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Tentato omicidio: quando si configura l’animus necandi

La Corte di Cassazione ha confermato una condanna per tentato omicidio, respingendo il ricorso dell’imputato. La sentenza chiarisce che l’intenzione di uccidere (animus necandi) si desume da elementi oggettivi come l’arma usata, le zone vitali colpite e il contesto dell’azione, anche in assenza di confessione. La Corte ha ritenuto irrilevante la tesi difensiva secondo cui la vittima avrebbe provocato la reazione, sottolineando che l’aggressore si era armato preventivamente.

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Pubblicato il 15 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Tentato Omicidio: la Cassazione sui Criteri per l’Intenzione di Uccidere

Una recente sentenza della Corte di Cassazione offre importanti chiarimenti sulla configurazione del reato di tentato omicidio, concentrandosi in particolare sull’accertamento dell’elemento soggettivo, ovvero l’intenzione di uccidere (il cosiddetto animus necandi). La Corte ha ribadito che, in assenza di una confessione, la prova di tale intenzione deve essere desunta da una serie di indicatori oggettivi e fattuali, confermando la condanna di un uomo per aver accoltellato un’altra persona.

I fatti di causa

La vicenda trae origine da una violenta aggressione. L’imputato, a seguito di un alterco verbale per questioni pregresse, ha colpito la vittima con due coltellate, una al collo e una all’addome. La difesa sosteneva che l’imputato avesse agito in un contesto provocatorio, reagendo al gesto della vittima che stava aprendo la portiera della propria auto, apparentemente per afferrare un oggetto con cui colpire. L’imputato affermava di aver sferrato i colpi solo in quel momento e non prima.

L’iter processuale e i motivi del ricorso

Sia il Giudice per le indagini preliminari, in sede di rito abbreviato, sia la Corte di appello avevano condannato l’imputato per tentato omicidio, minaccia e lesioni personali. La difesa ha quindi proposto ricorso per cassazione, lamentando un’erronea applicazione della legge penale e un vizio di motivazione. Secondo il ricorrente, i giudici di merito non avrebbero valutato correttamente la dinamica dei fatti, trascurando il comportamento della vittima e il fatto che l’aggressione non fosse stata immediata, ma una reazione a una presunta minaccia. Inoltre, si contestava la sussistenza dell’intenzione omicida.

La valutazione del tentato omicidio nei gradi di merito

Le corti di merito avevano invece stabilito che la lite era degenerata per iniziativa dell’imputato, il quale si era presentato all’incontro già armato di coltello. Al contrario, la vittima era disarmata. Il gesto di aprire lo sportello dell’auto non era stato ritenuto espressione di una minaccia concreta, ma un tentativo di allontanarsi o di cercare riparo. I giudici hanno sottolineato come fosse stato l’imputato stesso a provocare l’antagonista, sfidandolo verbalmente prima di passare alla violenza fisica.

Le motivazioni

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendolo in parte inammissibile e in parte infondato. In primo luogo, i giudici hanno osservato che i motivi del ricorso erano in gran parte una sterile riproposizione delle argomentazioni già respinte dalla Corte d’appello, senza un confronto critico con la motivazione della sentenza impugnata. Questo vizio, noto come aspecificità, conduce all’inammissibilità.

Nel merito, la Suprema Corte ha confermato la correttezza del ragionamento seguito dai giudici di merito per accertare il tentato omicidio. La sentenza ribadisce un principio consolidato: l’animus necandi va desunto da un’analisi logica degli elementi obiettivi dell’azione. Questi includono:

* La micidialità del mezzo usato: un coltello è intrinsecamente un’arma letale.
* La zona del corpo attinta: il collo e l’addome sono aree vitali, e colpirle denota una chiara volontà di causare un danno grave, se non la morte.
* La pluralità e l’intensità dei colpi: l’aver sferrato due fendenti rafforza l’ipotesi dell’intenzione omicida.
* Le circostanze dell’azione: l’imputato si era armato preventivamente, aveva provocato la vittima e l’aveva aggredita mentre questa si trovava in una condizione di palese inferiorità.

La Corte ha inoltre specificato che la condotta è compatibile con il cosiddetto dolo alternativo, ovvero la situazione in cui l’agente prevede e accetta come possibili entrambi gli esiti della sua azione (il ferimento o la morte), dimostrando indifferenza per quale dei due si verifichi. Anche questa forma di dolo è sufficiente a integrare il reato di tentato omicidio.

Conclusioni

La sentenza in esame è di grande importanza pratica perché riafferma i criteri oggettivi per la distinzione tra il reato di lesioni personali aggravate e quello di tentato omicidio. La volontà omicida non deve essere necessariamente provata tramite una confessione, ma può essere accertata attraverso un rigoroso procedimento logico-induttivo basato sui fatti concreti. La decisione sottolinea come la valutazione del giudice di merito, se logicamente argomentata e priva di vizi manifesti, non sia sindacabile in sede di legittimità. Infine, viene ribadita l’inammissibilità dei ricorsi che si limitano a riproporre le stesse tesi difensive senza un reale confronto con le motivazioni della sentenza d’appello.

Come si determina l’intenzione di uccidere (animus necandi) in un caso di tentato omicidio?
Secondo la sentenza, in assenza di una confessione, l’intenzione di uccidere viene desunta attraverso un procedimento logico basato su elementi oggettivi e certi, come il tipo di arma utilizzata, la direzione e l’intensità dei colpi, la distanza dal bersaglio e le parti del corpo colpite, specialmente se vitali.

Il fatto che la vittima si avvicini alla propria auto può giustificare un’aggressione come legittima difesa?
No. Nel caso specifico, la Corte ha stabilito che il mero gesto della vittima di aprire lo sportello dell’auto non era espressione di una minaccia imminente, dato che era disarmata. Al contrario, l’imputato si era già armato di coltello e aveva lui stesso provocato l’antagonista, ponendosi in una posizione di superiorità offensiva.

Perché un ricorso in Cassazione può essere dichiarato inammissibile?
Un ricorso può essere dichiarato inammissibile quando è aspecifico, ovvero si limita a riproporre le stesse argomentazioni già presentate e respinte in appello, senza criticare specificamente le ragioni della decisione impugnata. Tale riproposizione non è sufficiente a sollevare una valida questione di legittimità davanti alla Corte di Cassazione.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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