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Tentato omicidio: lesioni lievi non escludono il dolo

Un uomo, condannato per tentato omicidio, ha presentato ricorso in Cassazione sostenendo che le lievi ferite inflitte alla vittima dovessero portare a una derubricazione del reato in lesioni. La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, ribadendo un principio fondamentale: nel tentato omicidio, l’intenzione di uccidere si valuta dagli atti compiuti (come la zona del corpo colpita e la reiterazione dei colpi), non dall’entità del danno effettivamente cagionato, che può essere lieve per fattori esterni alla volontà dell’aggressore.

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Pubblicato il 17 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Tentato omicidio: perché le lesioni lievi non escludono l’intenzione di uccidere?

Il confine tra il reato di lesioni personali e quello, ben più grave, di tentato omicidio è spesso al centro di complesse vicende giudiziarie. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ci offre l’occasione per fare chiarezza su un punto cruciale: la scarsa gravità delle ferite riportate dalla vittima è sufficiente a escludere l’intenzione omicida dell’aggressore? La risposta della Suprema Corte è netta e conferma un orientamento consolidato.

I Fatti del Processo

Il caso trae origine dalla condanna di un uomo per il delitto di tentato omicidio. L’imputato, non accettando la decisione dei giudici di merito, proponeva ricorso per Cassazione affidandosi a tre principali motivi: la carenza di motivazione riguardo all’elemento psicologico del reato (ovvero la volontà di uccidere), la richiesta di riqualificare il fatto nel meno grave delitto di lesioni e, infine, la presunta eccessività della pena inflitta. Sostanzialmente, la difesa puntava sul fatto che le conseguenze dell’aggressione fossero state di lieve entità, elemento che, a suo dire, mal si conciliava con un’effettiva intenzione omicida.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Settima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, chiudendo di fatto la vicenda processuale e confermando la condanna. La decisione si fonda su principi cardine del nostro ordinamento, sia sostanziali che processuali.

Tentato Omicidio e Limiti del Giudizio di Cassazione

In primo luogo, la Corte ha ribadito la natura del proprio ruolo. Il giudizio di Cassazione è un ‘sindacato di legittimità’, non un terzo grado di merito. Questo significa che i giudici non possono riesaminare le prove e i fatti così come ricostruiti nei precedenti gradi di giudizio, né possono sostituire la valutazione del giudice di merito con una propria, ritenuta ‘più plausibile’. Il ricorso è ammissibile solo se contesta vizi specifici della sentenza, come la mancanza totale di motivazione, la sua manifesta illogicità o contraddittorietà, non quando si limita a proporre una diversa lettura dei fatti.

La Prova dell’Intenzione nel Tentato Omicidio

Il cuore della pronuncia risiede nella valutazione dell’elemento psicologico. La Corte ha chiarito che, per configurare il tentato omicidio, ciò che conta è l’idoneità dell’azione a causare la morte e la direzione non equivoca della volontà dell’agente verso tale evento. L’esito finale, ovvero l’entità delle lesioni, non è l’unico né il più importante metro di giudizio. I giudici di merito avevano correttamente basato la loro decisione su elementi oggettivi quali:

* La zona del corpo attinta: colpire aree vitali del corpo è un chiaro indicatore di un’intenzione omicida.
* La reiterazione dei colpi: insistere nell’azione aggressiva dimostra una determinazione che va oltre la semplice volontà di ferire.
* La condotta successiva al reato: anche il comportamento dell’aggressore dopo l’azione può rivelare la sua reale intenzione.

Le Motivazioni

La Corte ha sottolineato come la sentenza impugnata avesse adeguatamente motivato la propria decisione valorizzando proprio questi elementi. La scarsa entità (o persino l’inesistenza) delle lesioni, si legge nell’ordinanza, non è una circostanza di per sé idonea ad escludere l’intenzione omicida. L’evento morte potrebbe non essersi verificato per cause del tutto indipendenti dalla volontà dell’aggressore. La Cassazione, citando un proprio precedente (n. 52043/2014), ricorda che l’esito meno grave può essere dovuto a fattori esterni come ‘un imprevisto movimento della vittima, un errato calcolo della distanza o una mira non precisa’. Di conseguenza, l’azione rimane connotata dalla volontà omicida, anche se il suo obiettivo finale non viene raggiunto. Anche la doglianza sulla pena è stata respinta come generica, poiché il ricorrente si era limitato a lamentarne l’eccessività senza argomentare specificamente contro le valutazioni operate dal giudice.

Conclusioni

L’ordinanza in esame consolida un principio fondamentale in materia di tentato omicidio: per accertare il dolo omicidiario, il giudice deve guardare alla condotta dell’agente nella sua interezza e al contesto in cui si è svolta, piuttosto che fermarsi al solo risultato prodotto. Un’azione intrinsecamente letale, diretta verso parti vitali del corpo, rivela un’intenzione di uccidere anche se, per fortunate circostanze, la vittima riporta solo lievi ferite. Questa pronuncia riafferma l’importanza di una rigorosa analisi degli indizi e circoscrive chiaramente l’ambito del ricorso per Cassazione, che non può trasformarsi in un appello mascherato per una nuova valutazione dei fatti.

In un caso di tentato omicidio, la scarsa gravità delle ferite può escludere l’intenzione di uccidere?
No. Secondo la Corte, la scarsa entità o anche l’assenza di lesioni non è di per sé sufficiente a escludere l’intenzione omicida, poiché l’esito può dipendere da fattori indipendenti dalla volontà dell’aggressore, come un movimento imprevisto della vittima o un errore di mira.

Quali elementi sono decisivi per configurare il reato di tentato omicidio?
La sentenza di merito aveva correttamente valorizzato elementi come la zona del corpo colpita (un’area vitale), la reiterazione dei colpi e la condotta tenuta dall’aggressore dopo il fatto, considerandoli indicativi della volontà di uccidere, a prescindere dall’esito finale.

È possibile chiedere alla Corte di Cassazione di riesaminare le prove del processo?
No. La Corte di Cassazione svolge un sindacato di legittimità, non di merito. Ciò significa che non può rileggere gli elementi di fatto o adottare nuove valutazioni delle prove. Il suo compito è verificare che la legge sia stata applicata correttamente e che la motivazione della sentenza impugnata non sia mancante, manifestamente illogica o contraddittoria.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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