Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 18993 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 18993 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 13/02/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato ad AVEZZANO il 24/07/1975
avverso la sentenza del 06/06/2024 della CORTE di APPELLO di L’AQUILA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale COGNOME che ha concluso chiedendo emettersi declaratoria di inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza resa in data 6 giugno 2024 la Corte d’Appello di L’Aquila confermava la sentenza emessa il 22 marzo 2023 dal Tribunale di Sulmona, che giudicava in sede di rinvio dalla Corte di cassazione, con la quale l’imputato COGNOME NOME era stato dichiarato colpevole di reati di rapina pluriaggravata e lesioni personali aggravate e condannato alle pene di legge.
Avverso detta sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato, per il tramite del proprio difensore, chiedendone l’annullamento e articolando quattro motivi di doglianza.
2.1. Con il primo motivo deduceva nullità della sentenza in relazione all’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. e mancanza di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità del COGNOME per il reato di rapina.
Evidenziava, al riguardo, che lo stesso Tribunale aveva escluso che la parte offesa COGNOME NOME potesse essere considerato un semplice testimone, anche perché, da un lato, lo stesso era stato sentito con le forme di cui all’art. 210 cod. proc. pen., e, dall’altro, perchè il COGNOME aveva affermato, fin dal suo primo contatto con l’autorità giudiziaria, che la parte offesa gli aveva ceduto, in cambio di cento euro, un quantitativo di cocaina che si era rivelata di pessima qualità, ciò che aveva cagionato il disappunto dell’imputato che era sfociato in uno scontro fisico con il Bighencomer, ammesso dal COGNOME che aveva tuttavia negato di essersi impossessato di una collana che la vittima nell’occasione aveva al collo; di tal che, erano necessariamente sorti a carico di quest’ultima indizi di reità in ordine al reato di cui all’art. 73 del d.P.R. 309/1990, rispetto al quale sussisteva un indubbio collegamento probatorio con quello di rapina qui giudicato.
Evidenziava il ricorrente come tale questione fosse stata sollevata con l’atto di appello non al fine di eccepire l’inutilizzabilità della prova, bensì per osservare che la deposizione della parte offesa non poteva assumere valore autonomo di prova, necessitando di idonei riscontri, che nella specie si erano rivelati del tutto inadeguati.
Assumeva, in particolare, che non poteva costituire idoneo riscontro alle dichiarazioni accusatorie della parte offesa il fatto che, nell’immediatezza dei fatti, il COGNOME avesse chiesto aiuto alla madre e che quest’ultima avesse chiamato le Forze dell’Ordine affermando che il figlio era stato rapinato, considerato che la donna non aveva assistito al fatto e pertanto aveva riferito solo quello che aveva appreso dal figlio; che neppure poteva costituire idoneo riscontro di natura logica il ragionamento, seguito dal giudice del merito, secondo il quale la parte offesa non avrebbe avuto alcun interesse a calunniare l’imputato poiché fornendo la versione relativa alla cessione di cocaina si sarebbe esposto a gravi conseguenze, trattandosi di prova logica non pertinente al fatto in quanto generica e astratta; ed ancora che nemmeno la sussistenza del reato di lesioni poteva costituire un riscontro utile all’accusa, considerato che la commissione del detto reato riscontrava indistintamente sia la versione della vittima che quella dell’imputato, il quale aveva comunque ammesso di avere avuto uno scontro fisico con la parte offesa.
Concludeva sul punto affermando che tali doglianze erano state rassegnate con l’atto di appello e che la Corte territoriale non aveva motivato al riguardo, in tal modo integrando il dedotto vizio di motivazione.
Assumeva ulteriormente che neppure la sentenza di condanna del correo COGNOME COGNOME avente ad oggetto il medesimo episodio criminoso e passata in giudicato in ragione della mancata impugnazione da parte dello COGNOME, poteva costituire idoneo riscontro alle dichiarazioni accusatorie della parte offesa, considerato che erano assenti nel processo elemento di conferma al contenuto della detta sentenza.
Deduceva, infine, che erano assenti anche elementi di riscontro individualizzanti, ossia riferibili in maniera specifica alla posizione del COGNOME, che doveva considerarsi ben distinta da quella del correo COGNOME avuto riguardo alle modalità del fatto come riferite dalla vittima, che aveva evidenziato una significativa cesura temporale fra l’azione del ricorrente e quella del correo COGNOME il quale – a dire del COGNOME – gli aveva strappato dal collo la catenina.
2.2. Con il secondo motivo deduceva nullità della sentenza in relazione all’art. 62, n. 4), cod. pen. nonché difetto di motivazione in ordine alla mancata concessione della circostanza attenuante del danno patrimoniale di particolare tenuità, assumendo che nessun degli elementi acquisiti agli atti consentiva di ritenere che la catenina oggetto della rapina fosse effettivamente d’oro.
2.3. Con il terzo motivo deduceva nullità della sentenza in relazione all’art. 99 cod. pen. nonché mancanza di motivazione in ordine alla ritenuta recidiva, assumendo che la Corte territoriale non aveva esplicitato le ragioni per le quali aveva ritenuto che i precedenti penali a carico dell’imputato fossero espressivi di una sua maggiore pericolosità.
2.4. Con il quarto motivo deduceva nullità della sentenza in relazione all’art. 62-bis cod. pen. nonché mancanza di motivazione in relazione alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, osservando al riguardo che la Corte d’Appello si era limitata a richiamare, sul punto, l’assenza di elementi da valutarsi positivamente per l’imputato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo è inammissibile per aspecificità.
Assume la difesa che erano sorti a carico della persona offesa indizi di reità in ordine al reato di cui all’art. 73 del d.P.R. n. 309/1990, probatoriamente collegato a quello di rapina qui giudicato, così che, a mente dell’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., le dichiarazioni rese dalla medesima necessitavano di elementi probatori di riscontro che ne confermassero l’attendibilità.
La sentenza impugnata rileva come, pur non sussistendo i presupposti per esaminare il COGNOME nelle forme dell’art. 210 cod. proc. pen. non essendovi al momento dell’assunzione pendenza di procedimento connesso o collegato e non essendo sufficiente l’astratta possibilità che il soggetto da sentire possa assumere la veste processuale di coindagato (tant’è che nel primo giudizio in primo grado lo stesso venne sentito come testimone), lo stesso in sede di rinvio è stato ugualmente esaminato come imputato in procedimento connesso. La circostanza non ha per nulla reso più debole il compendio probatorio a carico del ricorrente (anzi, al contrario, deve ritenersi che lo abbia rafforzato) e, pur nella superfluità della raccolta di riscontri alla versione de COGNOME in ragione della ritenuta ricorrenza di una fattispecie sussumibile alla testimonianza semplice, gli altri elementi di prova ugualmente acquisiti hanno consentito di verificare la piena attendibilità del dichiarante. In tal senso, la Corte territoriale ha dapprima ritenuto pienamente credibile il COGNOME stante la logicità, la coerenza e l’assenza di contraddizioni rispetto a quanto precedentemente dichiarato; ma poi, ha ritenuto quel narrato ampiamente riscontrato ex art. 192 cod. proc. pen. dalle ammissioni dell’imputato e dagli ulteriori elementi a carico dello stesso, costituiti dalle testimonianze rese dall’Ispettore di Pubblica Sicurezza NOME NOME e dalla madre del COGNOME (cui quest’ultimo, chiedendo aiuto, raccontò l’accaduto), dal rinvenimento sul luogo del delitto di una ciabatta simile a quella indossata dall’imputato poco prima dell’aggressione, dalle riprese video della colluttazione effettuate dalle telecamere di sorveglianza allocate sul luogo del reato, dal fatto che la vittima presentava escoriazioni sul collo compatibili con lo strappo della collana, che peraltro era stata pure ripresa dalle telecamere al collo della parte offesa. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Fermo quanto precede, il ricorrente non si confronta con la motivazione né tantomeno affronta il tema della cd. prova di resistenza sia sotto il profilo della presunta non sufficienza (per la condanna) del narrato del propalante-persona offesa ovvero della – alternativa – non sufficienza degli altri elementi di prova che, come detto, lo hanno precisamente riscontrato.
In tal senso, occorre dare continuità al principio assolutamente consolidato secondo cui, nell’ipotesi in cui con il ricorso per cassazione si lamenti l’inutilizzabilità di un elemento a carico, il motivo di impugnazione deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l’incidenza dell’eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta “prova di resistenza”, in quanto gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l’identico convincimento (v., ex plurimis, Sez. 3, n. 3207 del 02/10/2014, dep. 2015, Calabrese, Rv. 262011; Sez. 6, n. 18764 del 05/02/2014, Barilari, Rv. 259452; Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, La Gumina, Rv. 269218).
In ogni caso, deve peraltro osservarsi come, nel corso del giudizio di merito, non sia stato in alcun modo provato che la parte offesa fosse mai stata sottoposta ad indagine per il reato in materia di stupefacenti ipotizzato dal ricorrente né che potesse – al di là della mancata iscrizione – concretamente ipotizzarsi a carico della stessa l’assunzione della qualità di imputato di reato connesso o collegato, sicché la persona offesa del reato per cui si procede nel presente processo non poteva che assumere la veste di testimone puro (v., in argomento, Sez. U, n. 15208 del 25/02/2010, Mills, Rv. 246584 – 01, che ha statuito che, in tema di prova dichiarativa, allorché venga in rilievo la veste che può assumere il dichiarante, spetta al giudice il potere di verificare in termini sostanziali, e quindi al di là del riscontro di indici formali, come l’eventuale già intervenuta iscrizione nominativa nel registro delle notizie di reato, l’attribuibilità allo stesso della qualità di indagato nel momento in cui le dichiarazioni stesse vengano rese, e il relativo accertamento si sottrae, se congruamente motivato, al sindacato di legittimità; v., successivamente nello stesso senso, Sez. 2, n. 51840 del 16/10/2013, COGNOME, Rv. 258069; Sez. 2, n. 8402 del 17/02/2016, COGNOME, Rv. 267729; peraltro, con tesi più restrittiva, v., Sez. 5, n. 24300 del 19/03/2015, COGNOME, Rv. 263908 e Sez. 5, n. 29357 del 22/03/2019, B., Rv. 276856, secondo cui, a differenza del pubblico ministero, il giudice non può attribuire ad alcuno, di propria iniziativa, la qualità di imputato o di persona sottoposta ad indagini, dovendo solo verificare che essa non sia già stata formalmente assunta, sussistendo in tal caso l’incompatibilità con l’ufficio di testimone: pertanto, il riferimento alla posizione sostanziale del dichiarante non esaurisce la verifica dei presupposti di Corte di Cassazione – copia non ufficiale
applicabilità dell’art. 63 cod. proc. pen., verifica che si estende alla necessità della successiva formale instaurazione del procedimento a suo carico).
Il secondo motivo è manifestamente infondato e, pertanto, inammissibile.
Deve, in proposito, osservarsi che, secondo il consolidato orientamento del Giudice di legittimità, di recente espresso anche a Sezioni Unite, ai fini della configurabilità, in relazione al delitto di rapina, della circostanza attenuante del danno di speciale tenuità, non è sufficiente che il bene mobile sottratto sia di modestissimo valore economico, ma occorre valutare anche gli effetti dannosi connessi alla lesione della persona contro la quale è stata esercitata la violenza o la minaccia, attesa la natura plurioffensiva del delitto “de quo”, che lede, oltre al patrimonio, anche la libertà e l’integrità fisica e morale del soggetto aggredito per la realizzazione del profitto, sicché può farsi luogo all’applicazione della predetta attenuante solo nel caso in cui sia di speciale tenuità la valutazione complessiva dei pregiudizi arrecati ad entrambi i beni tutelati (in tal senso, Sez. U, n. 42124 del 27/06/2024, Nafi, Rv. 287095 – 02).
Osserva il Collegio, in applicazione del suddetto principio, che, ai fini della concessione dell’invocata attenuante, perde di rilievo la mera considerazione relativa al valore della collana d’oro sottratta, dovendosi considerare, ai fini dell’applicabilità della circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 4), cod. pen. anche gli effetti dannosi connessi alla lesione personale patita dalla vittima, aspetto rispetto al quale, nell’argomentare la doglianza, il ricorrente nulla ha dedotto.
Il terzo motivo è inammissibile in quanto manifestamente infondato.
Si deve invero considerare che la Corte territoriale ha reso una motivazione immune da vizi in relazione all’applicazione della recidiva, effettuando un richiamo del tutto congruo ai precedenti penali, anche recenti e specifici, gravanti sull’imputato, circostanza che ha ritenuto “indice di una personalità violenta ed incline all’aggressione dell’altrui patrimonio”, e tale da far apparire il fatto come “manifestazione di accresciuta pericolosità”.
È inammissibile, in quanto manifestamente infondato, anche il quarto motivo, dovendosi considerare che, nel caso in cui la richiesta dell’imputato di riconoscimento delle attenuanti generiche non specifica le circostanze di fatto
che fondano l’istanza, l’onere di motivazione del diniego dell’attenuante è
soddisfatto con il mero richiamo da parte del giudice alla assenza di elementi positivi che possono giustificare la concessione del
beneficio (v. in tal senso, espressione di un orientamento consolidato,
Sez. 3, n. 54179 del 17/07/2018, D., Rv. 275440 – 01).
Nella specie la difesa, con l’atto di appello, non ha specificato gli elementi di fatto posti a fondamento dell’istanza di concessione delle circostanze attenuanti
generiche, avendo effettuato solo un generico richiamo all’esigenza di
“modulare la pena”
e alla circostanza che il ruolo del ricorrente sarebbe stato
“subalterno e di mero supporto”
a quello del correo COGNOME separatamente giudicato, omettendo tuttavia di indicare le specifiche circostanze di fatto in
forza delle quali poter ritenere tale ruolo subalterno.
5. Alla stregua di tali rilievi il ricorso deve, dunque, essere dichiarato inammissibile; il ricorrente deve, pertanto, essere condannato, ai sensi dell’art.
616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento.
In virtù delle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, deve, altresì, disporsi che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di tremila euro in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 13/02/2025