merlo’ più numerosa, ag giungendo, inoltre, come parte della superficie del civico INDIRIZZO nella disponibilità del ricorrente era occupata da rifiuti, come riferito dal teste COGNOME. Dunque, conclude la Corte d’appello con motivazione non manifestamente illogica, il ricorrente non si era limitato ad assistere, ivi abitandovi, all’attività giornaliera che veniva svolta nell’area di INDIRIZZO, ma aveva cooperato con detta attività quando aveva messo a disposizione il proprio mezzo e le sue abilità per caricare il container sollevando materiali diversamente non sollevabili a meno, dando dunque consapevolmente un proprio contributo materiale alle attività delittuose del Benith.
3.2. Quanto sopra, all’evidenza, rappresenta motivazione del tutto immune dai denunciati vizi, laddove, diversamente, il ricorrente, attingendo la motivazione della sentenza in parte qua , tentando di sostenere che l’imputato fosse in buona fede al momento in cui prestava tale aiuto al concorrente o che addirittura non sapesse che quanto caricato con il ‘merlo’ costituisse rifiuto, tenta, ancora una volta, di chiedere a questa Corte di sostituirsi alla valutazione delle emergenze probatorie operata dalla Corte di appello, operazione, come già detto, inibita a questa Corte di legittimità. Dimentica, infatti, il ricorrente che alla Corte di cassazione è normativamente preclusa la possibilità non solo di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi, ma anche di saggiare la tenuta logica della pronuncia portata alla sua cognizione mediante un raffronto tra l’apparato argomentativo che la sorregge ed eventuali altri modelli di ragionamento mutuati dall’esterno; ed invero, avendo il legislatore attribuito rilievo esclusivamente al testo del provvedimento impugnato, che si presenta quale elaborato dell’intelletto costituente un sistema logico
in sè compiuto ed autonomo, il sindacato di legittimità è limitato alla verifica della coerenza strutturale della sentenza in sè e per sè considerata, necessariamente condotta alla stregua degli stessi parametri valutativi da cui essa è “geneticamente” informata, ancorché questi siano ipoteticamente sostituibili da altri (per tutte: Sez. U, n. 12 del 31/05/2000, Jakani, Rv. 216260 -01).
4. Il quinto motivo è radicalmente inammissibile.
Questa Corte ha infatti già affermato più volte che è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con il quale si deduce la violazione di disposizioni costituzionali, poiché l’inosservanza delle stesse non è prevista, dall’art. 606 cod. proc. pen., tra i casi di ricorso e può solo costituire fondamento di questione di legittimità costituzionale (da ultimo: Sez. 5, n. 4944 del 03/12/2021, dep. 2022, Rv. 282778 -01). Nella specie, la difesa del ricorrente ha dedotto unicamente la violazione dell’art. 24 Cost., così esponendo il motivo all’inammissibilità.
5. Anche il sesto ed ultimo motivo è inammissibile.
5.1. Ed infatti, pur se a pag. 26 della sentenza impugnata la Corte d’appello non indica la pena base per il ricorrente, limitandosi a ridurre la pena inflitta ad 1 anno e due mesi di reclusione, è agevole rilevare come tale pena base fosse quella indicata dal giudice di primo grado in 1 anno e 9 mesi di reclusione, ossia di complessivi mesi 21 di reclusione, che ridotta di 1/3 (massima estensione per il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, dunque con riduzione di mesi 7), ha consentito al giudice d’appello di determinare la pena finale in 1 anno e 2 mesi di reclusione (ossia 14 mesi: 21-7). La mancata individuazione della pena base da parte dei giudici di appello, quindi, non inficia la sentenza impugnata, in quanto la stessa era agevolmente desumibile, stante il divieto di reformatio in peius ed il principio della reciproca integrazione motivazionale tra le due sentenze (Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Rv. 257595 -01), considerando come tale quella individuata dal primo giudice, ed applicando alla stessa la riduzione massima per l’art. 62 -bis , cod. pen.
5.2. In merito, peraltro, alla congruità di tale trattamento, è sufficiente ribadire il costante principio secondo cui in tema di determinazione della pena, nel caso in cui venga irrogata una pena al di sotto della media edittale (ciò che è avvenuto nel caso di specie), non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte del giudice, essendo sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen. (Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015, Rv. 265283 -01): e, sul punto, i giudici di appello, con affermazione valevole per entrambi gli imputati ritengono la pena base ‘calibrata al fatto’, dunque sostanzialmente richiamandosi ad un criterio di adeguatezza.
Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3000 in favore della Cassa delle Ammende, non potendosi escludere profili di colpa nella sua proposizione.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso, il 14/11/2024