Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 18148 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 1 Num. 18148 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 13/02/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME CUI 05ZUOWP ) nato il 01/04/1995
avverso la sentenza del 25/06/2024 della CORTE APPELLO di ROMA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso;
udito il difensore della parte civile, COGNOME il quale si associa alle conclusioni del PG conclude, chiedendo il rigetto del ricorso, e deposita conclusioni scritte;
udito, per il ricorrente, l’avvocato COGNOME NOME COGNOME che conclude chiedendo l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 25 giugno 2024 la Corte di appello di Roma ha confermato quella con cui il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale della stessa città ha dichiarato NOME COGNOME colpevole dei reati di tentato omicidio e tentata rapina aggravata e lo ha condannato alla pena, ridotta di un terzo per la scelta del rito abbreviato, di nove anni di reclusione, oltre che al pagamento delle spese processuali ed al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile.
Le menzionate sentenze sono state emesse nell’ambito del procedimento penale scaturito dal ferimento, nella tarda mattinata del 31 ottobre 2022, in Roma, di NOME COGNOME colpito al collo con un frammento di vetro da uno sconosciuto che, poco prima, aveva aggredito NOME COGNOME insieme al quale COGNOME procedeva a piedi lungo la INDIRIZZO in direzione di INDIRIZZO e gli aveva chiesto di consegnargli il denaro in suo possesso.
I giudici di merito hanno concordemente ritenuto la correttezza dell’individuazione del malvivente nell’odierno imputato – che è stato rintracciato dopo pochi minuti ed a breve distanza dal teatro dei fatti di causa – operata grazie, in primo luogo, alla descrizione delle sue fattezze fisiche da parte delle vittime.
Hanno, quindi, qualificato la condotta tenuta in pregiudizio di COGNOME alla stregua di tentato omicidio, in quanto connotata da dolo diretto alternativo, e quelle intesa alla sottrazione di denaro a COGNOME in termini di tentata rapina impropria.
Hanno, infine, disatteso la richiesta dell’imputato di contenere il trattamento sanzionatorio in forza della concessione delle circostanze attenuanti generiche e della diversa e più mite applicazione dei criteri indicati all’art. 133 cod. pen..
NOME COGNOME propone, con l’assistenza dell’avv. NOME COGNOME ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, con i quali deduce, sotto vari, distinti profili, violazione di legge e vizio di motivazione.
2.1. Con il primo motivo, si duole che l’affermazione della sua penale responsabilità sia discesa da un’identificazione eseguita con modalità irrituali e condizionata dall’indicazione, nella fotografia inserita nell’album sottoposto in visione alle persone offese, della data di sua realizzazione, coincidente con quella dell’episodio criminoso in contestazione.
In proposito, lamenta, ulteriormente, che la Corte di appello abbia confermato la correttezza dell’identificazione a dispetto del fatto che, a dire delle vittime,
l’aggressore aveva una capigliatura «rasta», che non corrisponde alla sua acconciatura.
2.2. Con il secondo motivo, COGNOME eccepisce che le modalità dell’accertata condotta avrebbero imposto la qualificazione del fatto nel reato di lesioni aggravate dall’uso dell’arma anziché in quello di tentato omicidio, stanti la mancanza tanto del requisito della concreta offensività dell’azione quanto della prova del dolo, necessari per l’inquadramento del fatto ai sensi degli artt. 56 e 575 cod. pen..
Al riguardo, ascrive alla Corte di appello di avere indebitamente omesso il vaglio degli elementi che, a tal fine, egli aveva introdotto con l’atto di impugnazione.
2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce il difetto, nella fattispecie, degl elementi costitutivi del reato di rapina e, specificamente, di quello soggettivo, la cui prova è rimessa, stando alla sentenza impugnata, alle contradditorie ed inattendibili delle dichiarazioni delle persone offese in ordine alla (asseritamente) formulata richiesta di denaro ed all’idioma nell’occasione da lui utilizzato.
2.4. Con il quarto ed ultimo motivo, COGNOME stigmatizza la concisione della motivazione sottesa al rigetto del motivo di appello presentato in punti di applicazione delle circostanze attenuanti generiche che, sostiene, egli avrebbe meritato in ragione dell’assenza di precedenti condanne, del positivo contegno tenuto nell’arco del procedimento, della giovane età, dello scarso livello di istruzione, della condizione di emarginazione sociale.
Rileva, in proposito, che i giudici di merito hanno erroneamente vagliato in senso a lui sfavorevole l’assenza di resipiscenza che, in realtà, egli non ha potuto manifestare perché colto da comprensibile smarrimento e perché impedito dalla barriera linguistica, acuita dalla partecipazione all’udienza da remoto.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è, nel complesso, infondato e, pertanto, passibile di rigetto.
Preliminarmente, avendo il ricorrente articolato doglianze anche ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e) , cod. proc. pen., occorre ricordare, con la giurisprudenza di legittimità (cfr., tra le altre, Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, COGNOME, Rv. 273217) che il sindacato demandato alla Corte di cassazione sulla motivazione della sentenza impugnata non può concernere né la ricostruzione del fatto, né il relativo apprezzamento, ma deve limitarsi al riscontro dell’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di una diretta rivisitazior delle acquisizioni processuali.
Il controllo di legittimità, invero, non è diretto a sindacare l’intrinseca attendibilità dei risultati dell’interpretazione delle prove, né a ripercorrere l’anali ricostruttiva della vicenda processuale operata nei gradi anteriori, ma soltanto a verificare che gli elementi posti a base della decisione siano stati valutati seguendo le regole della logica e secondo linee giustificative adeguate, che rendano persuasive, sul piano della consequenzialità, le conclusioni tratte (Sez. Un. n. 47289 del 24/09/2003, COGNOME Rv. 226074-01).
Sarebbero, quindi, inammissibili censure che si fondassero su alternative letture del quadro istruttorio, sollecitando il diverso apprezzamento del materiale probatorio acquisito da parte di questa Corte, secondo lo schema tipico di un gravame di merito, il quale esula, tuttavia, dalle funzioni dello scrutinio di legittimità, volto ad enucleare l’eventuale sussistenza di uno dei vizi logici, mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità, tassativamente previsti dall’art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen., riguardanti la motivazione della sentenza di merito in ordine alla ricostruzione del fatto (Sez. 6 n. 13442 dell’8/03/2016, COGNOME, Rv. 266924; Sez. 6 n. 43963 del 30/09/2013, COGNOME, Rv. 258153).
Ne discende, è stato ribadito (Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, COGNOME, Rv. 280747), che «In tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo, sicché sono inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento».
Nel caso in esame, la Corte di appello ha ricostruito l’episodio criminoso in termini scevri da fratture razionali e pienamente aderenti alle emergenze istruttorie, traendo argomento, in primis, dalle dichiarazioni delle persone offese, dagli accertamenti di polizia giudiziaria e dai dati di natura medico-legale, che ha valutato in maniera armonica e senza indulgere in argomentazioni manifestamente illogiche o contraddittorie.
Ciò posto, va detto, con specifico riferimento al primo motivo di ricorso, che COGNOME ha articolato, in punto di correttezza della sua identificazione, censure che trovano piana e congrua confutazione nelle sentenze di primo e secondo
grado, che possono senz’altro vagliarsi congiuntamente in ragione, sia della conformità del loro tenore che dell’espresso richiamo operato dalla Corte di appello, alla pag. 4, primo periodo, alla decisione del primo giudice.
Le forze dell’ordine, giunte sul posto dell’aggressione, raccolsero, infatti, le informali dichiarazioni delle vittime in ordine alla persona dell’autore e, sulla base delle informazioni ricevute, avviarono le ricerche, che condussero, in brevissimo tempo, al fermo dell’odierno imputato, corrispondente, per tratti somatici – con l’unica, ma non decisiva, eccezione relativa alla pettinatura della chioma – ed abbigliamento, al soggetto descritto da COGNOME e COGNOME.
Significativo, nell’ottica considerata, è, vieppiù, l’atteggiamento tenuto da NOME alla vista degli agenti, concretatosi nel cercare di nascondersi dietro un albero; così come rilevante è la presenza, sugli abiti da lui indossati, di vistose macchie di sangue.
D’altro canto, che COGNOME sia l’autore delle condotte illecite oggetto di addebito è ulteriormente confermato, nella ricostruzione dell’episodio operata dai giudici di merito, dall’esito, costantemente positivo, delle informali ricognizioni effettuate,dapprima portandolo al cospetto delle vittime e, quindi, inserendo la sua effigie in un album contenente anche fotografie ritraenti altre cinque persone.
A fronte di un percorso argomentativo convincente, perché esente da vizi logici e saldamente agganciato alle emergenze istruttorie, il ricorrente propone obiezioni che sono frutto della artificiosa segmentazione degli elementi raccolti.
Adombra, in particolare, che la sequenza degli accadimenti abbia spinto COGNOME e COGNOME – i quali, originariamente, hanno descritto un soggetto che portava i dreadlocks, acconciatura che egli non predilige – ad assecondare, sotto l’effetto della contingente suggestione, un risultato istruttorio già conseguito aliunde e, a ben vedere, non tranquillizzante, sottoscrivendo le rispettive dichiarazioni dopo che egli era già stato portato al loro cospetto ed individuandolo dopo averlo visto su una fotografia contenente l’indicazione della data in cui era stata scattata, ovvero quella in cui si sono verificati i fatti in contestazione.
La doglianza si rivela priva di pregio, perché prescinde dalla centralità, nel contesto dell’operata individuazione, delle primigenie indicazioni fornite – in maniera, ovviamente, informale, stante l’urgenza delle iniziative finalizzate al rintraccio dell’aggressore – dalle vittime, nonché dal contegno serbato da COGNOME alla vista delle forme dell’ordine e dalla presenza, sui suoi vestiti, di tracce di sangue, elementi che, vagliati unitamente alla complessiva, e quasi totale, coincidenza tra la descrizione fornita da COGNOME e COGNOME e connotati fisici ed abiti dell’imputato, sterilizzano la portata delle censure difensive e confermano l’effettiva attendibilità delle dichiarazioni da loro successivamente rese e dell’individuazione fotografica.
Infondato è, del pari, il secondo motivo di ricorso, vertente sul requisito psicologico del reato commesso colpendo NOME COGNOME al collo.
In proposito – richiamato, preliminarmente, l’assodato principio per cui la prova dell’animus necandi ha natura indiretta e va desunta da quei dati della condotta che, per la loro inequivoca potenzialità offensiva, siano i più adatti ad esprimere il fine perseguito dall’agente (Sez. I, n. 35006 del 18/04/2013, Polisi, Rv. 257208 – 01) – va detto che la valutazione operata in tal senso dai giudici di merito secondo il criterio della prognosi postuma non appare illogica né, tantomeno, meritevole di censura.
La potenzialità lesiva dell’arma, un coccio di bottiglia, utilizzata, l’estrema repentinità del colpo, ancorché unico (la reiterazione essendo stata impedita, va opportunamente ricordato, dalle grida delle vittime, che, richiamando l’attenzione dei passanti, indussero COGNOME ad allontanarsi), inferto, deliberatamente diretto verso un’area corporea particolarmente irrorata, perché sede di vene ed arterie, tra cui carotide e giugulare, la profondità e l’estensione della ferita, nonché la consapevolezza delle conseguenze mortali che l’atto avrebbe potuto provocare hanno, infatti, indotto Giudice dell’udienza preliminare e Corte di appello a ritenere sussistente il dolo diretto – in considerazione della potenzialità dell’azione lesiva, desumibili dalla sede corporea attinta, dall’idoneità dell’arma impiegata nonché dalle modalità dell’atto offensivo (Sez. I, n. 24173 del 05/04/2022, Rusu, Rv. 283390 – 01) – e ad escludere, per contro, la configurabilità del reato di lesioni personali.
Esaustiva appare, al riguardo, la disamina operata in ordine all’apprezzamento del requisito psicologico sotteso alla condotta illecita dell’agente, qualificato in termini di dolo diretto alternativo, in perfetta linea d continuità con il consolidato indirizzo ermeneutico secondo cui «In tema di omicidio tentato, in assenza di esplicite ammissioni da parte dell’imputato, ai fini dell’accertamento della sussistenza dell'”animus necandi” assume valore determinante l’idoneità dell’azione, che va apprezzata in concreto, con una prognosi formulata “ex post” ma con riferimento alla situazione che si presentava “ex ante” all’imputato, al momento del compimento degli atti, in base alle condizioni umanamente prevedibili del caso» (Sez. 1, n. 11928 del 29/01/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 275012 – 01).
Né, va aggiunto, le precedenti conclusioni trovano smentita nelle argomentazioni sviluppate dal ricorrente, improntate ad una diversa, e meno allarmante, esegesi dei dati disponibili – dall’estemporaneità ed occasionalità dell’iniziativa criminosa, scaturita da un alterco tra estranei, all’unicità del Golpo, peraltro sferrato con un oggetto in sé non adibito a scopo offensivo – che,
non valgono ad enucleare, nella motivazione del provvedimento impugnato, specifici profili di manifesta illogicità o contraddittorietà.
Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi con riferimento al terzo motivo di ricorso, con il quale COGNOME si duole del giudizio di attendibilità riservato dai giudici di merito alle persone offese, specie laddove gli ascrivono di avere rivolto a NOMECOGNOME colpito con violenza al capo con la bottiglia brandita dall’imputato e rovinato in terra, la richiesta di consegnargli tutto il denaro in suo possesso, donde la qualificazione del fatto in chiave di tentata rapina aggravata.
Al cospetto di un giudizio di piena credibilità delle vittime – quale quello diffusamente, e con dovizia di pertinenti argomentazioni, espresso dal Giudice dell’udienza preliminare e confermato dalla Corte di appello – che non è minimamente scalfito dalle obiezioni del ricorrente, si pone una censura di marcata fragilità che fa leva sul fatto che egli, dopo essersi loro provocatoriamente rivolto, nella prima fase dell’aggressione, in lingua straniera, ed avere attinto NOME alla testa con la bottiglia di vetro, così determinandone la rottura, aveva espresso la richiesta di consegna del denaro in italiano; dò che, è agevole replicare, non appare in alcun modo contraddittorio, avuto riguardo alla finalità di profitto perseguita dall’agente ed alla conseguente necessità che il destinatario comprendesse al conseguimento di quale obiettivo era diretta la violenza perpetrata ai suoi danni.
Quale che sia stata la ragione che ha spinto COGNOME ad ingaggiare la contesa con COGNOME e COGNOME, la strettissima consecuzione temporale tra la violenza fisica e la formulazione, in un frangente in cui la vittima era in condizioni di inferiorità, anche psicologica, della richiesta di consegna del denaro vale senz’altro a supportare la qualificazione della vicenda ai sensi dell’art. 628 cod. pen., essendo stata la violenza esercitata in vista di un risultato illecito di natura patrimoniale.
La motivazione sottesa alla decisione impugnata resiste, anche sotto questo aspetto, alle censure del ricorrente, che non si emancipano da un approccio teso alla rivalutazione del compendio probatorio, in quanto tale non idoneo ad eccitare il potere censorio del giudice di legittimità.
Manifestamente infondate sono, da ultimo, le censure che COGNOME articola in relazione al trattamento sanzionatorio e, specificamente, al diniego delle circostanze attenuanti generiche.
Il ricorrente si duole, in proposito, della congruità della motivazione adottata dai giudici di merito per escludere l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche, che egli, si sostiene, avrebbe meritato in ragione dell’assenza di precedenti condanne, del positivo contegno tenuto nell’arco del prcedimento, ks…
della giovane età, dello scarso livello di istruzione, della condizione di emarginazione sociale.
Rileva, ulteriormente, che i giudici di merito hanno erroneamente vagliato in senso a lui sfavorevole l’assenza di resipiscenza che, in realtà, egli non ha potuto manifestare perché colto da comprensibile smarrimento e perché impedito dalla barriera linguistica, acuita dalla partecipazione all’udienza da remoto.
Così facendo, COGNOME invoca, a dispetto di quanto affermato, una diversa e più favorevole interpretazione di circostanze di fatto delle quali i giudici del merito hanno fornito una lettura aliena dall’ipotizzato travisamento della prova.
Premesso che è pacifico, in giurisprudenza, che «In tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione» (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, COGNOME, Rv. 271269), va detto che la Corte di appello ha attestato, alla pag. 8 della motivazione della sentenza impugnata, che l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche è inibita – oltre che dal coinvolgimento in ulteriori vicende illecite, anche per reati analoghi, emergente dalla baca dati dei precedenti giudiziari – dall’assenza, nell’imputato, di sintomi di resipiscenza, che egli ben avrebbe potuto manifestare nel corso del procedimento, cui ha partecipato in piena consapevolezza e con il rispetto di tutte le garanzie, serbando un atteggiamento che, pur legittimo, nell’ottica difensiva, evidenzia l’assenza di una presa di coscienza o · di pentimento in ordine al gravissimo episodio del quale è stato protagonista.
Un iter argomentativo, quello sviluppato dalla Corte di appello, che si mantiene all’interno della fisiologica discrezionalità e che non soffre delle incoerenze segnalate dal ricorrente i quali, va ancora una volta ribadito, sollecita un intervento che il giudice di legittimità non può compiere al cospetto di una motivazione esente da vizi logici e che tiene debitamente conto delle conquiste processuali.
Tanto, in perfetta continuità con il condiviso indirizzo ermeneutico secondo cui «Al fine di ritenere o escludere le circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può risultare all’uopo sufficiente» (Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Marigliano, Rv. 279549; Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, COGNOME, Rv. 271269) e «In tema di diniego della concessione delle attenuanti generiche, la “ratio” della disposizione di cui all’art.
62 bis cod. pen. non impone al giudice di merito di esprimere una valutazione circ ogni singola deduzione difensiva, essendo, invece, sufficiente l’indicazione deg
elementi di preponderante rilevanza ritenuti ostativi alla concessione de attenuanti» (Sez. 2, n. 3896 del 20/01/2016, COGNOME, Rv. 265826).
7. Dal rigetto del ricorso discende la condanna di COGNOME al pagamento delle spese processuali ai sensi dell’art. 616, comma 1, primo periodo, cod. proc. pe
oltre che alla rifusione di quelle relative all’azione civile ed al presente g giudizio sopportate dalla parte civile NOME COGNOME
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spe processuali.
Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile NOME, ammes
al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Cort appello di Roma con separato decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 8 d.P.R. 115/2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato. Così deciso il 13/02/2025.