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Tentato omicidio: la prova dell’intento di uccidere

La Cassazione conferma la condanna per tentato omicidio di un uomo che ha accoltellato al collo un rivale in amore. La Corte chiarisce che l’intento di uccidere (animus necandi) si desume da indizi oggettivi come l’arma usata, la zona del corpo colpita e la forza del fendente, respingendo la tesi della semplice lesione aggravata.

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Pubblicato il 12 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Tentato omicidio: quando un’aggressione diventa reato contro la vita?

La distinzione tra lesioni aggravate e tentato omicidio rappresenta uno dei confini più delicati e complessi del diritto penale. Un fendente, un colpo, un’aggressione: dove finisce la volontà di ferire e dove inizia quella di uccidere? Una recente sentenza della Corte di Cassazione ci offre un’analisi chiara dei criteri utilizzati per accertare l’intenzione omicida, il cosiddetto animus necandi. Il caso riguarda un uomo condannato per aver accoltellato al collo un rivale in amore, un gesto che la difesa ha tentato di derubricare a semplice lesione, ma che i giudici, in tutti i gradi di giudizio, hanno qualificato come un vero e proprio tentativo di porre fine alla vita della vittima.

I fatti: un’aggressione alle spalle per gelosia

I fatti, avvenuti nel marzo 2022, si sono svolti all’interno di un bar. L’imputato, titolare dell’esercizio commerciale, spinto da gelosia e spirito di ritorsione, ha aggredito alle spalle la vittima, che aveva da poco intrapreso una relazione con una sua ex partner. L’aggressione è stata fulminea e violenta: un fendente al collo sferrato con un coltello dalla lama di oltre dieci centimetri. Nonostante la gravità della ferita, la vittima è riuscita a bloccare la mano dell’aggressore e, dopo una breve colluttazione, a fuggire dal locale, nonostante il tentativo dell’imputato di trattenerla.

La difesa dell’imputato: lesioni aggravate, non tentato omicidio

Nei gradi di merito e in Cassazione, la difesa ha sostenuto che l’azione non fosse finalizzata a uccidere, ma solo a ferire. Secondo il ricorrente, se l’intento fosse stato realmente omicida, data la natura premeditata dell’agguato, egli si sarebbe munito di un’arma più letale e avrebbe agito con maggiore determinazione. La difesa ha inoltre evidenziato presunte lacune investigative e la superficialità della ferita, sostenendo che l’imputato avrebbe volontariamente interrotto l’azione, configurando così il reato di lesioni aggravate dall’uso dell’arma.

La prova del tentato omicidio secondo la Cassazione

La Suprema Corte ha respinto integralmente le argomentazioni difensive, confermando la condanna per tentato omicidio. I giudici hanno ribadito un principio fondamentale: in assenza di una confessione, l’intento omicida (animus necandi) deve essere desunto da una serie di elementi oggettivi e fattuali, valutati nel loro complesso.

Gli indizi oggettivi dell’intento di uccidere

La Corte ha ritenuto che la decisione dei giudici di appello fosse logicamente ineccepibile, in quanto basata su una serie di indicatori convergenti che rivelavano la volontà di uccidere:
1. L’arma utilizzata: Un coltello con una lama lunga è intrinsecamente idoneo a cagionare ferite letali.
2. La zona corporea colpita: Il collo è una sede vitale, ricca di importanti vasi arteriosi. Un colpo in questa zona è altamente indicativo di un fine omicida.
3. La modalità dell’azione: L’aggressione è avvenuta alle spalle (proditoria), con forza e nel contesto di un agguato studiato, denotando una determinazione non compatibile con la sola volontà di ferire.
4. La condotta successiva: Il tentativo di trattenere la vittima per impedirle la fuga è stato interpretato come la volontà di portare a compimento l’azione delittuosa.
5. Il movente e le minacce pregresse: La gelosia e le precedenti minacce di morte rivolte alla vittima hanno ulteriormente rafforzato il quadro accusatorio.

Il diniego delle attenuanti generiche

La Corte ha anche confermato il diniego delle attenuanti generiche. Pur a fronte dell’assenza di precedenti penali e dell’avvenuto risarcimento del danno, i giudici hanno ritenuto prevalenti gli elementi negativi della personalità dell’imputato, come la mancanza di emenda, la perseveranza in condotte persecutorie verso la ex compagna e i tentativi di inquinamento probatorio.

Le motivazioni della Corte

La Corte di Cassazione ha chiarito che il suo ruolo non è quello di riesaminare i fatti, ma di controllare la correttezza giuridica e la logicità della motivazione della sentenza impugnata. In questo caso, la Corte d’Appello ha correttamente applicato i principi consolidati in materia di tentato omicidio. La ricostruzione dell’evento come un’aggressione proditoria, violenta e diretta a una parte vitale del corpo è stata ritenuta una base solida e coerente per affermare la sussistenza dell’animus necandi. La sentenza sottolinea che la prova dell’intento non deve essere certa, ma deve emergere in modo non equivoco dagli elementi esterni della condotta, attraverso una prognosi postuma basata sulla situazione concreta. Gli argomenti difensivi sono stati considerati un tentativo inammissibile di proporre una lettura alternativa dei fatti, compito che spetta esclusivamente ai giudici di merito.

Conclusioni

Questa pronuncia riafferma con forza i criteri per distinguere il tentato omicidio dalle lesioni aggravate. La valutazione non si ferma all’esito concreto dell’azione (la sopravvivenza della vittima), ma si concentra sull’intenzione dell’agente, ricostruita attraverso un’analisi rigorosa di tutti gli indizi disponibili. La scelta dell’arma, la direzione e la violenza del colpo, la zona del corpo attinta e il contesto generale dell’azione sono tutti tasselli che, messi insieme, possono comporre un quadro inequivocabile di volontà omicida, anche se l’evento letale, per cause indipendenti dalla volontà dell’aggressore, non si è verificato.

Come si distingue il tentato omicidio dalle lesioni aggravate?
La distinzione si basa sull’elemento psicologico, ovvero l’intenzione dell’agente (animus necandi). Secondo la sentenza, questo intento si prova attraverso indizi oggettivi e convergenti, quali il tipo di arma usata, la sua idoneità a uccidere, la zona vitale del corpo colpita, la forza del colpo, le modalità dell’azione (es. un agguato) e la condotta successiva al fatto.

È possibile chiedere alla Corte di Cassazione di riesaminare le prove e i fatti del processo?
No. Il giudizio di cassazione è un controllo di legittimità, non di merito. La Corte non può riesaminare le prove o sostituire la propria valutazione dei fatti a quella dei giudici dei gradi precedenti. Il suo compito è verificare che la motivazione della sentenza impugnata sia completa, logica, non contraddittoria e conforme alla legge.

Il risarcimento del danno e l’assenza di precedenti penali garantiscono la concessione delle attenuanti generiche?
No, non la garantiscono. Il giudice deve compiere una valutazione complessiva della personalità del reo e della gravità del fatto. Come dimostra questo caso, elementi positivi come l’incensuratezza e il risarcimento possono essere considerati recessivi rispetto a indici negativi, quali la gravità della condotta, la mancanza di pentimento, le modalità dell’azione e i comportamenti successivi al reato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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