Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 20679 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 20679 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 02/05/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
I COGNOME
S.O. COGNOME
nato mi
COGNOME omissis I
avverso la sentenza del 04/05/2023 della Corte di appello di Brescia visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO, che ha chiesto il rigetto del ricorso; lette le conclusioni del difensore del ricorrente, AVV_NOTAIO, che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Brescia, con la sentenza indicata in epigrafe, ha confermato la condanna di COGNOME alla pena di anni uno di reclusione per il reato di cui all’art. 574-bis cod. pen. poiché l’imputato sottraeva la figlia mino alla responsabilità genitoriale della madre, conducendola in Ungheria contro la volontà della predetta, in Ospitaletto dal 28 febbraio 2019 al 20 marzo 2019.
2.Con i motivi di ricorso, sintetizzati ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. pro pen. nei limiti strettamente indispensabili ai fini della motivazione, il ricorren denuncia:
2.1. violazione di legge, in relazione all’art. 143 cod. proc. pen., poiché la sentenza impugnata non è stata tradotta a favore dell’imputato / che non conosce e non parla la lingua italiana a fronte di udienza tenutasi, in grado di appello, in presenza. La mancata traduzione ha determinato la violazione delle prerogative difensive dell’imputato che non ha potuto confrontarsi fondatamente con il proprio difensore in assenza di un atto tradotto in lingua a lui comprensibile;
2.2. erronea applicazione della legge penale (art. 574-bis cod. pen.) poiché, nei venti giorni dell’allontanamento della minore, non era stato impedito alla madre l’esercizio delle prerogative genitoriali dal momento che l’imputato inviava alla madre della minore dei video dai quali poteva osservarla; si è trattato, comunque, di un brevissimo periodo al termine del quale l’imputato aveva fatto spontaneamente ritorno in Italia dove, a seguito della separazione, era stato riconosciuto e regolato il diritto di visita dello stesso;
2.3. contraddittorietà delle dichiarazioni rese dalla persona offesa in merito all’allontanamento del marito verso la Lituania /sostenendo di non sapere dove, in realtà, si trovasse con la figlia minore al momento della denuncia;
2.4. vizio di motivazione sulla sussistenza del dolo poiché l’imputato aveva sostenuto di essersi allontanato con il consenso della moglie. La sentenza impugnata ha condiviso la ricostruzione della persona offesa (che aveva sostenuto di non sapere dove la minore si trovasse), trascurandone contraddizioni e semplificazioni, viceversa rilevanti per la ricostruzione dei fatti e dell’elemento soggettivo del reato;
2.5. violazione della legge penale per mancata applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. / ricorrendone i presupposti per la tenuità dell’offesa in relazione alla breve durata dell’allontanamento, comunque acconsentito, e solo prolungatosi oltre il tempo convenuto. L’imputato non era consapevole del disvalore del fatto in assenza di episodi violenti e avendo assicurato, durante la permanenza all’estero, il mantenimento dei contatti della minore con la madre.
CONSIDERATO IN DIRITTO
COGNOME E’ fondato, con rilievo assorbente, il primo motivo di ricorso.
Il tema devoluto alla Corte di legittimità concerne l’obbligatorietà o meno della traduzione della sentenza di appello all’imputato che non è a conoscenza della lingua italiana.
COGNOME
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E’ certo, in fatto, alla stregua della annotazione di polizia del 20 marzo 2019, che l’imputato non comprende la lingua italiana, situazione che era stata portata a conoscenza della Corte di appello in vista dell’udienza del 4 maggio 2023 poiché il difensore dell’imputato aveva chiesto la presenza dell’interprete poi, evidentemente, non più necessaria poiché l’imputato non era comparso in udienza.
La Corte di appello di Brescia, quale giudice che procede e che ha emesso la sentenza oggi impugnata, essendo stata informata della mancata conoscenza della lingua italiana da parte dell’imputato, aveva l’onere di procedere alla traduzione della sentenza emessa e la sua mancata traduzione ha integrato la violazione del diritto di difesa dell’imputato funzionale all’esercizio consapevole dell’impugnazione in sede di legittimità.
Ritiene la Corte che, anche in relazione alla sentenza di appello ed alla sua mancata traduzione, debba darsi continuità al principio affermato, da ultimo, con la sentenza delle Sezioni Unite n. 15069 del 26/10/2023, dep. 2024, COGNOME, secondo cui «la mancata traduzione, in relazione all’art. 143, comma 2, cod. proc. pen., integra una ipotesi di nullità a regime intermedio (art. 178, comma 1, lett. c) cod. proc. pen.)», nullità che, nel caso della sentenza, va correlata al diritto d impugnazione la cui decorrenza, pertanto, resta sospesa a favore dell’imputato fino al perfezionamento della procedura di traduzione e notifica dell’atto, adempimento necessario in modo da rendere concreto il riconoscimento del diritto all’assistenza linguistica previsto dall’art. 143 cit.
2.La disposizione di cui all’art. 143 cod. proc. pen., concernente la previsione dell’obbligatoria traduzione di atti del processo a favore dell’imputato che non parla o non comprende adeguatamente la lingua italiana, è stata oggetto di reiterati interventi legislativi attuati dapprima con il d. Igs. n. 1 luglio 201 101, che aveva recepito la direttiva 2012/13 UE, sul diritto all’informazione nei processi penali, poi con il d. Igs. n. 32 del 4 marzo 2014, che aveva ratificato la direttiva 2010/64/UE, sul diritto all’interpretazione e traduzione degli atti ne procedimento penale e, infine, con il d. Igs. n. n. 129 del 23/06/2016, che ha apportato disposizioni integrative e correttive del d. Igs. n. 32 cit.
Nella sentenza delle Sezioni Unite, innanzi indicata, sono state richiamate le fonti di rango sovraordinato in materia e, in particolare, l’art. 6, par. 3, CEDU che riconosce il diritto di ogni persona di essere informatq, nel più breve tempo, in una lingua che comprendere in maniera dettagliata, del contenuto dell’accusa formulata e l’art. 111, comma 3, Cost., che rammenta l’obbligo di informazione tempestivo e riservato dell’accusa, per consentire la preparazione della difesa, con la necessità che l’interessato sia assistito da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo.
Cionondimeno, l’esistenza di un vero e proprio diritto soggettivo all’interprete e alla traduzione degli atti fondamentali (la rubrica dell’art. 143 cod proc. pen. si esprime fin dalla modifica del 2014 nei termini di previsione del “diritto all’interprete e alla tradtione degli atti fondamentali”)/ si è affermata c difficoltà nella prassi giurisprudenziale, anche dopo che la disposizione dell’art. 143 cod. proc. pen. era stata modificata, con il citato d. Igs. 32 del 2014, prevedendo anche la sentenzaifra gli atti da tradurre.
In particolare, si era affermato che la mancata traduzione della sentenza nella lingua nota all’imputato alloglotto che non conosce la lingua italiana non integra un’ipotesi di nullità ma, se vi sia stata specifica richiesta della traduzione i termini per impugnare, nei confronti del solo imputato, decorrono dal momento in cui egli abbia avuto conoscenza del contenuto del provvedimento nella lingua a lui nota (Sez. 6, n. 40556 del 21/09/2022, COGNOME NOME, Rv. 283965).
Contrastata era, altresì, la legittimazione alla proposizione dell’eccezione: solo nella giurisprudenza più recente, infatti, si era affermato il principio, con riferimento alla sentenza di primo grado, secondo cui il difensore dell’imputato alloglotto è legittimato ad eccepire l’omessa traduzione della sentenza emessa nei confronti dell’assistito, trattandosi di attività rientrante nella complessiva dife tecnica a lui affidata (Sez. 6, n. 3993 del 30/11/2023, dep. 2024, Dabo Sidu, Rv. 286113), e non invece di atto personalissimo riservato in esclusiva all’imputato (ex multis, Sez. 7, ordinanza n. 9504 del 06/12/2019, dep. 2020, NOME COGNOME, Rv. 278873).
L’interpretazione letterale dell’art. 143, commi 1 e 2, cod. proc. pen. (« L’imputato che non conosce la lingua italiana ha diritto di farsi assistere gratuitamente…» e «Negli stessi casi l’autorità procedente dispone la traduzione scritta…», collocata all’inizio del comma 2), comportano che l’incipit (il diritto alla traduzione) deve essere riferitqa tutti gli atti che, stando a tale previsione, devono essere obbligatoriamente tradotti, ivi comprese le sentenze che, pur conseguendo alla notifica di atti con i quali l’accusa è stata già portata a conoscenza dell’imputato, sono collegate all’esercizio dei diritti e delle facoltà della dife connesse alla fase dell’impugnazione, anche in sede di legittimità, diversamente dagli atti (art. 143, comma 3, cit.) yla cui traduzione il giudice dispone “a richiesta di parte”.
La necessità di assicurare la più ampia tutela all’obbligo di traduzione degli atti in una lingua nota all’imputato alloglotto, generalizzata dalla richiamata pronuncia delle Sezioni Unite, che ha illustrato i referenti normativi di rango sovraordinato e la pronuncia della Corte Costituzionale n. 10 del 1993, non consente di ribadire una lettura riduttiva o depotenziata del chiaro dispo
normativo che, allo stato, ricomprende la sentenza fra gli atti da tradurre obbligatoriamente, a favore dell’imputato alloglotto.
La Corte Costituzionale aveva, infatti, richiamato espressamente i principi sovranazionali, racchiusi nell’art. 6, comma 3, lett. a), CEDU e 14, comma 3, lett. a) del Patto Internazionale dei diritti civili e Politici, e l’art. 24, comma second Cost., quali fonti del diritto soggettivo perfetto dell’imputato ad essere immediatamente e dettagliatamente informato in una lingua da lui conosciuta della natura e dei motivi dell’imputazione.
Un diritto soggettivo perfetto, direttamente azionabile, quello della garanzia linguistica, garanzia che non viene meno nel momento in cui le accuse a carico dell’imputato siano contenute nella sentenza che conclude il giudizio a suo carico e di cui si impone una interpretazione che sia in grado di conferirle carattere di concretezza ed effettività nei vari segmenti in cui si articola il procedimento e i processoionde non ridurla ad un diritto previsto solo sulla carta.
La traduzione costituisce, in ragione di tali referenti, un vero e proprio obbligo da parte dell’autorità giudiziaria, obbligo che prescinde anche dall’onere della richiesta della traduzione da parte dell’imputato e che, pertanto, è a cura del giudice disporre nel caso (in ogni caso) in cui venga a conoscenza che l’imputato non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo.
In una delle più recenti decisioni in materia si è affermato «proprio in virtù della presunzione ope legis della necessità della traduzione, non è neppure richiesto che l’imputato eccepisca l’esistenza di un concreto e reale pregiudizio alle sue prerogative, poiché esso, in realtà, è già presente in re ipsa e permane fino alli adempimento dell’obbligo di traduzione dell’atto. L’imputato, che non ha ancora preso cognizione del contenuto del provvedimento, infatti, non è in grado di rappresentare correttamente al difensore le ragioni del pregiudizio eventualmente subito, né il difensore potrebbe sostituirlo in tale valutazione, dal momento che solo il diretto interessato è in condizione di dargliene conto e spiegarne compiutamente i motivi, allorquando abbia avuto la possibilità di esaminare il provvedimento, in ipotesi lesivo, e prenderne piena conoscenza nella lingua a lui nota (Sez. 6, n. 3993, cit.)».
3.Non vi è ragione di limitare alla sentenza di primo grado, in quanto appellabile personalmente dall’imputato, il diritto alla traduzione poiché la titolarità sostanziale del diritto all’impugnazione – che esprime una situazione di astratta e potenziale connessione tra la qualifica soggettiva ricoperta dall’interessato – e l’attività processuale da porre in essere, che si traduce nell’attribuzione della legittimazione ad esercitare un atto di impulso da cui scaturisce una determinata sequenza procedimentale, costituisce profilo diverso da quello della
rappresentanza tecnica, intesa come capacità di chiedere in giudizio (jus postulandi), ovvero come potere di sollecitare una risposta del giudice presentandogli direttamente atti, istanze e deduzioni nell’interesse delle parti che, come noto, nel giudizio di legittimità costituiscono attività che l’art. 613 comma 1 cod. proc. pen. riserva esclusivamente al difensore iscritto nell’albo speciale della Corte di cassazione (cfr. sul punto S.U. n. 8914 del 21/12/2017, Aiello).
Deve, dunque, affermarsi che sussiste l’obbligo del giudice di appello, consapevole della mancata conoscenza della lingua italiana da parte dell’imputato, di procedere alla traduzione della sentenza in una lingua nota all’imputato alloglotto, obbligo che trae il suo fondamento dall’art. 24, secondo comma Cost., che impone di assicurare la massima espansione a tale diritto di difesa.
/4,Quanto alle conseguenze della mancata traduzione della sentenza è pacifica nella giurisprudenza di legittimità l’affermazione che la mancata traduzione non integra un’ipotesi di nullità della sentenza, ma comporta un mero slittamento dei termini per impugnare (così, ex multis, Sez. 6, n. 40556 cit.).
Un principio che, tuttavia, non appare più sostenibile dopo la pronuncia delle Sezioni Unite che, sebbene riferita all’ordinanza cautelare, ha individuato il fondamento della garanzia di traduzione dell’imputato e dell’indagato alloglotto nel diritto di difesa di cui agli artt. 24, secondo comma, Cost. e 6, par. 3, lett. a CEDU e la correlativa sanzione, pur in mancanza di una espressa previsione nella disposizione di cui all’art. 143 cod. proc. pen., in quella della nullità a regime intermedio, ai sensi dell’art. 178, comma 1, lett. c) cod. proc. pen., in linea con un risalente indirizzo giurisprudenziale (S.U. n. 5052 del 24/09/2003, dep. 2004, COGNOME, Rv. 226717).
Le Sezioni Unite hanno affermato che «l’intervento.., implica una partecipazione attiva e cosciente che presuppone la garanzia effettiva delle prerogative difensive del soggetto processuale, come affermato, anche in tempi recenti, da questa Corte (Sez. 5, n. 20885 del 28/04/2021, H, Rv. 281152),Né potrebbe essere diversamente, atteso che, come stabilito da questa Corte in una risalente pronuncia, la nozione di intervento dell’imputato di cui all’art. 178, comma 1, lett. c) cod. proc. pen. non può essere intesa nel senso della mera presenza fisica dell’imputato nel procedimento comportando, la partecipazione attiva e cosciente del reale protagonista della vicenda processuale, al quale deve garantirsi l’effettivo esercizio dei diritti e delle facoltà di cui lo stesso è ti (Sez. 1, n. 4242 del 20/06/1997, Masone, Rv. 208597».
Si tratta di rationes perfettamente calzanti sulla posizione dell’imputato alloglotta che non è in condizione di conoscere, in una lingua a lui comprensibile,
i motivi della condanna onde esercitare, consapevolmente, l’impugnazione della stessa.
Da tanto consegue l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, limitatamente alla mancata traduzione che va disposta a cura della Corte di appello.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla sua mancata traduzione e dispone la trasmissione degli atti alla Corte di appello di Brescia per l’ulteriore corso.
Così deciso il 2 maggio 2024
La Consigliera relatrice
Il Presidente