Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 11601 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 11601 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 28/11/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME COGNOME NOME, nato in Sudan il DATA_NASCITA;
avverso la ordinanza n. 177/23 del Tribunale di Potenza del 27 luglio 2023;
letti gli atti di causa, il ricorso introduttivo del giudizio e la ordinanza impug sentita la relazione fatta dal AVV_NOTAIO COGNOME;
letta la requisitoria scritta del PM, in persona del AVV_NOTAIO Procuratore generale NOME COGNOME, il quale ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
lette, altresì, le note difensive rassegnate in data 22 novembre 2023 dalla dife ricorrente.
RITENUTO IN FATTO
Il Tribunale di Potenza, con ordinanza del 27 luglio 2023, ha rigettato la richiesta di riesame presentata da NOME COGNOME – soggetto nei cui confronti sono in corso indagini preliminari in relazione alla detenzione, in concorso con altri, di sostanza stupefacente sia del tipo hashish che del tipo cocaina che, infine, del tipo eroina – avverso il provvedimento del 3 luglio 2023 con la quale il Gip del Tribunale di Matera ha disposto a suo carico la misura cautelare della custodia in carcere.
Tale ordinanza è stata, a sua volta gravata da ricorso per cassazione da parte dell’indagato, il quale ha affidato le proprie doglianze a tre distinti motivi di impugnazione.
Il motivo primo di ricorso è sviluppato con riferimento alla dedotta nullità, per violazione di legge della ordinanza impugnata per non essere stata con la medesima dichiarata la illegittimità della ordinanza applicativa della misura cautelare a carico del prevenuto, pur essendo stato articolato un motivo di riesame in tale senso, in quanto la stessa non era stata oggetto di traduzione in una lingua comprensibile per il ricorrente.
Il secondo motivo di impugnazione riguarda il vizio di violazione di legge e di motivazione per non avere il giudice del riesame, in accoglimento di un altro motivo di riesame dedotto di fronte a tale organo, rilevato che gli indizi di reato sussistenti nei confronti del NOME COGNOME deponevano per la qualificabilità del fatto a lui addebitato nell’ambito delle ipotesi di reato in materia di stupefacenti caratterizzate dalla lieve entità.
Infine, con il terzo motivo di impugnazione è lamentata la carenza di un’adeguata motivazione in punto di sussistenza sia dei gravi indizi di colpevolezza che delle esigenze cautelari atti a sostenere la conferma della misura cautelare a suo tempo disposta a carico dell’indagato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso proposto è infondato e, pertanto, lo stesso deve essere rigettato.
Ritiene il Collegio, stante la sua evidente pregiudizialità rispetto ai restanti motivi di impugnazione, di dovere prioritariamente esaminare il primo fra i motivi di ricorso esposti dalla difesa del NOME COGNOME.
Si tratta di motivo privo di pregio.
Con esso, infatti, il ricorrente si duole del fatto che il giudice del riesame non abbia dichiarato la nullità della ordinanza applicativa della misura cautelare disposta a carico del ricorrente, della quale non era stata predisposta immeditatamente al momento del suo confezionamento la traduzione in una lingua conosciuta dall’interessato, sebbene fosse, già in sede di convalida del fermo operato dalla Polizia di Stato, emerso che lo stesso, di nazionalità sudanese, non conosceva la lingua italiana, tanto che era stato nominato, per lo svolgimento della udienza finalizzata appunto alla convalida del fermo, un interprete per permettere a quello di partecipare adeguatamente alla udienza stessa.
Tanto considerato dal punto di vista della oggettiva analisi normativa, osserva il Collegio che, la disciplina in questione è stata interessata di un recentissimo (e per certi versi ancora in itinere) intervento chiarificatore delle Sezioni unite penali di questa Corte che, come è stato reso noto con la “notizia di decisione” n. 15 del 2023, hanno stabilito che “l’ordinanza di custodia cautelare personale emessa nei confronti di imputato o indagato alloglotto, ove sia già emerso che questi non conosca la lingua italiana, è affetta, in caso di mancata traduzione, da nullità ai sensi del combinato disposto degli artt. 143 e 292 cod. proc. pen.”.
Deve, in primo luogo, rilevarsi, sul punto ora controverso che l’art. 143 cod. proc. pen. – norma che, come è noto, disciplina a vantaggio degli imputati (ed ovviamente, stante la equiparazione prevista dall’art. 61 cod. proc. pen., anche degli indagati) che ignorano la lingua italiana, oltre al diritto che costoro hanno di farsi assistere gratuitamente da un interprete, l’obbligo gravante sull’autorità procedente di disporre la traduzione di determinati atti processuali in un idioma a loro noto – specifica il contenuto di tale obbligo chiarendo che lo stesso, finalizzato a permettere al soggetto in questione di potere compiutamente esercitare i diritti e le facoltà in cui si sostanzia il diritto di difesa, ha ad oggetto, fra l’altro, anche “i provvedimenti che prevedono misura cautelari personali”; la disposizione in questione, va peraltro precisato, non prevede che a questo obbligo debba ottemperarsi in via preventiva o necessariamente contestuale alla adozione del provvedimento, disponendo, piuttosto, che alla esecuzione di esso la autorità procedente debba provvedere “entro un termine congruo tale (…appunto…) da consentire l’esercizio” del diritto dì difesa. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Ora – quali che siano le pratiche conseguenze di tale pronunzia, i cui motivi, si precisa (a chiarimento della precedente riserva sulla condizione
ancora non pienamente definita della affermazione delle Sezioni unite della Corte) ancora non risultano, al momento della redazione della presente motivazione, depositate – si rileva che nel caso ora in esame (nel quale pacificamente la circostanza che l’indagato non fosse padrone della lingua italiana era emersa sin dalla fase di convalida del fermo operato in data 30 giugno 2023) secondo quanto incontestatamente riportato nel testo del provvedimento ora impugnato, la traduzione della ordinanza con la quale, il 3 luglio 2023, era stata applicata al ricorrente la misura cautelare custodiale, è intervenuta già in data 10 luglio 2023, quindi a distanza di 7 giorni dal momento in cui la misura è stata eseguita.
Sicché, secondo quanto riportato dal Tribunale del riesame, non si è di fronte ad una ipotesi di omessa traduzione ma solamente ad un caso di traduzione successiva all’applicazione della misura; si tratta, pertanto, di verificare se il termine entro il quale la operazione in questione è stata compiuta possa essere definito “congruo” in relazione alle esigenze di difesa dell’indagato.
Ad avviso del ricorrente, invece, la preventiva, quanto meno rispetto alla adozione della misura cautelare, consapevolezza della ignoranza da parte dell’attuale ricorrente della lingua italiana, avrebbe dovuto comportare la altrettanto preventiva o contestuale, e comunque non successiva, traduzione, quanto meno oraleida parte dell’interprete in precedenza intervenuto in ausilio dell’indagato, del provvedimento privativo della libertà personale da parte dell’organo giudiziario che lo ha disposto.
Ora, ritiene il Collegio che una tale ricostruzione sia, sostanzialmente, dimentica del tenore testuale della norma dallo stesso ricorrente richiamata.
Questa, infatti, nel precisare che la traduzione degli atti necessari per “l’esercizio dei diritti e della facoltà della difesa” – fra i quali vi è, come detto, l’atto con il quale sia stata disposta una misura cautelare personale – debba avvenire “entro un termine congruo” presuppone che tale traduzione possa essere successiva all’atto, essendo evidente che la decorrenza del termine in questione inizi, appunto, dall’adozione dell’atto medesimo.
Erra, pertanto, il ricorrente nel ritenere che sia viziato il provvedimento impugnato (e che abbia conseguentemente errato il Tribunale ch Potenza nel non avere rilevato in occasione dell’esame del riesame cautelare siffatto vizio) non essendo stato lo stesso oggetto di immediata traduzione, trattandosi di adempimento che il legislatore non ha imposto all’autorità procedente in termini di immediata attuazione.
Né, si aggiunge a conclusione del tema ora in esame, mette conto ora esaminare la correttezza della tesi, di cui parrebbe essersi fatto portatore il Tribunale lucano, secondo la quale l’unica conseguenza della eventuale ritardata traduzione sarebbe solamente la possibilità per il destinatario del provvedimento di impugnarlo nelle sedi opportune decorrendo il termine per la proposizione di tale impugnazione solo dal momento in cui la traduzione in questione viene portata alla sua conoscenza.
Se deve, infatti, riconoscersi che una tale impostazione, pare scarsamente convincente, in quanto avrebbe come possibile effetto quello di legittimare ingiustificatamente la compressione del diritto di difesa del prevenuto, la cui tutela non può essere assicurata solo dalla possibilità astratta di impugnare in un indeterminato futuro il provvedimento privativo della libertà, dovendo la stessa essere, invece, integrata dalla concreta e sollecita possibilità di farlo, non rimessa, pertanto, ad un adempimento la cui c:ollocazione nel tempo sia del tutto vaga, deve altresì osserarsi, quanto al caso che interessa, che la questione inerente al fatto se 7termine, di 7 giorni, nel quale nella specie è intervenuta la traduzione del provvedimento applicativo della misura cautelare possa intendersi, come imposto dal legislatore, “congruo” al fine cui esso è preposto, neppure è stata sollevata dal ricorrente, di tal che la stessa non deve essere oggetto di scrutinio formale, avendo la ricorrente difesa inteso propugnare esclusivamente la tesi della necessarietà della traduzione, sia pure orale, contestuale alla adozione del provvedimento.
Passando ai due restanti motivi di impugnazione, si osserva, relativamente al primo di questi, articolato nel senso della carenza di motivazione in ordine alla istanza di riqualificazione del fatto in provvisoria contestazione nell’ambito della lieve entità ai sensi del comma 5 dell’art. 73 del dPR n. 309 del 1990, che diversamente da quanto ritenuto dal ricorrente la motivazione della ordinanza impugnata, nella quale è evidenziato che la non lieve gravità del fatto viene, allo stato, desunta sia dalla non trascurabile entità ponderale della sostanza stupefacente rinvenuta (infatti solamente nella stanza direttamente occupata dal ricorrente sono stati rinvenuti tre panetti di hashish aventi un complessivo peso pari a 220 gr, mentre altre sostanze stupefacenti, anche di altra più micidiale tipologia, sono state rinvenute in altri ambienti, per ulteriori circa 100 gr), sia dalla circostanza – significativa dello svolgimento di un’attività né occasionale né di marginale rilievo – che presso l’abitazione occupata dal ricorrente e da un’altra persona era stato notato dalle forze dell’ordine un intenso andirivieni di soggetti dediti all’uso di sostanze stupefacenti; fattori questi che, nella complessiva valutazione che, secondo la
giurisprudenza di questa Corte, deve essere operata ai fini della qualificabilità della condotta in contestazione in termini di lieve entità (Corte di cassazione, Sezione IV penale, 18 dicembre 2023, n. 50257), svolgono plausibilmente un ruolo logicamente ostativo, in quanto sintomaticamente espressivi di un’attività di spaccio condotta secondo modalità di non minima offensività (Corte di cassazione, Sezione III penale, 4 giugno 2015, n. 23945).
Parimenti privo di pregio è il terzo motivo di impugnazione, riferito alla assenza di motivazione in punto di sussistenza di gravi indizi di colpevolezza riguardanti specificamente la posizione dell’odierno ricorrente; invero è fattore indubbiamente idoneo ad integrare l’esistenza dell’elemento, invece, contestato dalla ricorrente difesa, cioè il grave indizio di colpevolezza, il fatto che la sostanza stupefacente in questione fosse, in una sua ampia e maggioritaria parte custodita proprio nella stanza occupata dal ricorrente.
Giova, al proposito, ribadire che per gravi indizi di colpevolezza devono intendersi tutti quegli elementi a carico, di natura logica o rappresentativa che – contenendo in nuce tutti o soltanto alcuni degli elementi strutturali della corrispondente prova – non valgono, di per sé, a provare oltre ogni dubbio la responsabilità dell’indagato e tuttavia consentono, per la loro consistenza, di prevedere che, attraverso la futura acquisizione di ulteriori elementi, saranno idonei a dimostrare tale responsabilità, fondando nel frattempo una qualificata probabilità di colpevolezza (Corte di cessazione, Sezione III penale, 24 aprile 2019, n. 17527; ma già: Corte di cassazione, Sezioni unite penali, 1 agosto 1995, n. 11), qualificazione che, correttamente, il Tribunale di Potenza ha attribuito al dato dianzi indicato ed in sede di riesame cautelare plausibilmente valorizzato.
Analogamente per ciò che attiene alle esigenze cautelari, la cui ricorrenza è stata blandamente contestata dalla ricorrente difesa, ove si consideri che, quanto meno allo stato, la riscontrata articolazione, sia soggettiva che oggettiva, dell’attività di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti attribuita al ricorrente, il quale non risulta assegnato ad alcuna lecita attività sul territorio nazionale, costituisce un indice affidabile in ordine alla suscettibilità della stessa di essere reiterata ove il NOME COGNOME non fosse soggetto al costante controllo carcerario.
Il ricorso proposto deve, pertanto, essere rigettato ed il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali,
Stante la perdurante, in esito alla presente decisione, condizione di custodia cautelare applicabile al ricorrente, si manda alla cancelleria per le comunicazioni previste dall’art. 94, comma 1-ter, disp att. cod. proc. pen.
PER QUESTI MOTIVI
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen.
Così deciso in Roma il 28 novembre 2023
Il AVV_NOTAIO estensore
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