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Tentato omicidio: l’intenzione di uccidere si prova

La Corte di Cassazione conferma la condanna per tentato omicidio nei confronti di un uomo che, a seguito di una lite condominiale, ha prima tentato di sparare a un vicino con una pistola inceppata e subito dopo ha esploso diversi colpi contro la porta di casa delle vittime, ferendone una. La sentenza chiarisce che per provare il tentato omicidio e l’intenzione di uccidere (animus necandi) è necessario valutare l’intera sequenza dei fatti, che nel caso di specie dimostrava in modo inequivocabile la volontà omicida.

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Pubblicato il 25 dicembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Tentato Omicidio: Quando la Sequenza dei Fatti Prova l’Intenzione di Uccidere

Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha offerto importanti chiarimenti su come si accerta il tentato omicidio, sottolineando l’importanza di analizzare la condotta complessiva dell’agente per stabilire l’intenzione di uccidere, nota in latino come animus necandi. Il caso esaminato riguardava una lite condominiale sfociata in una gravissima sequenza di violenza, che ha portato alla condanna dell’imputato.

I Fatti di Causa: una lite condominiale degenerata

La vicenda ha origine da un banale litigio tra vicini di casa, scaturito da un incidente nel cortile condominiale. La discussione, inizialmente verbale, è rapidamente degenerata. L’imputato, intervenuto per difendere la madre, ha estratto una pistola e l’ha puntata al petto di uno dei vicini, premendo il grilletto per ben due volte. Fortunatamente, l’arma si è inceppata e i colpi non sono partiti.

Subito dopo questo primo, fallito tentativo, le vittime si sono rifugiate nel loro appartamento, chiudendo la porta. L’imputato, non pago, ha esploso cinque colpi di pistola contro la porta d’ingresso, consapevole che le persone si trovavano dietro di essa. Tre proiettili hanno perforato la porta in alluminio e due di questi hanno colpito a una gamba una delle donne presenti in casa, causandole gravi ferite.

L’analisi della Corte sul tentato omicidio

La difesa dell’imputato ha sostenuto che non vi fossero gli estremi del tentato omicidio. Secondo la tesi difensiva, il primo episodio (con l’arma inceppata) non costituiva un atto idoneo a uccidere, mentre il secondo (gli spari contro la porta) non dimostrava una volontà inequivocabile di omicidio, ma al più di lesioni o minaccia.

La Corte di Cassazione, confermando le decisioni dei giudici di merito, ha respinto completamente questa interpretazione. I giudici hanno stabilito che i due episodi non possono essere valutati separatamente, ma devono essere considerati come un’unica azione criminosa progressiva. L’intenzione dell’agente è emersa chiaramente dalla sequenza logica e temporale degli eventi:

1. La minaccia esplicita: L’imputato aveva urlato ‘ora vi ammazzo tutti’, manifestando apertamente le sue intenzioni.
2. Il primo tentativo: Puntare una pistola al petto, una zona vitale, e premere il grilletto due volte è un atto inequivocabilmente diretto a uccidere. L’inceppamento dell’arma è una causa indipendente dalla sua volontà che ha impedito il delitto.
3. La persistenza nell’azione: Invece di desistere, l’imputato ha continuato l’azione aggressiva sparando contro la porta dietro la quale le vittime avevano appena cercato riparo. Questo dimostra la sua determinazione nel portare a termine il suo proposito omicida.

La prova della volontà omicida e l’aggravante

La Suprema Corte ha ribadito che, in assenza di una confessione, l’intenzione di uccidere (animus necandi) deve essere desunta da elementi oggettivi. Nel caso di specie, questi elementi erano plurimi e convergenti: la reiterazione dei colpi, la direzione degli spari verso zone vitali (il petto prima, e poi ad altezza uomo contro la porta), la micidialità del mezzo usato (una pistola funzionante, come dimostrato dai colpi successivi) e l’intera dinamica dell’azione.

Inoltre, è stata confermata l’aggravante dei futili motivi. La reazione dell’imputato è stata giudicata enormemente sproporzionata rispetto alla causa scatenante (una lite per un motorino), rivelando come il litigio sia stato solo un pretesto per scatenare una violenza brutale e ingiustificata.

Le motivazioni della decisione

Le motivazioni della Corte si fondano su un principio consolidato: la valutazione del tentato omicidio non può essere frammentaria, ma deve considerare l’azione nel suo complesso. La condotta dell’agente, dalla minaccia verbale al primo tentativo fallito fino agli spari finali, costituisce un continuum che non lascia dubbi sulla sua volontà omicida. I giudici hanno sottolineato come l’imputato fosse pienamente consapevole che dietro una sottile porta di alluminio si trovassero le persone che voleva colpire, rendendo la sua azione estremamente pericolosa e finalizzata a cagionare la morte.

Le conclusioni

La sentenza rappresenta un importante promemoria su come la giustizia valuti i reati contro la persona. L’intenzione criminale non è un concetto astratto, ma viene ricostruita attraverso l’analisi rigorosa dei fatti e delle circostanze oggettive. La decisione conferma che anche un’arma che si inceppa può configurare un tentativo di omicidio, se l’azione è idonea e diretta a uccidere, e che la persistenza nel proposito criminoso, anche dopo un primo fallimento, è un elemento chiave per dimostrare il dolo omicidiario.

Come si prova l’intenzione di uccidere nel tentato omicidio?
Secondo la sentenza, l’intenzione di uccidere (animus necandi) si desume da una serie di elementi oggettivi, come la micidialità del mezzo usato, la direzione e la reiterazione dei colpi, la zona del corpo attinta o presa di mira, e la valutazione complessiva dell’intera condotta dell’agente, comprese le azioni immediatamente precedenti e successive al fatto.

Un’arma che si inceppa può comunque configurare un tentato omicidio?
Sì. Se un soggetto compie un’azione inequivocabilmente diretta a uccidere, come puntare una pistola carica al petto di una persona e premere il grilletto, l’eventuale inceppamento dell’arma è considerato una causa indipendente dalla sua volontà. L’atto rimane ‘idoneo’ e quindi configura il delitto tentato, poiché il fallimento dell’azione non è dipeso da una scelta dell’agente.

Quando un litigio può essere considerato un ‘futile motivo’ che aggrava il reato?
Un motivo è considerato ‘futile’, e quindi costituisce una circostanza aggravante, quando vi è un’enorme sproporzione tra la causa scatenante e la reazione criminale. Nel caso di specie, una banale lite condominiale è stata ritenuta un motivo futile a fronte di un’azione violenta come un tentato omicidio, apparendo come un mero pretesto per sfogare un impulso violento.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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