Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 12965 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 12965 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 18/01/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME, nato in Romania il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 18/01/2023 della Corte d’appello di Roma visti gli atti, il provvedimento impugnato, il ricorso e la memoria che era stata depositata dall’AVV_NOTAIO, difensore di NOME, per la camera di consiglio del 21/11/2023;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME, la quale ha concluso chiedendo che il ricorso sia rigettato;
lette le memorie difensive/conclusioni dell’AVV_NOTAIO, difensore di NOME, il quale, nel prendere atto delle conclusioni del Pubblico Ministero, ha insistito per l’accoglimento del ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 18/01/2023, la Corte d’appello di Roma, in parziale riforma della sentenza del 11/09/2018 del Tribunale di Viterbo: a) dichiarava non doversi procedere nei confronti di NOME COGNOME e di NOME COGNOME per i reati di lesioni aggravate in concorso di cui al capo a) dell’inn,Dutazione e di furto in abitazione aggravato in concorso di cui al capo b) dell’imputazione perché estinti
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per prescrizione; b) confermava la condanna degli stessi COGNOME e COGNOME per il reato di rapina aggravata (dall’avere commesso la violenza o minaccia con armi) in concorso di cui al capo a) dell’imputazione; c) rideterminava la pena irrogata ai due imputati per quest’ultimo reato in due anni di reclusione ed C 600,00 di multa per l’COGNOME e in tre anni di reclusione ed C 900,00 di multa per il COGNOME.
Secondo il capo a) dell’imputazione, i suddetti reati di rapina aggravata e di lesioni aggravate in concorso erano stati contestati ai due imputati, «poiché, in concorso tra loro, per procurarsi un ingiusto profitto, con minaccia consistita nel puntare un coltello alla gola di COGNOME NOME, nel l’ari° scendere dalla macchina nel farlo sdraiare a terra unitamente a COGNOME NOME e COGNOME NOME e nel prenderli tutti a calci’ dopo aver anche ferito al braccio sinistro lo stesso NOME che tentava di difendersi procurandogli una lesione personale giudicata guaribile in giorni 10, si facevano consegnare dai tre, impossessandosi, i loro telefoni cellulari, una collana, un brac:ciale e un anello in oro, la somma di Euro 1000,00, nonché l’autovettura BMW targata TARGA_VEICOLO di proprietà di NOME».
Avverso l’indicata sentenza del 18/0112023 della Corte d’appello di Roma, ha proposto ricorso per cassazione, per il tramite del proprio difensore, NOME COGNOME, affidato a tre motivi.
2.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta: «nosservanza o erronea applicazione della legge penale – art. 606 lett. b) Nullità della Sentenza per violazione dell’art. 525 c.p.p. 179 cpp – Sentenza fondata su prova non utilizzabile – violazione del contraddittorio – violazione dell’art. 6 cedu».
Il ricorrente premette in fatto che il collegio del Tribunale di Viterbo che, 11/09/2018, ha deliberato la sentenza, era diversamente composto rispetto al collegio che, il 09/04/2014, aveva assunto la testimonianza della persona offesa COGNOME, che era stata utilizzata in modo significativo per la decisione, e che, nelle udienze a decorrere da quella del 10/02/2016 e fino a quella del 11/09/2018, il Tribunale di Viterbo, nella sua mutata composizione, non aveva nuovamente esaminato il COGNOME né aveva «emesso provvedimenti che consentissero la lettura delle dichiarazioni del COGNOME ai fini della decisione».
Ciò premesso, il ricorrente contesta la motivazione cori la quale la Corte d’appello di Roma ha rigettato il suo motivo di appello con il quale, alla luce di quanto premesso, aveva lamentato la violazione dell’art. 525 cod. proc. pen. e dell’art. 6 CEDU; motivazione secondo cui, posto l’indicato mutamento del collegio: «all’udienza del 10.2.2016, non avendo dato la difesa il consenso alla rinnovazione degli atti, si procedeva a citare nuovamente il teste, il quale però risultava irreperibile nei luoghi risultanti dagli atti. Per tale motivo il nuovo Colle
ritualmente acquisiva le precedenti dichiarazioni dibattimentali e pronunciava sentenza».
A proposito di tale motivazione, il ricorrente deduce che la Corte d’appello di Roma «non specificava le ragioni per cui il testimone dovesse ritenersi irreperibile, a quale udienza il Giudice di prime cure, in diversa composizione, ne avesse rilevato l’assoluta irreperibilità e, soprattutto, perché non sia stata data lettu integrale o parziale delle dichiarazioni dibattimentali, rese dal testimone dello stesso procedimento, dinanzi al giudice in diversa composizione».
2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta: «nosservanza o erronea applicazione della legge penale – art. 606 lett. b) Violazione dell’art. 512 c.p.p., articolo 111 Cost. commi 3 e 4, articolo 6, comma 3, CEDU, con riferimento all’illegittimità dell’acquisizione e della conseguente utilizzazione processuale della denuncia-querela – Violazione di legge – prova abnorme».
2.2.1. Sotto un primo profilo, il ricorrente contesta la motivazione con la quale la Corte d’appello di Roma ha confermato la legittimità dell’acquisizione – che era stata disposta dal Tribunale di Viterbo, ai sensi dell’art. 512 cod. proc. pen., nel corso dell’udienza del 11/09/2018 – e dell’utilizzazione ai fini della decisione della querela che era stata sporta, il 12/01/2010, da NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME; motivazione secondo cui: «uanto alla mancata deposizione delle altre persone offese, dagli atti emerge che le stesse siano state ritualmente ricercate nei luoghi noti (trattasi di soggetti residenti Italia) e che dunque anche la denuncia-querela sia stata ritualmente acquisita».
Il ricorrente lamenta che l’acquisizione e utilizzazione della suddetta denuncia-querela – che era stata utilizzata in modo significativo ai fini della decisione – sarebbe stata disposta in assenza dei presupposti a ciò legittimanti.
Ad avviso del ricorrente, la Corte d’appello di Roma, come già il Tribunale di Viterbo, avrebbe omesso di indicare puntualmente le ragioni della sopravvenuta oggettiva impossibilità di reperire il COGNOME e il COGNOME, entrambi residenti in Italia o, comunque, in ambito comunitario.
L’COGNOME espone che la verifica dell’irreperibilità, che consente la lettura delle dichiarazioni predibattinnentali, «non può chiaramente fermarsi ad una irreperibilità nei luoghi noti o a una mancata presenza», ma occorre che il testimone «sia stato correttamente citato nelle forme imposte dalle peculiarità del caso, tra le quali devono eventualmente comprendersi anche quelle della rogatoria internazionale», e che, qualora la notificazione non si sia potuta effettuare perché lo stesso testimone non è stato reperito all’indirizzo in cui la stessa è stata effettuata, «siano compiuti tutti gli accertamenti necessari ed opportuni per potere individuare l’attuale domicilio, non essendo a tal fine sufficienti verifich anagrafiche formali, analoghe a quelle effettuate nel caso in questione»; con la
conseguenza che «non possono essere ritenuti sufficienti la mancata presentazione del testimone, la mera mancata notificazione e le risultanze anagrafiche, essendo, invece, necessarie rigorose e accurate ricerche – se del caso effettuate anche in campo internazionale – tali da consentire di affermare con certezza l’irreperibilità del teste e l’impossibilità del suo esame in contraddittorio Alla luce di ciò, le ricerche che erano state effettuate nel caso di specie dal pubblico ministero, nei termini che erano attestati nel verbale di vane ricerche, richiamati dal Tribunale di Viterbo e anche dalla Corte d’appello di Roma, non potrebbero essere ritenute sufficienti, «anche alla luce della condizione comunitaria di cittadini rumeni dei due testimoni».
2.2.2. Sotto un secondo profilo, il ricorrente deduce l’inutilizzabilità dell denuncia-querela anche per il fatto che essa era stata firmata congiuntamente da tutti e tre i denuncianti, atteso che «risulta praticamente impossibile separare quanto dichiarato dai tre singolarmente».
2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta: «iolazione dell’art. 606 comma 1 lett. e) per aver la sentenza impugnata omesso di motivare o, comunque, per avere illogicamente e contraddittoriamente motivato, con vizio risultante dal testo della motivazione, ricavabile dal testo del provvedimento impugnato – Travisamento della prova».
2.3.1. Sotto un primo profilo, il ricorrente rappresenta che il convincimento espresso dalla Corte d’appello di Roma circa l’identificazione dell’NOME quale autore del reato si porrebbe in contrasto, anzitutto, con il cosiddetto giudicato cautelare dell’ordinanza del 05/08/2011 del Tribunale di Roma, che aveva annullato l’ordinanza che aveva applicato allo stesso NOME la misura della custodia cautelare in carcere con la motivazione che: «uttavia deve rilevarsi che gli elementi a carico non sono di per sé sufficienti a sostenere l’omessa procedura di una corretta individuazione dell’indagato, posto che l’NOME non è l’unico pregiudicato di nazionalità rumena presente sul territorio Italiano».
Ulteriori dubbi sull’identificazione dell’NOME discenderebbero dalle illogicità e contraddizioni che emergerebbero dal confronto tra la versione dei fatti resa dalle tre persone offese e quella resa dal testimone della polizia giudiziaria NOME COGNOME. Ciò in quanto: il COGNOME aveva affermato che i due imputati erano stati identificati dalle persone offese dopo che erano state fatte loro vedere «le effigi» e dopo che le stesse persone offese avevano fornito i nomi e i cognomi degli stessi imputati (identificazione fotografica che, peraltro, avveniva senza la redazione di un verbale e, comunque, senza una previa descrizione fisica dei due imputati); il COGNOME, invece, alla domanda del pubblico ministero se fossero stati loro (cioè le tre persone offese) a indicare i nomi dei due imputati ai Carabinieri, aveva risposto: «llora, io non c’ho indicato perché non lo conoscevo
… loro se hanno indicato, non so», e alla successiva domanda se i Carabinieri gli avessero fatto vedere le fotografie dei due imputati, aveva risposto: «A me no, non mi hanno». Il COGNOME aveva inoltre dichiarato di non essere in grado, «adesso» (al momento del suo esame dibattimentale) di riconoscere l’NOME, perché «er me era la prima volta che l’ho visto». Tali dichiarazioni dibattimentali del COGNOME contraddirebbero sia le dichiarazioni del testimone COGNOME sia quanto era stato affermato dallo stesso COGNOME nella denuncia-querela.
L’incertezza in ordine all’identificazione dell’NOME discenderebbe anche dal fatto che il testimone COGNOME, in dibattimento, aveva fornito una descrizione dello stesso COGNOME («era piccolo, basso, non era alto») non corrispondente alla realtà, in quanto l’imputato è molto alto e magro. Inoltre, l’COGNOME «non veniva mai identificato nel luogo ove avveniva il furto, o durante il tragitto (anche tramite il riscontro di celle telefoniche), né trovato in possesso alcun oggetto proveniente dal reato».
Da quanto esposto discenderebbe che la Corte d’appello di Roma avrebbe manifestamente travisato la prova.
2.3.2. Sotto un secondo profilo, il ricorrente contestai la valutazione di attendibilità del racconto dei fatti che era stato fornito dalle persone offese sostenendo che tale valutazione sarebbe il frutto di un travisamento delle «prove acquisite nel processo».
A tale proposto, il ricorrente rappresenta che: a) qualora egli «avesse realmente partecipato e, comunque, conosciuto le tre P.O. non avrebbe avuto alcun senso logico (con la certezza di essere da questi riconosciuto) riferire loro le sue generalità»; b) «appare difficilmente credibile, oltre che irragionevole, che i due imputati, amici delle tre P.O., dopo aver bevuto per circa due o tre ore preordinassero la condotta di cui alle fattispecie incriminatrici ex artt. 628, 583 e 585 c.p., nell’assoluta certezza di essere successivamente denunciati»; c) i fatti sarebbero avvenuti nel mese di gennaio e non di luglio/agosto, come erroneamente riferito dal COGNOME; cl) sarebbe «inverosimile» quanto affermato dalle persone offese che l’automobile sulla quale esse si trovavano sarebbe stata bloccata dal COGNOME, il quale avrebbe sfilato la chiave dal cruscotto approfittando del fatto che il finestrino del lato guida era abbassato, nonostante le temperature invernali, facendo, perciò, arrestare la marcia del mezzo, atteso che «tutto ciò avveniva, mentre l’COGNOME, che in precedenza aveva infranto la finestra, era nel casolare e, soprattutto, senza che nessuna delle tre persone offese ponesse in essere la benché minima reazione: si rammenti che in tale frangente non era ancora avvenuta l’asserita consegna del coltello da parte dell’COGNOME». Vi sarebbero, poi, evidenti illogicità «con riferimento ai tempi dei presunti fatt delittuosi», atteso che «non si comprende come mai le tre P.O. che si trovavano
nell’autovettura (che, a loro dire, erano contrarie a ciò che stava accadendo) anziché allontanarsi immediatamente dopo aver visto che l’NOME stava forzando una persiana in metallo, aspettavano che lo stesso infrangesse il vetro della finestra, si introducesse nel casolare (per rimanervi non si sa quanto tempo e soprattutto per fare cosa, considerato la sedia bruciata). Curiosa è, poi, la circostanza secondo cui l’NOME si sarebbe introdotto nel casolare senza asportare alcunché, limitandosi a sottrarre un coltello da cucina con cui, guarda caso, veniva minacciata e ferita la P.0.».
La motivazione della sentenza impugnata sarebbe infine viziata anche là dove la Corte d’appello di Roma ha escluso qualsiasi intento calunnioso delle persone offese e ha valorizzato la mancata volontà dell’imputai:o di fornire una ricostruzione alternativa dei fatti, atteso che: a) egli si era in realtà sottoposto interrogatorio, rispondendo alle domande; b) tutti i protagonisti della vicenda erano di nazionalità rumena, «perciò non si può certamente escludere che si sia trattato di un fatto diverso ovvero, di un litigio tra connazionali finito in malo modo con dei rilievi penali anche a carico delle persone offese».
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo è manifestamente infondato.
Nel caso di rinnovazione del dibattimento a causa del mutamento della persona del giudice monocratico o della composizione del giudice collegiale, la testimonianza raccolta dal primo giudice non è utilizzabile per la decisione mediante semplice lettura, senza ripetere l’esame del dichiarante, quando questo possa avere luogo e sia stato richiesto da una delle parti. Peraltro, allorquando, nel corso del dibattimento rinnovato a causa del mutamento del giudice, non è possibile ripetere l’audizione del teste perché questi non è stato reperito, il giudice può comunque disporre, ai sensi dell’art. 511, comma 2, cod. proc. pen., la lettura delle dichiarazioni precedentemente raccolte nel contraddittorio delle parti e inserite legittimamente negli atti dibattimentali (Sez. 5, n. 230:15 del 09/03/2017, Mellano, Rv. 270140-01).
Pertanto, nel caso di specie, poiché la rinnovazione dell’esame del COGNOME non aveva avuto oggettivamente luogo per il mancato reperimento di tale testimone, ne discende che era ammessa l’utilizzabilità, mediante lettura del relativo verbale, delle dichiarazioni che erano state rese dallo stesso COGNOME davanti al precedente collegio, le quali erano state assunte nel contraddittorio delle parti e facevano legittimamente parte integrante del fascicolo per il dibattimento.
Si deve altresì osservare che: a) tale lettura ben poteva essere sostituita, ai sensi del comma 5 dell’art. 511 cod. proc. pen., dall’indicazione specifica del
verbale delle dichiarazioni che erano stare rese dal COGNOME davanti al precedente collegio quale atto utilizzabile ai fini della decisione; b) in ogni caso come è stato chiarito dalla Corte di cassazione, la violazione dell’obbligo sancito dall’art. 511 cod. proc. pen. di dare lettura degli atti contenuti nel fascicolo per dibattimento ovvero di indicare quelli utilizzabili ai fini della decisione non è causa di nullità, non essendo specificamente sanzionata in tale senso e non essendo inquadrabile in alcuna delle cause generali di nullità previste dall’art. 178 cod. proc. pen., né può dare luogo a inutilizzabilità, poiché sia l’art. 191 che l’art. 52 cod. proc. pen. sanzionano l’illegittimità dell’acquisizione della prova e, quindi, vizi di un’attività che logicamente e cronologicamente si distingue e precede quella della lettura o dell’indicazione (Sez. 5, n. 40374 del 14/09/2022, COGNOME, Rv. 283657-01; Sez. 3, n. 45305 del 17/10/2013, COGNOME, Rv. 257630-01).
Il secondo motivo è manifestamente infondato sotto entrambi i profili in cui è articolato.
2.1. Quanto al suo primo profilo, si deve rammentare che, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, in tema di letture di atti ex art. 512 cod. proc. pen., l’irreperibilità del testimone integra il presupposto della sopravvenuta impossibilità di assunzione della prova in dibattimento nel caso di effettiva impossibilità di notificare la citazione a comparire in giudizio, ovvero quando risulti impossibile assicurare la presenza del teste in udienza, a seguito dell’infruttuoso esperimento di tutti gli adempimenti a tale fine imposti dalla legge (Sez. 6, n. 35579 del 29/04/2021, C., Rv. 282182-01; Sez. 6, n. 50994 del 26/03/2019, D., Rv. 278195-01).
Nel caso di specie, dall’esame degli atti – doveroso quando sia denunciato un error in procedendo, rispetto al quale la Corte di cassazione è giudice anche del fatto – risulta che né il COGNOME né il COGNOME furono mai raggiunti da una citazione a comparire in giudizio, in ragione della loro irreperibilità, attestata d verbale di vane ricerche in atti dal quale emergeva: a) quanto al COGNOME, che egli, già domiciliato in Amaseno (FR) presso il COGNOME, si era trasferito nella zona di Firenze o di Prato a un indirizzo sconosciuto; b) quanto al COGNOME, che egli risultava essersi trasferito da Amaseno in Inghilterra, per motivi di lavoro, a un indirizzo imprecisato.
A fronte di ciò, il ricorrente si è limitato a contestare genericamente la ritenuta irreperibilità dei due soggetti, senza indicare alcuna specifica circostanza di segno contrario che, in ipotesi, fosse emersa dagli atti.
Quanto all’invocato obbligo di effettuare ricerche anche all’estero, si deve osservare che, come è stato chiarito dalla Corte di cassazione, lo stesso va necessariamente correlato all’esistenza di precisi elementi di collegamento tra il soggetto e il paese di origine (o altro paese straniero), desumibili dagli atti o
allegati dall’interessato, in assenza dei quali le suddette ricerche avrebbero carattere esplorativo e si risolverebbero, in mancanza di qualsiasi altro elemento, in un’attivazione meramente formale di difficile realizzazione e, pertanto, non esigibile secondo canoni di ragionevolezza (Sez. 3, n. 12927 del 23/03/2022, P., Rv. 283129-01).
Pertanto, essendo impossibile la testimonianza degli autori della denunciaquerela, ai sensi dell’art. 512 cod. proc. pen., la lettura della stessa era consentita anche per utilizzarne il contenuto ai fini della prova del fatto (e non solo per accertare l’esistenza della condizione di procedibilità), atteso che fra gli att «assunti» dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero rientrano anche quelli semplicemente «ricevuti» da tali autorità (Sez. 2, n. 51416 del 04/12/2013, Anceschi, Rv. 258064-01).
2.2. Quanto al secondo profilo del motivo, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, si deve ritenere che il fatto che la suddetta denuncia-querela sia stata firmata congiuntamente dai tre denuncianti non rende tale atto inutilizzabile, atteso che tale modalità di ricezione della denuncia-querela non risulta vietata dalla legge nel caso in cui – come, evidentemente, nella specie – i fatti denunciati siano riferiti dai firmatari dell’atto in modo del tutto conforme.
Il terzo motivo è manifestamente infondato sotto il primo dei due profili in cui è articolato mentre non è consentito sotto il secondo di tali profili.
3.1. Quanto alla manifesta infondatezza del primo profilo, relativo all’identificazione dell’NOME, è sufficiente rilevare che, come è stato evidenziato sia dalla sentenza di primo grado (pag. 7) sia dalla sentenza impugnata (pag. 6), l’NOME era personalmente conosciuto sia dal COGNOME sia dal COGNOME: circostanza, questa, con la quale il ricorrente ha peraltro del tutto omesso di confrontarsi, che è evidentemente tale – come, appunto, è stato concordemente evidenziato dai giudici di merito – da fugare ogni dubbio in ordine all’identificazione dell’imputato quale autore del fatto.
3.2. Quanto al secondo profilo del motivo, la sentenza impugnata, aderendo alle valutazioni del primo giudice, ha in effetti applicato il principio, affermato dal costante giurisprudenza di legittimità, secondo il quale occorre effettuare un rigoroso riscontro della credibilità soggettiva e oggettiva della persona offesa, specie se costituita parte civile, accertando l’assenza di elementi che facciano dubitare della sua obiettività, senza la necessità, però, della presenza di riscontri esterni, stabilita dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., per il dichiarante coinvolto nel fatto (ex plurimis: Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, RAGIONE_SOCIALE, Rv. 253214-01; Sez. 5, n. 12920 del 13/02/2020, COGNOME, Rv. 279070-01; Sez. 5, n. 21135 del 26/03/2019, S., Rv. 275312-01; Sez. 2, n. 41751 del 04/07/2018,
COGNOME, Rv. 274489-01; Sez. 2, n. 43278 del 24/09/2015, COGNOME, Rv. 265104-01; Sez. 5, n. 1666 del 08/07/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 26173001).
Le Sezioni Unite hanno anche statuito che «la valutazione della credibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale fornito dal giudice e non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni» (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, cit.; più di recente: Sez. 4, n. 10153 del 11/02/2020, C., Rv. 278609-01).
Quest’ultima circostanza appare del tutto assente nel caso di specie, nel quale, peraltro, come è stato sottolineato dalla Corte d’appello di Roma, le dichiarazioni delle persone offese avevano anche trovato dei riscontri in quanto era stato dichiarato dai testimoni della polizia giudiziaria, i quali, intervenuti posto, avevano in proposito riferito che: a) il COGNOME presentava una vistosa ferita da arma da taglio all’avambraccio; b) per terra, veniva rinvenuto un coltello con la lama intrisa di sangue; c) sempre per terra, veniva rinvenuta una carta SIM intestata al COGNOME; d) il casolare presentava il vetro rotto; e) le tre person offese si trovavano a piedi nonostante fossero in aperta campagna e lontane dai propri luoghi di rispettiva residenza.
Ulteriori conferme venivano tratte sia dal fatto che l’auto BMW del COGNOME veniva reperita incidentata il giorno successivo a Roma sia dal fatto che il proprietario del casolare aveva dichiarato che proprio la notte dei fatti aveva avuto luogo un’intrusione di terzi attraverso l’effrazione di un vetro.
A fronte di ciò, le doglianze del ricorrente appaiono chiaramente dirette a ottenere una rivalutazione dell’attendibilità delle dichiarazioni delle tre persone offese e, più in generale, del compendio probatorio, il che, in assenza di effettive illogicità manifeste della motivazione con la quale le stesse dichiarazioni sono state recepite e ne sono stati valutati i riscontri, non è consentito fare in sede d legittimità.
In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento nonché, essendo ravvisabili profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 18/01/2024.