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Traffico illecito di rifiuti: abiti usati e confisca

La Corte di Cassazione ha confermato la condanna per traffico illecito di rifiuti nei confronti di un imprenditore che gestiva ingenti quantitativi di abiti usati. La sentenza chiarisce che gli indumenti usati, anche se donati, sono da considerarsi rifiuti se non vengono sottoposti a specifici processi di selezione e igienizzazione previsti dalla legge. L’azienda, infatti, li classificava falsamente come ‘materie prime secondarie’ per rivenderli, eludendo i costi e le procedure di corretto smaltimento e recupero, integrando così il reato di traffico illecito di rifiuti.

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Pubblicato il 14 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Traffico illecito di rifiuti: quando gli abiti usati diventano un problema legale?

Il confine tra riuso, beneficenza e reato ambientale è spesso sottile, specialmente nel settore degli indumenti usati. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha fornito chiarimenti cruciali, confermando una condanna per traffico illecito di rifiuti a carico di un imprenditore. Il caso evidenzia come la gestione di abiti raccolti, anche se con finalità apparentemente nobili, debba sottostare a regole precise per non incorrere in gravi conseguenze penali. Analizziamo la decisione per comprendere i principi affermati dai giudici.

I fatti del caso: la gestione degli abiti usati

Una società operante nel settore del recupero di materiali tessili riceveva ingenti quantitativi di indumenti, prodotti tessili e accessori usati, raccolti in Lombardia, Piemonte e Friuli. Questi beni venivano poi avviati al mercato dell’usato, sia in Italia che all’estero, senza essere sottoposti ai processi di trattamento e recupero previsti dalla normativa ambientale.

In particolare, l’azienda ometteva le necessarie operazioni di selezione, cernita e igienizzazione. Per mascherare l’irregolarità, la documentazione di trasporto indicava falsamente che si trattava di ‘materie prime secondarie’ (M.P.S.) e non di rifiuti, violando così le prescrizioni contenute nell’autorizzazione in suo possesso. Questa condotta ha portato alla contestazione del grave reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti.

I motivi del ricorso in Cassazione

L’imputato, condannato in primo e secondo grado, ha presentato ricorso in Cassazione basandosi su diversi motivi, tra cui:
1. Errata qualificazione giuridica: secondo la difesa, gli abiti donati non sarebbero ‘rifiuti’, in quanto nel donatore mancherebbe la volontà di ‘disfarsi’ del bene, ma piuttosto quella di consentirne il reimpiego.
2. Quantitativo non ‘ingente’: si sosteneva che la nozione di ‘ingente quantitativo’ dovesse essere valutata in relazione ai limiti massimi previsti dall’autorizzazione amministrativa e non in termini assoluti.
3. Errato calcolo del profitto: la difesa contestava il metodo di calcolo del profitto illecito, oggetto di confisca, ritenendolo illogico e non basato sulla contabilità aziendale.
4. Assenza dell’elemento soggettivo: l’imputato asseriva di non avere la consapevolezza di commettere un illecito, anche in virtù di una precedente assoluzione per fatti analoghi.

Il traffico illecito di rifiuti e la normativa di riferimento

Il reato di traffico illecito di rifiuti, previsto dall’art. 260 del D.Lgs. 152/2006 (Testo Unico Ambientale), punisce le attività organizzate finalizzate alla gestione abusiva di grandi quantità di rifiuti per ottenere un profitto ingiusto. La norma mira a proteggere l’ambiente e la salute pubblica da gestioni incontrollate che possono causare inquinamento e danni.

La chiave per comprendere la decisione della Corte risiede nella definizione stessa di ‘rifiuto’. Secondo la legge, è tale ‘qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione ovvero l’obbligo di disfarsi’. Come vedremo, l’interpretazione di questa definizione è stata centrale nel rigetto del ricorso.

Le motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso infondato, confermando la condanna. Le motivazioni dei giudici sono un importante vademecum per gli operatori del settore.

La natura di ‘rifiuto’ degli indumenti usati

La Corte ha ribadito un principio consolidato: la nozione di rifiuto deve essere interpretata in senso ampio per garantire un elevato livello di tutela ambientale. Il fatto che il cittadino doni un abito in un cassonetto con uno scopo di beneficenza non è rilevante. Ciò che conta è l’atto oggettivo di ‘disfarsi’ di un bene di cui non si intende più fare uso. Da quel momento, il bene diventa un rifiuto e deve essere gestito secondo le norme specifiche. Per perdere tale qualifica e diventare un prodotto riutilizzabile o una materia prima secondaria, deve subire un’operazione di recupero autorizzata, che nel caso degli abiti usati include la selezione e l’igienizzazione. Poiché l’azienda ometteva sistematicamente questi trattamenti obbligatori, gli abiti rimanevano a tutti gli effetti dei rifiuti.

Il concetto di ‘ingente quantitativo’

I giudici hanno chiarito che il requisito dell”ingente quantitativo’ non va rapportato ai limiti dell’autorizzazione, ma deve essere valutato in relazione al volume complessivo dell’attività illecita. Nel caso di specie, la gestione di migliaia di tonnellate di rifiuti in un arco temporale di diversi anni integrava pienamente tale requisito, rendendo irrilevante ogni confronto con i limiti autorizzativi, peraltro violati.

La questione della confisca del profitto

La Corte ha dichiarato inammissibile il motivo relativo alla confisca, rilevando una carenza di interesse da parte dell’imputato. La confisca disposta era di tipo ‘diretto’ e colpiva il profitto del reato incamerato dalla società, non il patrimonio personale dell’imputato. Pertanto, l’imputato non aveva titolo per contestarne la quantificazione.

L’elemento soggettivo e le circostanze attenuanti

Infine, la Cassazione ha ritenuto provato il dolo, ossia la piena consapevolezza dell’imputato di gestire illecitamente i rifiuti. Le intercettazioni telefoniche dimostravano la sua insofferenza verso le normative che imponevano i costosi processi di igienizzazione. Anche il diniego delle attenuanti generiche è stato giudicato corretto, poiché non sono emersi elementi positivi a favore dell’imputato, come l’assenza di danno ambientale (irrilevante in un reato di pericolo) o le incertezze normative, ritenute insussistenti.

Conclusioni: le implicazioni della sentenza

Questa sentenza è un monito per tutte le imprese che operano nel settore del recupero e del riciclo. La Corte di Cassazione ha stabilito con chiarezza che la gestione di abiti usati è un’attività soggetta a precise regole ambientali. La qualifica di rifiuto non viene meno per la sola intenzione di riutilizzo o per lo scopo solidaristico della raccolta. Solo il completamento delle operazioni di recupero previste dalla legge, come la selezione e l’igienizzazione, consente di declassificare un bene da rifiuto a prodotto. Omettere questi passaggi per ridurre i costi e massimizzare i profitti non è una semplice irregolarità, ma integra il grave reato di traffico illecito di rifiuti, con tutte le conseguenze penali e patrimoniali che ne derivano.

Quando un abito usato donato diventa un rifiuto ai sensi di legge?
Un abito usato diventa un rifiuto nel momento in cui il detentore se ne disfa, ad esempio inserendolo in un cassonetto di raccolta. L’intenzione di donarlo per beneficenza non cambia la sua natura giuridica. Perde la qualifica di rifiuto solo dopo essere stato sottoposto a specifiche operazioni di recupero (selezione, igienizzazione) previste dalla legge.

Come si determina l’ ‘ingente quantitativo’ nel reato di traffico illecito di rifiuti?
L’ ‘ingente quantitativo’ si riferisce alla quantità complessiva di rifiuti trattati illecitamente attraverso la pluralità delle operazioni svolte, anche in un lungo arco temporale. Non va commisurato ai limiti massimi previsti da un’eventuale autorizzazione amministrativa, ma alla portata totale dell’attività abusiva.

L’assenza di un danno ambientale concreto esclude il reato di traffico illecito di rifiuti?
No. Il traffico illecito di rifiuti è un reato di pericolo presunto. Ciò significa che per la sua configurazione non è necessario dimostrare un danno ambientale effettivo o una minaccia concreta. La legge punisce la condotta di gestione abusiva in sé, poiché è considerata intrinsecamente pericolosa per l’ambiente e la salute pubblica.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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