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Tentato omicidio: quando sparare è tentato omicidio

La Corte di Cassazione conferma la custodia in carcere per un individuo accusato di tentato omicidio. La sentenza stabilisce che sparare più colpi di pistola durante una rissa, anche colpendo la vittima solo a una gamba, configura il reato di tentato omicidio, escludendo la legittima difesa. La Corte ha ritenuto che l’uso di un’arma micidiale e la reiterazione dei colpi dimostrino l’intenzione di uccidere (animus necandi), indipendentemente dall’esito finale dell’aggressione.

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Pubblicato il 3 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Tentato omicidio: sparare a una gamba basta per l’accusa?

La recente sentenza della Corte di Cassazione, n. 8611 del 2024, affronta una questione cruciale nel diritto penale: quali elementi sono sufficienti per configurare un tentato omicidio? Il caso in esame riguarda un uomo che, durante una violenta lite, ha esploso tre colpi di pistola contro un avversario, colpendolo a una gamba. La difesa ha sostenuto l’assenza di volontà omicida, ma la Suprema Corte ha confermato l’accusa, fornendo chiarimenti importanti sulla valutazione dell’intenzione di uccidere.

I Fatti di Causa

La vicenda ha origine da un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Tribunale di Napoli Nord. Un individuo era indagato per tentato omicidio, rissa aggravata e porto abusivo d’arma da fuoco. Durante un alterco su una pubblica via, l’indagato, dopo una colluttazione, esplodeva tre colpi di pistola contro un’altra persona. La difesa dell’indagato sosteneva che il primo colpo fosse partito accidentalmente e che gli altri due fossero una reazione concitata alla rissa, non un tentativo di uccidere. A sostegno di questa tesi, si evidenziava come la vittima fosse stata attinta solo a una gamba, una parte del corpo non vitale.

L’analisi del tentato omicidio e la tesi difensiva

Il ricorrente ha basato la sua difesa su tre argomenti principali:

1. Legittima Difesa: La condotta era finalizzata a difendersi dall’aggressione iniziale delle vittime.
2. Assenza di Volontà Omicida: L’esplosione dei colpi era una conseguenza della colluttazione, con l’intento di intimidire e non di uccidere.
3. Localizzazione della Ferita: Il fatto di aver colpito una parte non vitale come la gamba dimostrerebbe l’assenza dell’intenzione di provocare la morte.

Il Tribunale del riesame prima, e la Corte di Cassazione poi, hanno rigettato completamente questa linea difensiva, ritenendo sussistenti i gravi indizi di colpevolezza per il reato di tentato omicidio.

Le motivazioni della Corte di Cassazione sul tentato omicidio

La Suprema Corte ha ritenuto il ricorso infondato, basando la sua decisione su una valutazione complessiva degli elementi oggettivi della condotta. I giudici hanno chiarito che per determinare l’esistenza del dolo di omicidio, non ci si può limitare a considerare l’esito finale dell’azione.

Innanzitutto, è stata esclusa la scriminante della legittima difesa. L’indagato si era presentato al confronto già armato di pistola, così come un suo amico era armato di coltello. Questo, secondo la Corte, indicava una preparazione allo scontro che va oltre la semplice difesa. Inoltre, la reazione (tre colpi di pistola) è stata giudicata sproporzionata rispetto all’aggressione subita da una persona disarmata.

Il punto centrale della motivazione riguarda la qualificazione del fatto come tentato omicidio. La Corte ha affermato che l’intenzione di uccidere (animus necandi) può essere desunta da una serie di indicatori oggettivi, tra cui:

* La natura del mezzo utilizzato: una pistola è un’arma con un’elevata potenzialità lesiva e micidiale.
* Il numero di colpi esplosi: la reiterazione dell’azione (tre spari) indica una determinazione che va oltre il semplice spavento.
* La distanza ravvicinata: sparare da vicino aumenta la probabilità di un esito letale.
* Il comportamento complessivo: l’indagato ha sparato gli ultimi due colpi mentre i due gruppi si stavano già allontanando, dimostrando una volontà punitiva e non difensiva.

La Corte ha specificato che il fatto di aver colpito una zona non vitale non è, di per sé, sufficiente a escludere il dolo, che può sussistere anche nella forma del dolo alternativo, ovvero quando l’agente prevede e accetta la possibilità che la sua azione possa causare la morte della vittima. Citando precedente giurisprudenza, la Corte ha ribadito che la valutazione deve basarsi sulle ‘peculiarità intrinseche dell’azione criminosa’ che hanno ‘valore sintomatico’ dell’intento dell’agente.

Le conclusioni

La sentenza in commento ribadisce un principio fondamentale: per la configurazione del tentato omicidio, ciò che conta è la potenzialità offensiva e l’idoneità dell’azione a causare la morte, valutate ex ante, cioè al momento della condotta. La volontà omicida non è esclusa dal solo fatto che, per fortunate circostanze o per una mira imprecisa, l’evento letale non si sia verificato. L’uso di un’arma da fuoco in un contesto di violenza, con colpi multipli diretti verso una persona, è di per sé un indicatore sufficientemente forte dell’accettazione del rischio di uccidere, integrando così gli estremi del più grave reato contro la persona.

Sparare a una persona colpendola solo a una gamba può essere considerato tentato omicidio?
Sì. Secondo la sentenza, colpire una parte del corpo non vitale non esclude di per sé il tentato omicidio. L’intenzione di uccidere (animus necandi) viene valutata considerando l’intera condotta, come l’uso di un’arma micidiale, il numero di colpi sparati e la dinamica dell’azione.

La legittima difesa può essere invocata da chi usa una pistola contro un aggressore disarmato?
No. La Corte ha escluso la legittima difesa in questo caso, giudicando la reazione (tre colpi di pistola) sproporzionata rispetto al pericolo di un’offesa da parte di un aggressore che agiva a mani nude.

Come si valuta l’intenzione di uccidere (animus necandi) in un caso di tentato omicidio?
Si valuta sulla base di dati oggettivi e del contesto generale dell’azione. Elementi come la natura dell’arma usata (la sua potenzialità mortale), la reiterazione dei colpi, la distanza tra aggressore e vittima e il comportamento tenuto prima e dopo il reato sono tutti indicatori utilizzati per desumere l’intenzione dell’agente.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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