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Tentato omicidio: quando le lesioni non sono letali?

La Corte di Cassazione conferma la condanna per tentato omicidio di un uomo che aveva accoltellato un conoscente. La sentenza chiarisce che, per configurare il reato, è decisivo l’intento di uccidere (animus necandi), desumibile da elementi come l’arma usata, il numero di colpi e le zone vitali colpite. Il fatto che la vittima sia sopravvissuta grazie alla propria reazione difensiva non esclude il tentato omicidio né configura una desistenza volontaria da parte dell’aggressore.

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Pubblicato il 30 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Tentato Omicidio o Lesioni? La Cassazione Chiarisce i Criteri

Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 25801/2024) offre un’analisi cruciale per distinguere il reato di tentato omicidio da quello di lesioni personali aggravate. Il caso, scaturito da un’aggressione con coltello, dimostra come la valutazione dell’intenzione dell’aggressore sia fondamentale e come questa venga desunta da elementi oggettivi e non solo dall’esito finale dell’azione.

I Fatti di Causa

La vicenda ha origine da pregressi dissapori tra due uomini per motivi di vicinato e la compravendita di un terreno. Un giorno, i due si appartano nei pressi del cimitero locale per un chiarimento. La situazione degenera rapidamente: uno dei due estrae un coltello a serramanico e attacca l’altro. La vittima, nel tentativo di fuggire, inciampa e cade a terra. L’aggressore la raggiunge, si pone a cavalcioni su di lei e le sferra cinque coltellate, colpendola al collo, all’addome e alla coscia. Nonostante la posizione di estrema vulnerabilità, la vittima riesce a reagire, bloccando la lama con una mano e colpendo l’aggressore al volto con un pugno, riuscendo così a disarmarlo e a porre fine all’attacco.

Il Percorso Giudiziario e i Motivi del Ricorso

Il percorso legale del caso è stato complesso. In primo grado, il Tribunale aveva qualificato il fatto come lesioni personali aggravate. La Corte d’Appello, invece, aveva riformato la decisione, ritenendo sussistente il tentato omicidio. Dopo un annullamento con rinvio da parte della Cassazione per motivi procedurali, una nuova Corte d’Appello confermava la condanna per tentato omicidio, infliggendo una pena di nove anni e un mese di reclusione. L’imputato ha quindi presentato ricorso in Cassazione, contestando la qualificazione giuridica del fatto, sostenendo che le ferite superficiali escludessero l’intenzione di uccidere e invocando, tra le altre cose, la desistenza volontaria e la legittima difesa.

L’Analisi della Corte sul Tentato Omicidio

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, confermando la correttezza della valutazione operata dai giudici d’appello. Secondo la Cassazione, per distinguere il tentato omicidio dalle lesioni, è necessario condurre una ‘prognosi postuma’ basata sulle circostanze esistenti al momento dell’azione. Nel caso di specie, sono stati individuati plurimi e inequivocabili indicatori della volontà di uccidere (animus necandi):

1. L’arma utilizzata: Un coltello con lama d’acciaio di 10 cm, strumento intrinsecamente idoneo a uccidere.
2. La reiterazione dei colpi: L’aggressore ha sferrato ben cinque fendenti.
3. Le zone corporee attinte: Il collo, l’addome e la coscia sono distretti corporei vitali, la cui lesione può facilmente condurre alla morte.
4. La dinamica dell’azione: L’aggressione è avvenuta mentre la vittima era a terra, inerme e immobilizzata, una condizione che massimizzava la pericolosità dell’attacco.

I giudici hanno sottolineato un punto cruciale: il fatto che le lesioni non siano state mortali non è dipeso da una scelta dell’aggressore, ma esclusivamente dalla strenua ed efficace reazione difensiva della vittima. Tale reazione costituisce una ‘causa esterna’ che ha interrotto l’azione criminale, ma non elide l’intenzione omicida iniziale. Pertanto, la scarsa entità delle ferite non è un elemento sufficiente a escludere il tentato omicidio quando tutti gli altri indicatori convergono nel dimostrare l’intento letale.

La Desistenza Volontaria e la Legittima Difesa

La Corte ha anche escluso l’applicabilità della desistenza volontaria. Questa figura giuridica richiede che l’agente interrompa l’azione per una scelta autonoma e spontanea. Nel caso in esame, l’aggressione è cessata solo perché la vittima è riuscita a disarmare l’imputato. Non vi è stata alcuna volontarietà, ma una costrizione imposta dalla reazione altrui. Allo stesso modo, è stata respinta la tesi della legittima difesa, in quanto la condotta dell’imputato è stata un’aggressione palesemente sproporzionata e non una reazione a un pericolo.

Le Motivazioni della Decisione

Le motivazioni della Cassazione si fondano su principi consolidati. La Corte ha ribadito che la valutazione del dolo nel tentato omicidio deve essere globale e basata su dati oggettivi. La condotta dell’imputato, analizzata nel suo complesso, era inequivocabilmente diretta a provocare la morte della vittima. L’aggressore si era rappresentato e aveva accettato l’evento letale come conseguenza possibile della sua azione, agendo quindi con dolo, quantomeno nella forma del dolo alternativo (volontà di ferire gravemente o, indifferentemente, di uccidere). La Corte ha ritenuto che la sopravvivenza della persona offesa sia stata un evento fortuito, dovuto esclusivamente alla sua capacità di difendersi, che ha interrotto un’azione altrimenti destinata a un esito fatale.

Conclusioni e Implicazioni Pratiche

Questa sentenza consolida un importante principio di diritto: per la configurazione del tentato omicidio, ciò che conta è l’idoneità dell’azione a causare la morte e l’intenzione dell’agente, non l’esito finale. Quando un’aggressione viene interrotta da fattori esterni e imprevedibili, come la reazione della vittima, il reato rimane un tentativo di omicidio a tutti gli effetti. La decisione serve come monito sul fatto che la qualificazione giuridica di un’azione violenta dipende da un’attenta analisi di tutti gli elementi oggettivi che ne caratterizzano la dinamica, piuttosto che dalla mera entità delle lesioni prodotte.

Quando un’aggressione con coltello si qualifica come tentato omicidio e non come lesioni aggravate?
Secondo la sentenza, si configura il tentato omicidio quando elementi oggettivi come la natura micidiale dell’arma, il numero di colpi, le zone vitali del corpo bersagliate e la dinamica dell’azione dimostrano in modo inequivocabile l’intenzione di uccidere, anche se la morte non si verifica per cause indipendenti dalla volontà dell’aggressore.

L’azione criminale che si interrompe per la reazione della vittima può essere considerata desistenza volontaria?
No. La Corte chiarisce che la desistenza, per essere considerata ‘volontaria’, deve derivare da una scelta autonoma e spontanea dell’aggressore. Se l’azione si interrompe perché la vittima riesce a difendersi e a neutralizzare l’attacco, non si tratta di desistenza, ma di un tentativo pienamente compiuto.

È possibile ricevere una pena più severa in appello se a ricorrere è stato solo l’imputato?
Di norma no, per il divieto di ‘reformatio in peius’. Tuttavia, la sentenza spiega che in questo caso specifico era possibile perché la precedente sentenza d’appello era stata annullata per motivi processuali, rendendola giuridicamente inesistente. Poiché anche il Pubblico Ministero aveva appellato la sentenza di primo grado, il nuovo giudice d’appello era libero di infliggere una pena più grave.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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