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Tentato omicidio: i criteri per l’intento di uccidere

Un uomo, condannato per tentato omicidio per aver accoltellato un altro individuo durante una lite, ricorre in Cassazione. Sostiene che si trattasse solo di lesioni e che le dichiarazioni della vittima, resasi irreperibile, fossero inutilizzabili. La Corte Suprema dichiara il ricorso inammissibile, confermando che nel rito abbreviato le prove raccolte in indagine sono pienamente utilizzabili. Inoltre, ribadisce che l’intento di uccidere (animus necandi) si desume da elementi oggettivi come l’arma usata, la zona del corpo colpita e la violenza dell’azione, configurando correttamente il tentato omicidio.

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Pubblicato il 19 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Tentato omicidio: quando un’aggressione rivela l’intento di uccidere

Stabilire il confine tra lesioni personali aggravate e tentato omicidio è una delle sfide più complesse nel diritto penale. La differenza non risiede solo nella gravità del danno fisico, ma soprattutto nell’intenzione dell’aggressore. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha ribadito i criteri fondamentali per accertare la volontà di uccidere, il cosiddetto animus necandi, fornendo chiarimenti cruciali su come interpretare gli elementi oggettivi di un’aggressione.

I Fatti del Caso: un’aggressione con coltello

Il caso ha origine da una violenta discussione tra due uomini. Durante l’alterco, uno dei due estrae un coltello multiuso con una lama di sei centimetri e colpisce l’altro con due fendenti alla regione sottomammaria sinistra, gridando “ti ammazzo, ti ammazzo”. La vittima riporta lesioni giudicate guaribili in trenta giorni. L’aggressore viene fermato solo dall’intervento di altre persone presenti, che gli impediscono di continuare l’attacco e lo costringono alla fuga.

Condannato in primo grado e in appello per tentato omicidio e porto abusivo di armi, l’imputato presenta ricorso in Cassazione, contestando la qualificazione del fatto e sollevando diverse questioni procedurali e di merito.

I Motivi del Ricorso in Cassazione

La difesa ha articolato il ricorso su cinque punti principali:
1. Inutilizzabilità delle dichiarazioni della vittima: Si sosteneva che le dichiarazioni rese dalla persona offesa durante le indagini non potessero essere usate, poiché quest’ultima si era resa volontariamente irreperibile, sottraendosi all’esame in un incidente probatorio.
2. Errata qualificazione del reato: La difesa chiedeva di derubricare il reato da tentato omicidio a lesioni personali, ritenendo non provati gli elementi oggettivi (idoneità degli atti a uccidere) e soggettivi (l’intento omicida).
3. Mancato riconoscimento dell’eccesso colposo in legittima difesa: Si invocava l’applicazione della scriminante, sostenendo che l’azione fosse nata da una lite violenta con aggressioni reciproche.
4. Mancata concessione delle attenuanti generiche: Si contestava il diniego delle attenuanti, basato sui precedenti penali dell’imputato.
5. Pena eccessiva: La pena inflitta era considerata sproporzionata.

L’analisi della Corte sul Tentato Omicidio

La Corte di Cassazione ha rigettato tutti i motivi, dichiarando il ricorso inammissibile. La sentenza offre spunti fondamentali sulla distinzione tra tentato omicidio e lesioni.

L’utilizzabilità delle prove nel rito abbreviato

Innanzitutto, la Corte ha chiarito che nel giudizio abbreviato, scelto dall’imputato, le regole sulla formazione della prova sono diverse da quelle del dibattimento ordinario. In questo rito, le dichiarazioni raccolte durante le indagini preliminari sono pienamente utilizzabili, anche se la persona che le ha rese si sottrae volontariamente all’esame. La scelta del rito abbreviato implica l’accettazione del fascicolo del pubblico ministero così com’è.

I criteri per l’accertamento dell'”Animus Necandi”

Il punto centrale della decisione riguarda la corretta qualificazione del fatto come tentato omicidio. La Corte ha ribadito che, in assenza di una confessione, l’intento di uccidere (animus necandi) deve essere desunto da una serie di indicatori oggettivi e fattuali. Nel caso di specie, questi elementi erano inequivocabili:
* L’arma utilizzata: Un coltello a serramanico con una lama di 6 cm, definito un’arma “micidiale” con buona capacità di penetrazione.
* La zona del corpo colpita: La regione sottomammaria sinistra, un’area anatomica dove si trovano organi vitali, primo fra tutti il cuore.
* La modalità dell’azione: Una pluralità di colpi inferti con “notevole forza”, tanto da penetrare per almeno 2,6 centimetri, e l’aggressione interrotta solo dall’intervento esterno.
* Le parole pronunciate: Le frasi “ti ammazzo, ti ammazzo”, che manifestano esplicitamente l’intenzione omicida e sono coerenti con la violenza dell’azione.

Le Motivazioni della Decisione

La Corte ha spiegato che la valutazione sull’idoneità degli atti a causare la morte non deve basarsi su un criterio probabilistico, ma sulla “possibilità” che l’azione produca l’evento letale. L’azione è stata ritenuta idonea perché l’arma usata poteva raggiungere e ledere il cuore, causando il decesso in pochi minuti. La scarsa entità finale delle lesioni non è sufficiente a escludere il dolo omicidiario, poiché può dipendere da fattori indipendenti dalla volontà dell’agente, come un movimento della vittima o una mira imprecisa.

Anche la richiesta di applicare la legittima difesa è stata respinta, poiché non vi era alcuna prova di un’aggressione ingiusta da parte della vittima. Anzi, è emerso che era stato l’imputato a iniziare la colluttazione fisica. Infine, la mancata concessione delle attenuanti generiche è stata giustificata dalla gravità del reato, dall’intensità del dolo e dai precedenti penali dell’imputato, elementi che delineano una significativa capacità a delinquere.

Le Conclusioni

Questa sentenza riafferma un principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità: per distinguere il tentato omicidio dalle lesioni personali, è necessario condurre un’analisi complessiva di tutti gli elementi fattuali. L’intenzione di uccidere non deve essere provata direttamente, ma può essere logicamente desunta dal tipo di arma, dalla parte del corpo attinta, dalla violenza e dalla reiterazione dei colpi. La decisione sottolinea come la condotta materiale, nel suo insieme, sia lo specchio più fedele dell’intenzione criminale dell’agente.

Quando un’aggressione fisica si qualifica come tentato omicidio e non come semplici lesioni?
Si qualifica come tentato omicidio quando gli atti compiuti sono, per la loro natura e contesto, idonei a causare la morte e diretti in modo inequivocabile a tale scopo. L’intenzione di uccidere (animus necandi) viene desunta da elementi oggettivi quali il tipo di arma usata (es. un coltello con capacità di penetrazione), la zona del corpo colpita (es. torace, vicino a organi vitali), il numero e la violenza dei colpi, e le parole pronunciate durante l’aggressione.

Nel rito abbreviato, le dichiarazioni rese da una vittima che poi diventa irreperibile possono essere usate per la condanna?
Sì. La Corte di Cassazione ha confermato che nel giudizio abbreviato, che si basa sugli atti delle indagini preliminari, le dichiarazioni rese da una persona poi resasi volontariamente irreperibile sono pienamente utilizzabili. La scelta di questo rito da parte dell’imputato comporta l’accettazione del materiale probatorio raccolto in fase di indagine.

La scarsa gravità delle ferite riportate dalla vittima può escludere il reato di tentato omicidio?
No, la scarsa entità delle lesioni non è di per sé sufficiente a escludere l’intenzione omicida. Il mancato verificarsi della morte o di lesioni più gravi può dipendere da fattori indipendenti dalla volontà dell’aggressore, come un movimento improvviso della vittima, un errore di mira o l’intervento di terzi. Ciò che conta è che l’azione, al momento in cui è stata compiuta, fosse idonea a provocare la morte.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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