Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 46286 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 46286 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 18/09/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME ( CUI CODICE_FISCALE nato a CASABLANCA( MAROCCO) il 18/01/1978
avverso la sentenza del 30/01/2024 della CORTE APPELLO di TORINO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni scritte rassegnate dal Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso, conclusione condivisa dalla parte civile con atto del 7 agosto 2024.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 30 gennaio 2024, la Corte di appello di Torino, in parziale riforma di quella emessa dal Giudice dell’udienza preliminare della stessa città il 26 marzo 2018, nei confronti di NOME COGNOME lo ha dichiarato colpevole del reato di tentato omicidio e, applicate le circostanze attenuanti generiche, lo ha condannato alla pena, ridotta di un terzo per la scelta del rito abbreviato, di tre anni, un mese e dieci giorni di reclusione, oltre che al pagamento delle spese processuali, e gli ha applicato le sanzioni accessorie previste per legge.
Ha, al contempo, confermato la statuizione di primo grado, che aveva qualificato il fatto ai sensi degli artt. 582 e 585 cod. pen. e condannato COGNOME al risarcimento dei danni, al pagamento di una provvisionale ed alla rifusione delle spese legali in favore della parte civile NOME COGNOME.
I menzionati provvedimenti sono stati resi nell’ambito del procedimento penale scaturito dai fatti avvenuti in Pianezza (To), il 29 giugno 2017, giorno in cui, in orario serale, l’odierno imputato colpì la vittima, figlio di sua moglie, con un coltello marca Opinel, con lama della lunghezza di 8 cm, così cagionandogli una ferita penetrante alla parete dorsale del torace, dalla quale scaturirono uno pneumotorace destro ed un enfisema sottocutaneo.
La vicenda si innesta in un pregresso contesto di conflittualità tra COGNOME e COGNOME, legato a questioni di natura economica, che aveva indotto il secondo, qualche giorno prima, a lasciare l’appartamento in cui egli viveva insieme alla madre ed a Bououd per spostare in quello della nonna, posto nello stesso stabile.
Il 29 giugno 2017 COGNOME, portatosi presso l’abitazione della madre, ove aveva lasciato i propri effetti personali, insieme al cugino NOME COGNOME, si imbatté, all’ingresso, in Bououd il quale, alterato dall’alcol, rivolse al suo indirizzo una frase provocatoria, cui COGNOME non reagì, portandosi nella sua camera.
A distanza di qualche minuto, COGNOME raggiunse i due nella stanza ed allontanò COGNOME ciò che indusse COGNOME a chiedere manforte, via telefono, ad altro suo parente, NOME COGNOME il quale, trovandosi, in quel frangente, a casa della nonna della vittima, lo raggiunse immediatamente.
La contesa, ben presto, degenerò in colluttazione tra COGNOME e COGNOME che venne colpito con una coltellata al dorso.
Pacifica, nelle coordinate generali, la ricostruzione del fatto in
contestazione, il Giudice dell’udienza preliminare lo ha qualificato nel delitto di lesioni personali aggravate in considerazione dell’incertezza residuata in ordine all’elemento soggettivo.
A tal fine, ha attribuito fede privilegiata al racconto di COGNOME, che ha assistito a tutte le fasi della vicenda – della quale ha avuto una percezione più lucida rispetto alla stessa vittima, maggiormente coinvolta sul piano emotivo – ed ha avuto modo di precisare, tra l’altro, che «mentre il COGNOME si trovava ancora parzialmente bloccato nelle fasi concitate del corpo a corpo con il COGNOME, prendeva un coltello che si trovava lì vicino e quindi sferrava la coltellata che colpiva alla schiena la vittima».
Ha, per contro, stimato meno attendibile la narrazione di COGNOME, a dire del quale «il COGNOME fin dalle fasi iniziali della colluttazione sarebbe stato i possesso del coltello che avrebbe brandito con intento minaccioso nei confronti del COGNOME».
Il Giudice dell’udienza preliminare ha, quindi, ritenuto che la dinamica dell’evento – e, in particolare, il fatto che COGNOME aveva preso il coltello quando, impegnato nel corpo a corpo con COGNOME, era rimasto parzialmente bloccato ed al precipuo fine di vincere la resistenza della vittima – esclude che nella sua condotta possano ravvisarsi i connotati del dolo intenzionale o diretto, «dovendosi reputare l’uso di quel coltello come una sorta di reazione del tutto casuale a fronte della resistenza opposta dalla vittima e che, come tale, si pone come naturale sviluppo di un’aggressione in cui, per le vedute modalità attuate esclusivamente attraverso un corpo a corpo, residua una volontà dell’imputato di ledere e non già quella di uccidere».
Ha, ulteriormente, valorizzato nel senso dell’assenza di dolo omicida l’unicità del colpo, che COGNOME pur non essendo stato disarmato o altrimenti neutralizzato, si è astenuto dal reiterare.
La Corte di appello, investita dell’impugnazione proposta dal pubblico ministero, ha disatteso la richiesta di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale ma, all’esito del giudizio di secondo grado, ha qualificato il fatto come tentativo di omicidio.
4.1. Ha, in proposito, osservato che le dichiarazioni rese dai soggetti presenti sulla scena del crimine sono, per la quasi totalità, concordi o, comunque, compatibili e divergono esclusivamente , in relazione all’individuazione del frangente in cui l’imputato si è munito del coltello, ovvero rispetto ad un elemento che, nell’economia della decisione, non appare dirimente.
Ha, in particolare, segnalato che l’atteggiamento serbato da COGNOME sin dal momento in cui COGNOME e COGNOME sono entrati nella abitazione in cui egli
risiede, connotato da reiterate provocazioni e minacce di morte tanto esplicite da indurre il destinatario ad avvisare subito COGNOME dimostra che egli, ab origine, era animato da intento omicida.
Secondo la Corte di appello, COGNOME invero, «in stato di assoluto discontrollo cagionato dall’ira pregressa nei confronti del COGNOME e dallo stato di alterazione alcolica, aveva intenzione di chiudere la partita utilizzando a tal fine il coltello che aveva nella sua disponibilità e che non ha esitato ad utilizzare colpendo la persona offesa in zona prossima ad organi vitali, manifestando anche più volte in modo esplicito la sua intenzione omicidiaria», come, peraltro, da lui stesso ammesso nell’interrogatorio reso all’udienza di convalida dell’arresto.
«In questo contesto di dimostrazione di assoluta aggressività e di più volte dichiarata volontà di ammazzare COGNOME» – chiosano i giudici torinesi «è indifferente che l’imputato avesse addosso il coltello con cui colpì la persona offesa o fosse stato lasciato dal medesimo aperto sul minifrigo, nell’evidente prospettiva dell’imminente utilizzo».
4.2. La Corte di appello ha, quindi, stimato che la condotta posta in essere da COGNOME, così ricostruita, sia stata animata da dolo omicida, in tal senso deponendo le espressioni verbali da lui utilizzate, l’idoneità dell’azione, diretta contro organi vitali, il carattere non estemporaneo dell’aggressione, già preannunciata a chiare lettere alla vista di COGNOME.
Ha, per contro, disatteso gli ulteriori rilievi svolti, in senso contrario, dal Giudice dell’udienza preliminare, relativi alla mancata reiterazione dei colpi, alla contingente condizione di ebbrezza dell’agente, all’assunto stando al quale COGNOME, nel momento in cui COGNOME lo ferì, stava prevalendo nella colluttazione.
NOME COGNOME propone, con l’assistenza dell’avv. NOME COGNOME ricorso per cassazione affidato a due motivi, con il primo dei quali deduce violazione della legge processuale sul rilievo che la Corte di appello è venuta meno all’obbligo di disporre – prima di riformare, in senso peggiorativo, la decisione di primo grado – la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale.
Rileva, al riguardo, che la qualificazione giuridica del fatto in chiave di tentativo di omicidio, anziché di lesioni personali aggravate, è discesa dal diverso apprezzamento di prove dichiarative, quali le sommarie informazioni rese da COGNOME, COGNOME e COGNOME, cui i giudici di merito hanno riconosciuto valenza determinante in vista della decisione.
Con il secondo motivo, COGNOME lamenta violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all’animus necandi la cui prova, sostiene, è
rimasta incerta, avuto riguardo all’unicità ed alla direzione del colpo, sferrato, presumibilmente, in un frangente in cui egli, impegnato nella colluttazione con COGNOME, che stava per avere la meglio, non era pienamente libero nei movimenti.
Aggiunge, al medesimo proposito, che le ragioni che lo indussero a non reiterare i colpi di coltello non sono state delineate e che il compiuto accertamento delle circostanze in cui egli prese in mano l’arma avrebbe consentito di meglio apprezzare il contestato requisito psicologico e di elidere i persistenti margini di dubbio residuati sul punto.
Disposta la trattazione scritta, il Procuratore generale ha chiesto, il 26 agosto 2024, dichiararsi l’inammissibilità del ricorso, conclusione condivisa dalla parte civile, con atto del 7 agosto 2024.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è, nel complesso, infondato e, pertanto, passibile di rigetto.
La Corte di appello, chiamata a confrontarsi con l’impugnazione proposta dal pubblico ministero in ordine alla qualificazione giuridica della condotta, ha rigettato la richiesta, avanzata, con l’accordo della parte civile, dall’ufficio procura, GLYPH di GLYPH rinnovazione GLYPH dell’istruzione GLYPH dibattimentale, GLYPH sul GLYPH rilievo dell’insussistenza, nel testo dell’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. applicabile ratione temporis perché entrato in vigore il 30 dicembre 2022 ed in base al principio tempus regit actum, secondo quanto sancito dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Sez. 3, n. 10691 del 10/01/2024, S., Rv. 28608 – 01) dell’obbligo di rinnovazione dell’istruttoria nel caso di accoglimento dell’appello proposto dal pubblico ministero per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa acquisita, fuori dalle ipotesi di integrazione probatoria disposta a norma degli artt. 438, comma 5, e 441, comma 5, nell’ambito di procedimento definito con giudizio abbreviato.
Priva di pregio è la doglianza articolata, in proposito, dall’imputato – il quale, peraltro, aveva chiesto, nel corso del giudizio conclusosi con l’emissione della sentenza impugnata, il rigetto della richiesta del pubblico ministero – che si duole, con il primo motivo di ricorso, dell’omessa attivazione, da parte della Corte di appello, dei poteri conferiteli dall’art. 603, comma 3, cod. proc. pen. nel caso di assoluta necessità del supplemento istruttorio.
Al riguardo, va, invero, rilevato che – a prescindere dal fatto che la Corte di appello, nella fattispecie, ha reputato di poter senz’altro procedere al vaglio
dell’addebito e dell’impugnazione sulla scorta del compendio in atti e che Bououd, in quella sede, non ha in alcun modo sollecitato l’esercizio dei poteri officiosi del giudice procedente e si è, anzi, espressamente opposto all’istanza avanzata da pubblico ministero e parte civile – la mancata assunzione, in appello, a seguito di giudizio abbreviato non condizionato, di prove richieste dalla parte può essere censurata solo nel caso in cui si dimostri l’esistenza, nell’apparato motivazionale posto a base della decisione impugnata, di lacune o di manifeste illogicità, ricavabili dal testo del medesimo provvedimento e concernenti punti di decisiva rilevanza, che sarebbero state presumibilmente evitate provvedendosi all’assunzione o alla riassunzione di determinate prove in appello (Sez. 3, n. 3028 del 15/12/2023, dep. 2024, D., Rv. 285745 – 01).
Tanto, in considerazione del fatto che «Nel giudizio abbreviato d’appello le parti sono titolari di una mera facoltà di sollecitazione del potere di integrazione istruttoria, esercitabile dal giudice “ex officio” nei limiti della assoluta necessità ai sensi dell’art. 603, comma 3, cod. proc. pen., atteso che in sede di appello non può riconoscersi alle parti la titolarità di un diritto alla raccolta della prova in termini diversi e più ampi rispetto a quelli che incidono su tale facoltà nel giudizio di primo grado» (Sez. 2, n. 5629 del 30/11/2021, dep. 2022, COGNOME, Rv. 282585 – 01).
Nel caso di specie, non è dato apprezzarsi tale condizione, avendo la Corte territoriale supportato la decisione con congrue argomentazioni in relazione sia alla completezza del bagaglio istruttorio che all’enucleazione del coefficiente psichico di partecipazione al fatto.
Ineccepibili si palesano, infatti, le considerazioni sottese alla riforma del primo giudizio in ordine alla qualificazione del fatto.
Sul punto, è utile premettere che la giurisprudenza di legittimità, nella sua composizione più autorevole, ha da tempo chiarito che «In tema di motivazione della sentenza, il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato» (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, COGNOME, Rv. 231679 – 01; nello stesso senso, cfr., tra le tante, Sez. 6, n. 6221 del 20/04/2005, dep. 2006, COGNOME, Rv. 233083 – 01, nonché Sez. 6, n. 10130 del 20/01/2015, COGNOME, Rv. 262907 – 01, ove è stato ulteriormente precisato che il giudice di appello non può «limitarsi ad imporre la propria valutazione del compendio probatorio perché preferibile a quella coltivata nel
provvedimento impugnato»).
Tale indirizzo si inserisce nel solco già tracciato da Sez. U, n. 6682 del 04/02/1992, COGNOME, Rv. 19129 – 01, che aveva stabilito che «Quando le decisioni dei giudici di primo e di secondo grado siano concordanti, la motivazione della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complesso corpo argomentativo. Nel caso in cui, invece, per diversità di apprezzamenti, per l’apporto critico delle parti e o per le nuove eventuali acquisizioni probatorie, il giudice di appello ritenga di pervenire a conclusioni diverse da quelle accolte dal giudice di primo grado, non può allora egli risolvere il problema della motivazione della sua decisione inserendo nella struttura argomentativa di quella di primo grado – genericamente richiamata – delle notazioni critiche di dissenso, in una sorta di ideale montaggio di valutazioni ed argomentazioni fra loro dissonanti, essendo invece necessario che egli riesamini, sia pure in sintesi, il materiale probatorio vagliato dal giudice di primo grado, consideri quello eventualmente sfuggito alla sua delibazione e quello ulteriormente acquisito, per dare, riguardo alle parti della prima sentenza non condivise, una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione delle difformi conclusioni».
L’obbligo di motivazione rafforzata della sentenza di appello che riformi quella, liberatoria per l’imputato, emessa all’esito del primo grado di giudizio, trova oggi, peraltro, preciso riscontro nella regola della certezza della responsabilità «oltre ogni ragionevole dubbio», consacrata all’art. 533, comma 1, cod. proc. pen., e si sostanzia in una peculiare e prudente attenzione valutativa, da riservarsi agli istituti, di diritto sostanziale o processuale, oggetto di difforme considerazione da parte del giudice di appello.
I principi testé richiamati, elaborati con riferimento a fattispecie segnate dal totale ribaltamento, in appello, della decisione assolutoria adottata dal giudice di primo grado, valgono anche per l’ipotesi, qui rilevante, di attribuzione al fatto, da parte del giudice dell’impugnazione, di una diversa e più grave qualificazione giuridica del fatto oggetto di addebito (Sez. 6, n. 14444 del 21/02/2023, P. Rv. 284579 – 03).
Nel caso in esame, la Corte di appello ha senz’altro adempiuto all’obbligo di rafforzare la motivazione.
Dopo avere enunciato tutte le argomentazioni sviluppate dal Giudice dell’udienza preliminare a sostegno dell’operata derubricazione, le ha sottoposte a serrata revisione critica, accompagnata dall’analitica indicazione, per ciascuna di esse, dei pertinenti riferimenti istruttori e delle ragioni che la hanno spinta a condividere la prospettazione dell’accusa pubblica e privata.
Tanto, in relazione, via via: alla preoccupante predisposizione d’animo da subito palesata dall’imputato il quale, anche in considerazione dell’allentamento (quando non addirittura della perdita) dei freni inibitori conseguente alla massiccia assunzione di alcol (è stato lo stesso COGNOME ad ammettere che, quel pomeriggio, egli aveva ingerito «sei birre grandi»), ha da subito preannunciato al contraddittore che era suo intendimento risolvere il dissidio in modo definitivo; alla previa disponibilità del coltello che, ove pure lasciato, aperto, sul minifrigo, egli intendeva utilizzare nel corso dello scontro fisico che egli ha deliberatamente provocato, portandosi nella stanza in cui i due giovano si erano recati ed invitando COGNOME ad allontanarsi; alla portata, potenzialmente letale, del fendente, inferto nei confronti di soggetto disarmato e, quindi, in assenza di qualsivoglia necessità difensiva; al carattere neutro, nelle condizioni date, dell’omessa reiterazione dei colpi, conseguente all’immediato e provvidenziale intervento di COGNOME seguito da quello della madre di COGNOME e delle altre persone presenti all’interno dello stabile.
La Corte di appello, per questa via, ha ritenuto, al di là di ogni ragionevole dubbio, che COGNOME ha inscenato l’aggressione ai danni di COGNOME animato da dolo francamente omicidiario, conclusione che resiste alle obiezioni del ricorrente, che non si emancipano da una sterile prospettazione confutativa, imperniata su profili – quali quelli concernenti l’unicità della coltellata, la dedotta estemporaneità dell’accesso di violenza, la strumentalità del colpo a liberarsi dalla morsa di COGNOME – che il giudice di merito ha convenientemente sceverato, giungendo ad una pronuncia aliena da vizi logici o travisamenti dei dati probatori e, in tal modo, adempiendo in toto all’obbligo di rafforzare la motivazione seguendo un iter che, tenendo conto delle considerazioni del primo giudice, pervenga al loro superamento attraverso riilievi convincenti e persuasivi (in proposito, cfr., tra le altre, Sez. 2, n. 38823 del 25/06/2019, COGNOME, Rv. 277094 – 01).
Dal rigetto del ricorso discende la condanna di NOME COGNOME al pagamento delle spese processuali ai sensi dell’art. 616, comma 1, primo periodo, cod. proc. pen..
L’imputato va, altresì, condannato alla rifusione alla parte civile delle spese di giudizio relative all’azione civile ed alla presente fase, liquidate come da dispositivo, in conformità alle tariffe di legge e previa riduzione, nella misura del 50%, ai sensi dell’art. 12, comma 1, d.m. 10 marzo 2014, n. 55 ed in ragione dell’effettiva consistenza dell’attività svolta.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile COGNOME COGNOME che liquida in complessivi euro 1.800,00, oltre accessori di legge.
Così deciso il 18/09/2024.