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Tentato omicidio: quando l’intenzione è uccidere

La Corte di Cassazione conferma la condanna per tentato omicidio nei confronti di un uomo che aveva accoltellato il cugino per una vendetta trasversale. La sentenza chiarisce che per configurare il reato non è rilevante la gravità effettiva delle ferite, ma l’idoneità dell’azione a causare la morte, valutata ex ante. Elementi come l’arma usata, un coltello da cucina, e le zone vitali colpite sono sufficienti a dimostrare l’intenzione di uccidere (animus necandi), rendendo irrilevante la prognosi di pochi giorni.

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Pubblicato il 15 dicembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Tentato omicidio: l’intenzione di uccidere conta più del risultato

Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 33304/2024) offre un’importante lezione su come viene valutato il reato di tentato omicidio. Il caso analizzato dimostra che, per la legge, l’intenzione di uccidere (animus necandi) può essere provata anche se la vittima riporta solo ferite lievi. La Corte ha stabilito che l’analisi deve concentrarsi sull’idoneità dell’azione a provocare la morte e non sull’esito concreto, che può essere influenzato da fattori fortuiti.

I fatti di causa

La vicenda ha origine da una questione sentimentale. Un uomo, convinto che il fratello della vittima avesse una relazione con la sua compagna, ha deciso di attuare una “vendetta trasversale”. Con un pretesto, ha attirato il cugino (fratello del presunto amante) in un’abitazione e lo ha aggredito alle spalle, colpendolo con un coltello da cucina alla schiena e alla tempia sinistra.

Nonostante l’aggressione, la vittima ha riportato lesioni giudicate guaribili in quindici giorni. L’imputato è stato comunque condannato in primo e secondo grado per tentato omicidio aggravato da futili motivi, con una pena di dieci anni di reclusione.

I motivi del ricorso

La difesa dell’imputato ha presentato ricorso in Cassazione basandosi su tre argomenti principali:

1. Inidoneità dell’azione: Secondo il ricorrente, l’azione non era idonea a uccidere, data la prognosi breve, l’uso di un semplice coltello da cucina non affilato e il fatto che fosse stato inferto un solo colpo significativo.
2. Assenza di dolo diretto: La difesa sosteneva che l’intenzione non fosse quella di uccidere (dolo diretto), ma al massimo un’accettazione del rischio (dolo eventuale), incompatibile con la figura del tentativo. A prova di ciò, veniva citata una frase pronunciata dall’aggressore prima del fatto: «cugino ti voglio bene».
3. Insussistenza dei futili motivi: Si contestava l’aggravante dei futili motivi, sostenendo che l’aggressione fosse scaturita da un impeto momentaneo a seguito di un litigio, e non da un movente futile come la gelosia.

Tentato omicidio e animus necandi: la decisione della Corte

La Corte di Cassazione ha rigettato integralmente il ricorso, confermando la condanna. I giudici hanno chiarito che la valutazione sull’idoneità dell’azione a commettere un tentato omicidio deve essere effettuata con un giudizio ex ante, cioè basandosi sulle circostanze esistenti al momento dell’azione, e non ex post, guardando solo al risultato.

Le motivazioni

La Corte ha smontato punto per punto le argomentazioni della difesa. In primo luogo, ha sottolineato come la Corte d’Appello avesse correttamente individuato gli elementi che provavano l’intenzione omicida (animus necandi): l’arma utilizzata (un coltello con lama seghettata di 11 cm), la pluralità dei colpi e le zone del corpo attinte (regione lombare e frontale), entrambe sedi di organi vitali. La scarsa gravità delle lesioni è stata ritenuta irrilevante, poiché poteva dipendere da fattori indipendenti dalla volontà dell’aggressore, come un movimento della vittima o un errore di mira. Anche la prognosi di quindici giorni è stata svalutata, in quanto la vittima aveva rifiutato il ricovero, che altrimenti avrebbe comportato una prognosi riservata.

Sul piano del dolo, la Cassazione ha affermato che la condotta nel suo complesso (arma, forza, zone colpite) dimostrava chiaramente che la morte non era un evento meramente possibile, ma l’obiettivo perseguito (dolo diretto). La frase «ti voglio bene cugino» è stata interpretata non come un’attenuazione dell’intento, ma, al contrario, come un’ulteriore prova della determinazione, una sorta di cinica premessa all’aggressione.

Infine, l’aggravante dei futili motivi è stata confermata. Il movente della vendetta trasversale, ovvero colpire una persona per punirne un’altra, è stato giudicato l’esempio lampante di una sproporzione abnorme tra la causa scatenante e la reazione criminale, configurando pienamente la futilità richiesta dalla norma.

Le conclusioni

Questa sentenza ribadisce un principio fondamentale in materia di tentato omicidio: ciò che conta per la legge è l’intenzione e l’adeguatezza dell’azione a raggiungere lo scopo, non il fatto che, per fortuna o per caso, l’evento letale non si sia verificato. La decisione sottolinea come la valutazione del giudice debba basarsi su elementi oggettivi e concreti che, letti nel loro insieme, possono svelare senza ombra di dubbio la volontà di uccidere, anche di fronte a conseguenze lesive di modesta entità.

Una ferita superficiale può escludere il tentato omicidio?
No, la Corte ha chiarito che la scarsa entità o addirittura l’assenza di lesioni non esclude di per sé l’intenzione omicida. L’idoneità dell’azione a uccidere va valutata ‘ex ante’, cioè in base alle circostanze al momento del fatto (come l’arma usata e le zone del corpo colpite), e non all’esito finale, che può dipendere da fattori casuali indipendenti dalla volontà dell’aggressore.

Come si dimostra l’intenzione di uccidere (animus necandi)?
Secondo la sentenza, l’intenzione di uccidere si accerta analizzando elementi oggettivi quali il tipo di arma utilizzata (nel caso, un coltello con lama da 11 cm), la parte del corpo presa di mira (zone vitali come la schiena e la testa) e la natura dei colpi inferti. Questi fattori, nel loro complesso, possono dimostrare che la morte era l’obiettivo perseguito e non solo un rischio accettato.

Quando un motivo è considerato ‘futile’ da aggravare il reato?
Un motivo è ‘futile’ quando esiste una notevole sproporzione tra la causa scatenante e la gravità del reato commesso. In questo caso, la Corte ha ritenuto futile la ‘vendetta trasversale’, cioè l’aggredire una persona innocente (il cugino) per punire indirettamente un’altra persona (il fratello della vittima), considerandola una reazione abnorme e sproporzionata.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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