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Tentato omicidio: quando un’aggressione è reato?

La Corte di Cassazione ha confermato la condanna per tentato omicidio nei confronti di un uomo che, dopo una rissa, aveva accoltellato un rivale alle spalle. La sentenza sottolinea che l’azione di prelevare un’arma dopo la fine del conflitto e colpire zone vitali dimostra l’intenzione di uccidere (dolo), anche in forma alternativa, escludendo la meno grave ipotesi di lesioni aggravate. Il ricorso è stato dichiarato inammissibile.

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Pubblicato il 26 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Tentato omicidio: quando l’intenzione di uccidere si presume dai fatti

La recente sentenza della Corte di Cassazione, n. 2311 del 2024, offre un’importante lezione sulla distinzione tra lesioni aggravate e tentato omicidio. Il caso analizzato riguarda un’aggressione avvenuta dopo una rissa, dove la Suprema Corte ha dovuto valutare la sussistenza dell’intenzione di uccidere (il cosiddetto animus necandi) basandosi su elementi oggettivi e comportamentali. La decisione conferma che, anche in assenza di una confessione, specifici indicatori possono provare in modo inequivocabile la volontà omicida.

I Fatti di Causa

La vicenda ha origine da una lite scoppiata in un bar, sfociata in una rissa all’esterno del locale tra quattro persone. Una volta terminata la colluttazione, uno dei partecipanti si è recato alla propria auto, ha prelevato un coltello e ha aggredito uno dei rivali, che in quel momento gli dava le spalle. L’aggressore ha sferrato due fendenti, colpendo la vittima alla base del collo e alla scapola sinistra. Fortunatamente, le lesioni, sebbene potenzialmente letali per le zone colpite, si sono rivelate guaribili in quindici giorni.
Il Tribunale di primo grado aveva qualificato il fatto come lesioni aggravate. La Corte di Appello, in riforma della prima decisione, ha invece riconosciuto la sussistenza del più grave reato di tentato omicidio, rideterminando la pena a quattro anni e dieci mesi di reclusione.

La Decisione della Corte di Cassazione sul Tentato Omicidio

L’imputato ha proposto ricorso per cassazione, lamentando l’illogicità della motivazione della Corte d’Appello riguardo alla sussistenza del dolo omicidiario, specie nella sua forma alternativa. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, dichiarandolo manifestamente infondato e quindi inammissibile. Secondo gli Ermellini, la Corte territoriale ha applicato correttamente i principi giuridici consolidati, basando la propria decisione su una valutazione logica e coerente degli elementi processuali. L’imputato è stato quindi condannato al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende.

Le Motivazioni: la Prova del Dolo nel Tentato Omicidio

Il cuore della motivazione della Cassazione risiede nella corretta individuazione degli elementi sintomatici che provano l’intenzione di uccidere. In assenza di ammissioni da parte dell’imputato, la prova dell’ animus necandi deve essere desunta da elementi esterni e oggettivi. La Corte ha ritenuto che la decisione d’appello fosse ineccepibile perché fondata su una serie di circostanze indicative della volontà omicida:
1. Il Contesto Temporale: L’aggressione è avvenuta dopo che la rissa si era già conclusa. L’imputato, invece di allontanarsi, ha deciso di armarsi, dimostrando una volontà autonoma e non legata all’impeto del momento.
2. L’Uso di un’Arma Micidiale: La scelta di prelevare un coltello dall’auto è un chiaro indicatore della pericolosità dell’azione.
3. La Direzione dei Colpi: I fendenti sono stati diretti verso zone del corpo universalmente riconosciute come vitali (la base del collo e la regione scapolare), dove si trovano importanti vasi sanguigni.
4. La Reiterazione dell’Azione: L’aggressore ha colpito per ben due volte, manifestando una persistenza nell’intento lesivo.
5. La Dinamica dell’Aggressione: La vittima è stata colpita alle spalle, trovandosi in una condizione di minorata difesa.
Questi elementi, valutati nel loro complesso, sono stati ritenuti sufficienti a dimostrare la volontà dell’imputato di uccidere la vittima, o quantomeno la sua totale indifferenza rispetto alla possibilità che la sua azione potesse causarne la morte. Questo configura il cosiddetto dolo alternativo, in cui l’agente accetta e vuole indifferentemente l’uno o l’altro degli eventi che si prefigura (in questo caso, le lesioni gravi o la morte).

Conclusioni

La sentenza in esame ribadisce un principio fondamentale in materia di tentato omicidio: la qualificazione del reato dipende da un’attenta analisi del comportamento dell’agente e delle circostanze oggettive dell’azione. La micidialità dell’arma, la zona del corpo attinta e la dinamica dei fatti sono elementi cruciali che il giudice deve valutare per ricostruire l’intento criminale. La decisione insegna che un’aggressione non può essere derubricata a semplici lesioni quando le modalità esecutive rivelano, in modo non equivoco, l’accettazione del rischio o la volontà diretta di cagionare la morte della vittima.

Come si distingue il tentato omicidio dalle lesioni aggravate?
La distinzione si basa sulla prova dell’intenzione di uccidere (animus necandi). Secondo la sentenza, questa intenzione può essere provata attraverso elementi oggettivi come la micidialità del mezzo usato (un coltello), la direzione dei colpi verso zone vitali del corpo, la reiterazione dei colpi e la dinamica complessiva dell’azione (es. colpire alle spalle dopo che la rissa era finita).

Cosa significa ‘dolo alternativo’ nel contesto di un tentato omicidio?
Il dolo alternativo si verifica quando l’agente ha la volontà di commettere un reato e prevede come possibili due risultati diversi della sua azione, volendoli entrambi indifferentemente. Nel caso di specie, significa che l’imputato voleva uccidere la vittima o, in alternativa, ferirla gravemente, mostrando indifferenza per la sorte della stessa.

Perché il ricorso dell’imputato è stato dichiarato inammissibile?
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile perché la Corte di Cassazione lo ha ritenuto manifestamente infondato. La Corte ha stabilito che la motivazione della Corte d’Appello era logica, coerente e basata su un corretto uso dei principi giurisprudenziali. Il ricorso, di fatto, suggeriva una rilettura alternativa dei fatti, operazione non consentita nel giudizio di legittimità.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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