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Tentato omicidio: la Cassazione sulla prova del dolo

La Corte di Cassazione ha confermato la condanna per tentato omicidio con arma da fuoco nei confronti di un uomo che, dopo una rissa, aveva esploso cinque colpi di pistola verso un’auto con persone a bordo. La difesa sosteneva la mancanza di volontà omicida, data la distanza e gli ostacoli presenti. La Corte ha rigettato il ricorso, stabilendo che l’intento di uccidere (animus necandi) può essere desunto da elementi oggettivi come il numero di colpi, la direzione ad altezza d’uomo e il movente, superando le argomentazioni difensive sulla balistica e la visibilità.

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Pubblicato il 2 dicembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Tentato Omicidio: Quando Sparare a Distanza Integra il Reato

La recente sentenza della Corte di Cassazione, Sezione Penale, affronta un caso complesso di tentato omicidio con arma da fuoco, fornendo chiarimenti cruciali sulla prova dell’intenzione di uccidere, il cosiddetto animus necandi. La vicenda, originata da una rissa notturna, culmina con l’esplosione di diversi colpi di pistola verso un’automobile. La Suprema Corte, nel confermare la condanna, delinea i principi per valutare la volontà omicida basandosi su elementi oggettivi, anche in presenza di circostanze quali la notevole distanza e la scarsa visibilità.

I Fatti di Causa

La vicenda giudiziaria trae origine da due episodi avvenuti nella stessa notte in una città del sud Italia. Inizialmente, scoppia una rissa in una piazza del centro e successivamente nei pressi di un ristorante. Ore dopo, verso le 4 del mattino, un’utilitaria si accosta a una berlina ferma in sosta. Poco dopo, dall’auto si allontana un passeggero e vengono esplosi cinque colpi di pistola calibro 9×19. Uno dei proiettili colpisce una terza auto di passaggio, il cui conducente fornisce immediatamente la propria testimonianza ai militari intervenuti.

Le indagini, basate su registrazioni di videosorveglianza e intercettazioni, identificano l’imputato come partecipante alla rissa e autore degli spari. L’identificazione si fonda principalmente sulle dichiarazioni di un testimone, ritenute attendibili dai giudici di merito.

L’Iter Processuale e i Motivi del Ricorso

In primo grado, l’imputato viene condannato a una pena significativa per rissa e tentato omicidio. La Corte d’Appello, pur riformando parzialmente la sentenza e riducendo la pena, conferma la responsabilità penale per entrambi i reati. La difesa decide quindi di presentare ricorso per cassazione, basandosi su due motivi principali:

1. Vizio di motivazione sull’attendibilità del testimone chiave: La difesa evidenzia presunte contraddizioni tra le dichiarazioni rese dal testimone in momenti diversi, sostenendo che la sua versione dei fatti fosse illogica e potenzialmente calunniosa.
2. Errata qualificazione giuridica del fatto come tentato omicidio: Secondo il ricorrente, mancavano le prove della volontà di uccidere (animus necandi) e dell’idoneità dell’azione. A sostegno di questa tesi, venivano evidenziati elementi come la notevole distanza tra il punto di sparo e il bersaglio (circa 45-50 metri), la scarsa visibilità notturna, la presenza di ostacoli e la traiettoria dei colpi, che secondo la consulenza di parte escludeva un puntamento diretto a persone.

La Prova del Tentato Omicidio con Arma da Fuoco: Le Motivazioni della Cassazione

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso infondato, respingendo entrambe le censure difensive con una motivazione articolata e in linea con la giurisprudenza consolidata.

Per quanto riguarda il primo motivo, la Corte ha ritenuto che le presunte contraddizioni nelle dichiarazioni del testimone fossero state adeguatamente valutate e risolte dai giudici di merito con un ragionamento logico e coerente. La sentenza impugnata aveva infatti ricostruito il contenuto delle dichiarazioni, superando le critiche difensive e confermandone l’attendibilità complessiva.

Sul secondo e più cruciale motivo, quello relativo alla qualificazione del reato come tentato omicidio con arma da fuoco, la Cassazione ha ribadito un principio fondamentale: in assenza di una confessione, l’intento omicida deve essere desunto da una serie di indicatori oggettivi e sintomatici. Tra questi, assumono particolare rilievo:

* La reiterazione dei colpi: L’esplosione di ben cinque colpi è stata considerata un dato estremamente significativo della determinazione dell’agente.
* Il movente: Il tentato omicidio era legato alla rissa avvenuta poco prima, in cui l’imputato si era schierato contro le vittime designate.
* La direzione dei colpi: I giudici hanno accertato che i colpi erano stati sparati ad altezza d’uomo e in direzione delle persone presenti dentro e fuori il veicolo bersaglio.
* L’idoneità dell’arma: L’uso di una pistola calibro 9×19, un’arma con elevata potenzialità offensiva, è stato un ulteriore elemento a carico.

La Corte ha specificato che la condotta, analizzata nel suo complesso, dimostrava chiaramente il fine perseguito dall’agente. Le argomentazioni difensive sulla distanza, la scarsa visibilità e la presenza di ostacoli non sono state ritenute decisive per escludere il dolo omicidiario. La motivazione ha sottolineato che, anche se un solo proiettile ha raggiunto un bersaglio (peraltro diverso da quello principale), la pluralità di colpi esplosi verso le vittime era un indice inequivocabile della volontà di uccidere.

Le Conclusioni: Quando Sparare è Tentato Omicidio

La sentenza in esame consolida un orientamento giurisprudenziale di grande importanza pratica. Stabilisce che, per configurare il tentato omicidio con arma da fuoco, non è necessario che la vittima venga effettivamente colpita in una parte vitale. Ciò che conta è la valutazione prognostica ex ante dell’idoneità dell’azione e la ricostruzione dell’elemento psicologico attraverso l’analisi di fattori oggettivi. La pluralità di colpi, l’uso di un’arma micidiale e la direzione del fuoco verso persone sono elementi che, complessivamente considerati, possono fondare una condanna per tentato omicidio, superando le obiezioni basate sulle concrete difficoltà di mira o sulle condizioni ambientali sfavorevoli. La decisione riafferma la centralità dell’analisi della condotta nel suo insieme per accertare la reale intenzione dell’agente.

Come si prova l’intenzione di uccidere (animus necandi) in un caso di tentato omicidio con arma da fuoco senza confessione?
L’intenzione di uccidere si prova attraverso l’analisi di elementi oggettivi e sintomatici della condotta. Secondo la sentenza, sono rilevanti la reiterazione dei colpi, il tipo di arma usata, la zona corporea a cui i colpi sono diretti (in questo caso, ad altezza d’uomo), la distanza tra l’aggressore e la vittima e il movente del gesto.

La grande distanza tra chi spara e il bersaglio esclude automaticamente il tentato omicidio?
No. La Corte ha chiarito che la notevole distanza (nel caso di specie, 45-50 metri), così come la scarsa visibilità notturna e la presenza di ostacoli, non escludono di per sé il tentato omicidio. Questi elementi devono essere valutati nel contesto complessivo dell’azione, ma la volontà omicida può essere comunque provata dalla pluralità di colpi esplosi in direzione delle vittime.

Cosa succede se i colpi non raggiungono il bersaglio o colpiscono un’altra auto?
Anche se i colpi non attingono la vittima designata, o colpiscono un altro oggetto come accaduto nel caso specifico, il reato di tentato omicidio può comunque sussistere. Ciò che rileva è che l’azione sia stata idonea a cagionare la morte e diretta in modo non equivoco a tale fine. L’esplosione di più colpi in direzione di persone è considerata un’azione idonea e univoca.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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