Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 23163 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 23163 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 16/05/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME COGNOME nato a Novara il 16/05/1951
avverso la sentenza del 18/11/2024 della CORTE di APPELLO di TORINO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; sentita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso; lette le conclusioni del difensore della parte civile, avv. NOME COGNOME che ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso e comunque, dichiarati infondati i motivi proposti, di confermare la sentenza impugnata, con condanna del ricorrente alla rifusione delle spese di rappresentanza in favore della parte civile da liquidarsi secondo equità;
lette le conclusioni del difensore dell’imputato, avv. NOME COGNOME che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Torino ha confermato, anche agli effetti civili, la condanna di NOME COGNOME per avere formato un
testamento olografo, apparentemente manoscritto da NOME COGNOME deceduto il 30 aprile 2018, al fine di recare a sé, come unico erede universale, un vantaggio derivante dall’ereditare l’intero asse patrimoniale di valore stimato in circa 650mila euro.
In sintesi, dopo la morte di NOME COGNOME sono state pubblicate le ultime volontà dell’anziano, affidate a un primo testamento olografo risalente al 2002 in cui veniva nominata erede universale la ex convivente NOME COGNOME e a un secondo testamento olografo, recante la data del 6 aprile 2018, che istituiva erede universale l’amico NOME COGNOME; questo secondo atto si trovava nelle mani di COGNOME e veniva pubblicato il 19 luglio 2018.
COGNOME aveva vergato anche due atti di revoca del primo testamento in favore della ex convivente, ispirati dal fine del legame con la beneficiaria; uno di tali atti era stato affidato all’amico NOME COGNOME il quale, come NOME COGNOME aveva raccolto le confidenze di COGNOME determinato a revocare il testamento olografo già redatto in favore della ex convivente per dare corso, in caso di decesso, alla successione legittima in favore dell’unica erede, la cugina NOME COGNOME costituitasi parte civile nel presente processo.
I giudici di merito – in conformità degli esiti delle consulenze grafologiche eseguite nel parallelo procedimento civili e nel presente processo- hanno ritenuto provata la falsità del testamento del 6 aprile 2018 in favore dell’COGNOME, in ragione della incompatibilità della grafia con la ridotta capacità grafica motoria di COGNOME, persona di 86 anni. I medesimi giudici hanno ricondotto la responsabilità del falso al beneficiario NOME COGNOME.
Avverso la sentenza ricorre l’imputato, tramite il difensore, articolando tre motivi.
2.1. Con il primo denuncia vizio di motivazione in punto sia di ritenuta sussistenza della falsità del testamento sia di riconducibilità del fatto all’imputato.
Il ricorrente rappresenta che è ancora in corso il giudizio civile di primo grado, nel cui ambito è stata effettuata la consulenza grafologica di ufficio; sicché difetta ancora una statuizione circa l’autenticità o meno dei “vari testamenti”.
Evidenzia che le conclusioni rassegnate dagli esperti, nell’ambito del processo civile, sono tra loro discordanti non solo in ordine alla autenticità del testamento del 6 aprile 2018 in favore dell’COGNOME (riconosciuta dal consulente di parte di quest’ultimo, esclusa dagli altri), ma anche circa le revoche, autentiche secondo il consulente della COGNOME, apocrife secondo il consulente di ufficio.
Osserva che, in ogni caso, l’oggetto di quell’accertamento non ha rilievo, poiché nel presente processo l’unica perizia determinante (ma non espletata)
sarebbe quella volta ad accertare “se il testamento olografo è stato o meno formato dall’imputato”, in quanto “non può essere condannato penalmente per il reato di falso materiale chi non ha redatto alcun documento”.
Il ricorso riproduce poi il contenuto delle prove testimoniali raccolte a favore dell’imputato e ricorda come l’esistenza di un vantaggio, posta dalla Corte di appello a fondamento della pronuncia di condanna, non sia sufficiente ai fini di una affermazione di responsabilità, come stabilito da Sez. 5 n. 29877 del 2020.
2.2. Con il secondo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., la violazione degli artt. 533, comma 1 e 530, comma 2, cod. proc. pen.
Si sostiene che “non vi è nessuna prova certa che il testamento olografo sia falso né soprattutto che NOME NOME abbia personalmente formato il testamento olografo”.
2.3. Con il terzo si lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen., la mancata assunzione di una prova decisiva, rappresentata da una perizia sulla grafia dell’imputato e sulla comparazione con quella del testamento olografo ritenuto falso.
Il ricorso, proposto in data successiva al 30 giugno 2024, è stato trattato in camera di consiglio ai sensi dell’art. 611 cod. proc. pen., nel testo riscritto dal d. Igs. n. 150 del 2022 e successive modifiche.
Il difensore di parte civile ha trasmesso una memoria con la quale contrasta i motivi di ricorso e rassegna le conclusioni trascritte in epigrafe.
Il difensore dell’imputato ha depositato memoria a sostegno dei motivi di ricorso e una ulteriore memoria di replica alla requisitoria del Procuratore generale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
Il primo motivo è, nel complesso, infondato, pur presentando profili di inammissibilità.
2.1. Sono inammissibili tutte le doglianze concernenti la falsità del testamento del 6 aprile 2018.
Le censure reiterano questioni di fatto già devolute alla Corte di appello la quale, con motivazione immune da vizi logici, ha ribadito il giudizio di falsità, per difetto di olografia.
La Corte di appello condivide la scelta operata dal Tribunale di recepire, al riguardo, le conclusioni raggiunte da NOME COGNOME – consulente tecnico della parte civile, esaminato nel dibattimento penale – ad opinione del quale: il testamento in favore di COGNOME era apocrifo perché: «la tipologia di scrittura non corrispondeva alle capacità grafiche e alle modalità espressive genografiche del Giulini: “Per cui c’è un tratto grafico che è lento, incerto, posato, che non ha una vitalità. Perché anche in persone anziane, per quanto possano essere magari in difficoltate o meno, c’è sempre una vitalità nel proprio gesto grafico. In quel caso li… Assolutamente tutte le caratteristiche non sono corrispondenti. Per cui qui il testamento del 2018 è chiaramente apocrifo”» (pag. 8 sentenza di primo grado).
Su tali esiti concordano sia la dottoressa COGNOME consulente tecnico di ufficio nominata nel giudizio civile sia le consulenti (COGNOME, COGNOME) nominate dal NOME COGNOME nel medesimo processo civile, che hanno giudicato apocrifo l’atto in ragione della “incompatibilità della grafia utilizzata con la ridotta capacità grafica motoria di COGNOME, persona di ottantasei anni” (pag. 3 sentenza impugnata).
Unica opinione dissenziente è quella espressa dal dottor NOME COGNOME, consulente dell’imputato.
Il Tribunale, prima, e la Corte di appello, poi, spiegano le ragioni della preferenza accordata alle valutazioni di COGNOME, COGNOME e COGNOME alla luce della loro precisione, puntualità e coerenza argomentativa, nonché per il conforto ricevuto dalle prove testimoniali circa le effettive volontà manifestate dal de cuius nell’ultimo periodo di vita e consegnate ai propri amici; volontà che non contemplavano in alcun modo COGNOME, ma erano animate dalla preoccupazione di revocare il testamento in favore della ex convivente (unico, quindi, a conoscenza del de cuius) per dare corso alla successione legittima in favore della cugina.
La complessiva struttura argomentativa ricavabile dalla integrazione delle sentenze di primo e secondo grado lascia emergere che le conclusioni della dottoressa COGNOME e dei consulenti tecnici nominati dalla COGNOME sono state valutate in termini di affidabilità e completezza; che non sono state ignorate le argomentazioni del consulente nominato dall’imputato; che la prospettiva tecnicoscientifica è stata integrata con quella logico-indiziaria (Sez. 5, n. 18975 del 13/02/2017, Cadore, Rv. 269907). Tanto basta a soddisfare il controllo sulla motivazione demandato alla Corte di cassazione (cfr. tra le altre Sez. 3, n. 17368 del 31/01/2019, COGNOME, Rv. 275945; Sez. 5, n. 18975 del 13/02/2017, Cadore, Rv. 269909; Sez. 6, n. 5749 del 09/01/2014, COGNOME, Rv. 258630; Sez. 1, n. 25183 del 17/02/2009, Panini, Rv. 243791).
In sintesi risulta ben argomentato l’accertamento che il testamento datato 6 aprile 2018 è falso e che l’atto è stato confezionato da una mano diversa da quella del testatore.
2.2. Sono infondate le censure in punto di riconducibilità del fatto all’imputato.
Va anzitutto osservato che rimangono confinati nell’alveo della inammissibilità tutti gli argomenti che, al di là degli enunciati formali, risultano nella sostanza orientati verso una rivalutazione dei profili di merito della regiudicanda, incompatibile con l’odierno scrutinio di legittimità.
Ferma tale premessa, occorre sperimentare la tenuta argomentativa della decisione alla luce dei parametri disegnati da Sez. 5, n. 29877 del 15/09/2020, COGNOME, Rv. 279699 – 01, sì da ricondurre la valutazione probatoria al correlativo parametro normativo di riferimento onde saggiarne la conformità alle regole processuali che la governano.
2.2.1. È pacifico che non si vede in tema di prova diretta, scientifica o storica. Il paradigma di riferimento è quello della prova di natura indiziaria o critica, che, va ricordato, non costituisce uno strumento meno qualificato rispetto alla prova diretta o storica quando la sua attitudine rappresentativa sia conseguita con rigorosità metodologica, che giustifica e sostanzia il principio del c.d. libero convincimento del giudice (Sez. U, n. 6682 del 04/02/1992, Musumeci).
Secondo la previsione dell’ad. 192, comma 2, cod. proc. pen., ciascuna circostanza di fatto assumibile come indizio deve essere connotata, in primo luogo, dal requisito, non espressamente richiamato ma fondante, della “certezza”, che implica la verifica processuale della sua sussistenza (Sez. 4, n. 39882 del 01/10/2008, Zocco). L’indicato requisito non può assumersi in termini di assolutezza e di verità in senso ontologico, partecipando, invece, di quella specie di certezza che si forma nel processo attraverso il procedimento probatorio (Sez. 1, n. 31456 del 21/05/2008, dep. 29/07/2008, COGNOME); esso, tuttavia, conduce a evitare che la prova critica (indiretta) possa fondarsi su di un fatto verosimilmente accaduto, supposto o intuito, inammissibilmente valorizzando contro indiscutibili postulati di civiltà giuridica – personali impressioni o immaginazioni del decidente o mere congetture (Sez. 1, n. 18149 del 11/11/2015, dep. 2016, COGNOME, Rv. 266882).
La caratterizzazione di ogni indizio passa, in secondo luogo, attraverso i requisiti di gravità, precisione e concordanza. Per gravità deve intendersi la consistenza, la resistenza alle obiezioni, la capacità dimostrativa vale a dire la pertinenza del dato rispetto al thema probandum; per precisione la specificità, l’univocità e la insuscettibilità di diversa interpretazione altrettanto o più verosimile; infine concordanza significa che i plurimi indizi devono muoversi nella
stessa direzione, essere logicamente dello stesso segno, e non porsi in contraddizione tra loro.
Il metodo di lettura unitaria e complessiva dell’intero compendio probatorio implica come operazione propedeutica quella di valutare ogni elemento indiziario singolarmente, ciascuno nella propria valenza qualitativa e nel grado di precisione e gravità, per poi valorizzarlo, ove ne ricorrano i presupposti, in una prospettiva globale e unitaria, tendente a porne in luce i collegamenti e la confluenza in un medesimo contesto dimostrativo (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, COGNOME, Rv. 231678).
La prova indiziaria, proprio in rapporto alle sue caratteristiche intrinseche, non può, per definizione, offrire una rappresentazione del fatto sovrapponibile a quella di una prova diretta; essa, invero, conduce alla scoperta dell’identità dell’autore di un fatto di reato attraverso «significati intermedi», tali da attivare un fondato e rassicurante percorso logico di dipendenza tra più circostanze. Ferma restando la certezza (in senso processuale) del risultato di prova, non può dunque pretendersi dalla prova indiziaria un tasso esplicativo delle “modalità realizzative” del fatto che vada oltre i limiti ontologici della prova stessa (Sez. 1, n. 5758 del 14/10/2015, dep. 2016, COGNOME).
Il processo penale non fa applicazione di regole gnoseologiche idonee a proporre conclusioni necessarie; le argomentazioni essenzialmente informative e logico-argomentative della decisione giudiziale sono, invece, finalizzate alla conoscenza nuova di un fatto specifico, che attiene a un fatto umano (il reato), legato a variabili non necessariamente razionali o non completamente intelligibili, e la cui verifica processuale passa attraverso il ragionamento probatorio, che consente di passare dall’elemento di prova al risultato di prova in vista del conseguimento della certezza di natura processuale.
2.2.2. Questo collegio ritiene che l’ordito argomentativo della sentenza impugnata soddisfi la regola metodologica sancita dall’art. 192, comma 2 cod. proc. pen..
Il primo, e più significativo elemento indiziario, viene ravvisato dai giudici di merito nell’argomento del cui prodest (pag. 6).
La terminologia impiegata può dare adito a equivoci e va meglio chiarita.
Le Sezioni Unite COGNOME hanno definito “superata e ormai ripudiata la teoria del cui prodest”, affermando che la generica ed equivoca individuazione di un’area di “interesse” al compimento del delitto (in quel caso un omicidio) costituisce solo ragione di sospetto, supposizione o argomento congetturale, tenuto conto altresì dell’incerta prova circa l’esclusività o la molteplicità dei moventi del delitto (Sez. U. n. 45276 del 30/10/2003, in motivazione, paragrafo 7.7.2.).
Ben diverso dal caso deciso dalle Sezioni Unite COGNOME è quello in cui vengono in rilievo non una pluralità indeterminata di possibili “moventi” (che privano l’elemento del pre-requisito della “certezza”), ma l’interesse preciso di un soggetto che è intrinseco alla condotta e che viene reso manifesto dalla stessa struttura e declinazione dell’illecito nel caso concreto.
In tali termini e con tali precisazioni può accogliersi il principio in forza del quale: «In tema di adeguatezza della motivazione, non è censurabile, in sede di legittimità, la sentenza del giudice di appello che fondi il giudizio di colpevolezza sul principio del cui prodest, qualora esso sia supportato da altri elementi di fatto di sicuro valore indiziante» (Sez. 3, n. 15755 del 22/01/2020, COGNOME, Rv. 279271; conf. Sez. 5, n. 12329 del 04/03/1988, COGNOME, Rv. 179918).
In definitiva l’elemento de “l’interesse” può rappresentare un indizio utile ai sensi dell’art. 192, comma 2, cod. proc. pen. ove risponda ai requisiti di certezza, gravità e precisione, ma richiede, poi, la convergenza di ulteriori circostanze che, valutate prima singolarmente e poi globalmente, ne comportino la confluenza in un medesimo contesto dimostrativo (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, COGNOME, Rv. 231678).
Nella specie l’elemento de “l’interesse”, come esposto dai giudici di merito, è dotato di certezza, gravità e precisione.
Il testamento falso datato 6 aprile 2018 contiene disposizioni favorevoli solo all’imputato che, per effetto di esse, diviene erede unico ed universale acquisendo l’intero asse ereditario ammontante ad un valore di circa 650mila euro.
Questo dato oggettivo – qualunque sia la formula che si intende impiegare per definirlo – risponde ai requisiti di certezza (alla luce della verifica processuale circa la sua sussistenza), gravità (espressa dalla sua rilevante capacità dimostrativa in ragione della sua immediata pertinenza al thema probandum) e specificità (data la univocità e insuscettibilità di diversa interpretazione altrettanto o più verosimile).
L’elemento esaminato, per quanto pregnante, ha valenza indiziaria e, dunque, da solo non è sufficiente a fondare una affermazione di responsabilità dato che, si ripete, l’art. 192, comma 2, cod. proc. pen. postula che gli indizi siano plurimi (almeno due) e concordanti vale a dire che si muovano nella stessa direzione, siano logicamente dello stesso segno, non si pongano in contraddizione tra loro.
Ebbene la sentenza impugnata mostra di valorizzare ulteriori, concordanti elementi: la circostanza che il testamento falso fosse proprio nelle mani di COGNOME; la circostanza che quel testamento, asseritamente in possesso di COGNOME sin dal 6 aprile 2018, sia stato pubblicato soltanto il 19 luglio 2018 a distanza di quasi tre mesi dal decesso del de cuius (le spiegazioni fornite dall’imputato in merito alla
ritenuta esistenza di un ipotetico figlio non riconosciuto si sono rivelate evanescenti); la circostanza che COGNOME era uscito dalle grazie di COGNOME il quale nell’ultimo periodo di vita non lo contemplava nemmeno nelle sue decisioni successorie, né, al riguardo, si confidava con lui, preferendogli altre persone.
La Corte di appello, inoltre, tiene conto delle prove a discarico che confuta, senza cadute di logicità.
Rileva che la circostanza della consegna del testamento da parte di COGNOME nelle mani di COGNOME è implausibile. Anzitutto è smentita, in radice, dal fatto che quel testamento è falso e non è stato vergato da COGNOME; inoltre viene riferita solo dalla moglie dell’imputato (NOME COGNOME) che indica come ulteriore testimone una persona deceduta; infine si pone in stridente contraddizione con il comportamento tenuto da COGNOME nell’ultimo periodo di vita: il de cuius si era confidato con NOMECOGNOME preoccupandosi anche di informare, tramite questi, la propria cugina della decisione di dare seguito a una successione legittima (pag. 6).
Il giudice di secondo grado spiega l’irrilevanza della deposizione di NOME COGNOME – che riferisce un episodio occorso nel 2015 (aver accompagnato da un notaio COGNOME, il quale intendeva raccogliere informazioni per le iniziative da intraprendere al fine di revocare il precedente testamento in favore della ex convivente e lasciare tutto all’amico COGNOME) – posto che l’atteggiamento di COGNOME verso COGNOME era cambiato nel tempo, poiché i due avevano litigato, a seguito delle insistenti richieste di denaro provenienti dal secondo, per cui COGNOME si era determinato a non contemplarlo più nella propria successione testamentaria (pag. 6 sentenza impugnata e pag. 18 sentenza di primo grado).
Valutazioni con le quali il ricorso evita di misurarsi.
In definitiva risulta pienamente rispettata la regola valutativa di cui all’art. 192 comma 3 cod. proc. pen.
2.3. È manifestamente infondata, in diritto, la tesi per cui la responsabilità dell’imputato dovrebbe essere esclusa ove non si provasse che il testamento falso fosse stato da lui materialmente vergato.
L’assunto confonde la materialità del falso con la materialità dell’azione.
Si può essere chiamati a rispondere di un reato anche quando siano stati altri ad eseguirlo materialmente, sulla scorta di un previo concerto.
3. Il secondo motivo è inammissibile.
La censura è imperniata unicamente sul vizio di cui all’art. 606 comma 1 lett. b), cod. proc. pen. che, però, riguarda l’inosservanza di legge sostanziale, non chiamata in causa nello sviluppo del motivo.
Il ricorso denuncia, invece, l’inosservanza del canone di giudizio del ragionevole dubbio (artt. 533 e 530 cod. proc. pen.), che tuttavia non è presidiato
da alcuna sanzione di invalidità; presupposto necessario a rendere configurabile, almeno in astratto, una violazione di legge processuale (non sostanziale) ai sensi
dell’art. 606 comma 1 lett. b), cod. proc. pen. (cfr. Sez. U, n. 29541 del
16/07/2020, NOME, Rv. 280027 – 04).
4. Il terzo motivo è inammissibile.
La mancata assunzione di una prova decisiva, quale motivo d’impugnazione ex art. 606, comma 1, lett. d) cod. proc. pen., può essere dedotta solo in relazione
ai mezzi di prova di cui sia stata chiesta l’ammissione ai sensi dell’art. 495, comma
2, cod. proc. pen., sicché il motivo non potrà essere validamente articolato nel caso in cui, come nella specie, il mezzo di prova sia stato sollecitato dalla parte
attraverso l’invito al giudice di merito ad avvalersi dei poteri discrezionali di integrazione probatoria di cui all’art. 507 cod. proc. pen. e da questi sia stato
ritenuto non necessario ai fini della decisione (cfr. tra le ultime Sez. 2, n. 884 del
22/11/2023, dep. 2024, COGNOME, Rv. 285722 – 01).
Consegue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile, che, tenuto conto della richiesta di applicare il mero canone dell’equità, possono liquidarsi in complessivi euro duemila, oltre accessori di legge.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile, che liquida in complessivi euro duemila, oltre accessori di legge.
Così deciso il 16/05/2025