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Tentato omicidio: quando un colpo d’arma è omicidio

La Corte di Cassazione ha confermato la condanna per tentato omicidio a carico di un uomo che, dopo una discussione, aveva sparato un colpo di pistola all’anca della vittima. Secondo la Corte, anche un singolo colpo, sparato a distanza ravvicinata e diretto verso una parte vitale del corpo, è sufficiente a dimostrare l’intenzione di uccidere (dolo omicidiario), respingendo la tesi difensiva che mirava a derubricare il reato in lesioni personali.

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Pubblicato il 22 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Tentato omicidio: un solo colpo è sufficiente per la condanna?

La distinzione tra tentato omicidio e lesioni personali volontarie è una delle questioni più delicate del diritto penale, poiché ruota attorno all’accertamento dell’intenzione dell’aggressore. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha ribadito i criteri per distinguere le due fattispecie, confermando che anche un singolo colpo di pistola può essere sufficiente per integrare la volontà di uccidere.

I Fatti del Processo

Il caso ha origine da una lite tra vicini. Un uomo, al culmine di una discussione, è rientrato in casa, ha prelevato una pistola illegalmente detenuta (una Beretta calibro 22 LR priva di matricola) ed è tornato ad affrontare l’altro. A distanza ravvicinata, circa un metro, ha esploso un singolo colpo d’arma da fuoco che ha attinto la vittima all’anca sinistra. L’aggressore è stato condannato in primo e secondo grado per tentato omicidio, detenzione e porto illegale di arma clandestina e ricettazione.

L’imputato ha presentato ricorso in Cassazione, sostenendo che la sua intenzione non fosse quella di uccidere, ma solo di spaventare la vittima. La difesa ha evidenziato che era stato sparato un solo colpo, in una zona non immediatamente letale, e che la vittima non era mai stata in pericolo di vita. Secondo il ricorrente, questi elementi avrebbero dovuto portare i giudici a riqualificare il reato in lesioni personali.

La valutazione del tentato omicidio secondo la Cassazione

La Corte di Cassazione ha respinto integralmente il ricorso, ritenendolo infondato. I giudici hanno chiarito che, per configurare il tentato omicidio, non è necessario che la vittima si trovi in effettivo pericolo di vita, né che le lesioni riportate siano gravi. Ciò che conta è valutare l’idoneità dell’azione a causare la morte e l’intenzione dell’agente, il cosiddetto animus necandi.

I giudici di legittimità hanno sottolineato come la Corte d’Appello avesse correttamente analizzato una serie di indicatori fattuali precisi e univoci per stabilire la sussistenza del dolo omicidiario, anche nella forma del dolo alternativo (ossia l’accettazione del rischio che l’azione potesse portare alla morte).

L’analisi della dinamica e degli atti

L’argomentazione della Cassazione si è basata su una ricostruzione logica e coerente dei fatti. I giudici hanno dato peso ai seguenti elementi:

* La distanza ravvicinata: L’imputato ha sparato da circa un metro di distanza, una circostanza che aumenta notevolmente la potenzialità lesiva del colpo.
* La zona del corpo attinta: Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, mirare al tronco, anche se il colpo ha poi raggiunto l’anca lateralmente, è un atto diretto verso una parte vitale del corpo.
* Le immagini della videosorveglianza: Le riprese smentivano la versione difensiva secondo cui l’imputato avrebbe mirato alle gambe, confermando invece che la pistola era puntata verso il tronco.
* Il comportamento successivo: Dopo lo sparo, l’imputato ha abbassato l’arma, non per desistere, ma come per tentare di ricaricarla o sbloccarla, continuando a maneggiarla mentre si allontanava.

Le motivazioni della decisione

La Corte ha stabilito che la volontà omicida è stata correttamente dedotta dai giudici di merito attraverso un’analisi complessiva e non parcellizzata degli elementi probatori. Il fatto che sia stato esploso un solo colpo non esclude l’intenzione di uccidere. Tale unicità può dipendere da fattori indipendenti dalla volontà dell’agente, come un inceppamento dell’arma o un movimento imprevisto della vittima. Nel caso di specie, l’azione si era già perfezionata come tentativo nel momento in cui l’imputato ha compiuto un atto idoneo a causare la morte, con la consapevolezza di poterlo fare. La Corte ha ribadito un principio consolidato: la scarsa entità o l’inesistenza delle lesioni non è di per sé una circostanza idonea ad escludere l’intenzione omicida.

Le conclusioni

Questa sentenza riafferma che la qualificazione giuridica di un fatto come tentato omicidio dipende da una valutazione rigorosa di tutti gli indici oggettivi e soggettivi. L’analisi non può limitarsi all’esito finale dell’azione, ma deve considerare la potenzialità dell’atto, il tipo di arma utilizzata, la distanza di sparo, la parte del corpo mirata e il contesto generale della condotta. Di conseguenza, anche un singolo colpo di pistola, se inserito in un quadro indiziario coerente con l’intenzione di cagionare la morte, è sufficiente per integrare il grave reato di tentato omicidio, indipendentemente dalla gravità delle lesioni effettivamente prodotte.

Un singolo colpo di pistola può configurare il reato di tentato omicidio?
Sì. Secondo la Corte di Cassazione, anche un solo colpo d’arma da fuoco è sufficiente a configurare il tentato omicidio se l’azione è oggettivamente idonea a causare la morte e se dal contesto emergono elementi che dimostrano l’intenzione di uccidere (animus necandi), come la distanza ravvicinata e la direzione del colpo verso parti vitali del corpo.

La scarsa gravità delle ferite riportate dalla vittima esclude il tentato omicidio?
No. La Corte ha specificato che la scarsa entità o addirittura l’inesistenza delle lesioni provocate non sono circostanze idonee a escludere di per sé l’intenzione omicida. L’evento morte potrebbe non essersi verificato per fattori indipendenti dalla volontà dell’agente, come un movimento della vittima o un errore di mira.

Cosa si intende per dolo alternativo nel tentato omicidio?
Il dolo alternativo si verifica quando l’agente prevede e accetta come possibili due risultati della sua azione (in questo caso, il ferimento o la morte) e agisce ugualmente, mostrando indifferenza per quale dei due si verificherà. Nel tentato omicidio, significa che l’aggressore ha agito accettando il concreto rischio che la sua condotta potesse causare la morte della vittima.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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