Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 19450 Anno 2025
In nome del Popolo Italiano
PRIMA SEZIONE PENALE
Penale Sent. Sez. 1 Num. 19450 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 25/02/2025
– Presidente –
NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME CARMINE RUSSO
SENTENZA
sul ricorso proposto da: NOME COGNOME nato in Egitto il 01/05/2002
avverso la sentenza del 07/10/2024 della Corte d’appello di Milano Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
letta la requisitoria scritta del Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME che ha chiesto la declaratoria d’inammissibilità del ricorso
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza in preambolo la Corte di appello di Milano ha confermato quella con la quale il Tribunale della stessa città, in data 26 febbraio 2024, aveva ritenuto NOME COGNOME responsabile dei reati di tentato omicidio pluriaggravato (commissione del fatto in orario notturno, numero dei soggetti agenti e futili motivi) ai danni di NOME COGNOME (capo 1), di porto ingiustificato del coltello utilizzato per commetterlo (capo 3), di lesioni ai danni di NOME COGNOME nell’occasione intervenuto in difesa di COGNOME (capo 2), infine di violenza privata e lesioni in danno del vigilante di NOME COGNOME (capi 4 e 5) e – unificati in fatti ai sensi dell’art. 81, secondo comma, cod. pen. – l’aveva condannato alla pena di quattordici anni di reclusione.
Secondo il conforme accertamento dei giudici di merito, le imputazioni riguardano due distinte vicende avvenute nella notte tra il 5 e il 6marzo 2022 che avevano visto il coinvolgimento, quali autori, dell’odierno ricorrente, unitamente al medesimo gruppo di persone, giudicate con separato processo.
La prima vicenda si svolgeva nella tarda serata del 5 marzo, presso l’esercizio commerciale RAGIONE_SOCIALE della stazione centrale di Milano, dove il ricorrente, unitamente ai correi, aggrediva senza alcun motivo NOME COGNOME che stava svolgendo attività di vigilanza presso il menzionato esercizio commerciale, cagionandogli le lesioni di cui al capo 5).
La seconda vicenda aveva luogo nelle primissime ore del 6 marzo, in una piazza della stessa città e vedeva NOME COGNOME vittima della condotta aggressiva del ricorrente che, in concorso con lo stesso gruppo di giovani che l’avevano affiancato nel precedente episodio, lo colpiva con quattro fendenti, attingendolo due volte alla schiena, quindi al torace e alla gamba e lo spintonava con forza contro il tronco di un albero, così da causargli, oltre alle ferite da punta e taglio, anche la frattura
dello zigomo sinistro; ciò faceva mentre era coadiuvato nell’azione dai complici che, difatti, colpivano con calci e pugni NOME COGNOME intervenuto per frapporsi tra l’aggressore e la vittima.
Per quanto qui d’interesse, i Giudici di merito hanno concordemente escluso la possibilità di qualificare il fatto di cui al capo 1) d’imputazione come reato di lesioni volontarie aggravate, valorizzando la credibile ricostruzione offerta dalla persona offesa e ritenendo priva di qualsiasi appiglio obiettivo l’ipotesi alternativa sostenuta dall’imputato, secondo cui egli si sarebbe trovato coinvolto in una rissa e, in un momento di minorata difesa, aveva deciso di brandire il coltello all’indirizzo della persona che si trovava piø vicina a lui, non già per cagionarne la morte, bensì per allontanarla.
Quanto al trattamento sanzionatorio, con un giudizio altrettanto conforme, i giudici di merito hanno ritenuto insussistente qualsiasi elemento positivamente valutabile ai fini del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
COGNOME ricorre per cassazione, per mezzo del difensore di fiducia avv. NOME COGNOME e deduce due motivi.
3.1. Con il primo, deduce il vizio di motivazione in punto di mancata riqualificazione del fatto di tentato omicidio contestato al capo 1) dell’imputazione come di lesioni volontarie aggravate.
Il ricorrente imputa al Giudice di appello di avere, al fine di confermare la qualificazione giuridica ritenuta nella sentenza di primo grado, utilizzato un chiaro clichØ , segnatamente quello della gang i cui membri agiscono con la volontà di uccidere, trascurando però l’assenza di movente, la superficialità dei colpi, l’incensuratezza di NOME (mai denunciato, fino a quel momento, per fatti di tale gravità), infine il comportamento serbato dopo ai fatti; tutti elementi che renderebbero «inconciliabile la condanna a quattordici anni per il reato di tentato omicidio con gli accadimenti del 6 marzo 2022».
Il ricorrente dubita dell’attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa e dei testimoni oculari, questi ultimi non neutrali perchØ amici della vittima, e insiste nella plausibilità della ricostruzione alternativa dell’inquadramento dell’azione di Attia nell’ambito di una rissa, ricostruzione – a suo avviso – “liquidata” dal Giudice di secondo grado con una scarna motivazione, nonostante dal certificato medico in atti risultasse che le ferite da taglio patite dalla vittima fossero superficiali, chiaro indice della limitata forza con cui i colpi furono inferti.
Si denuncia altresì la genericità dell’indicazione delle parti del corpo coinvolte e ritenute vitali, l’omessa precisione sull’intensità dei colpi inferti e, soprattutto, il mancato confronto con il blackout che la vittima ha ammesso di avere avuto dopo lo spintone. Proprio alla luce di tale elemento si evidenzia nel ricorso che, ove NOME avesse voluto, sarebbe certamente riuscito a uccidere il soggetto inerme.
¨ inoltre lamentata l’omessa valorizzazione della circostanza, riferita dal teste verbalizzante che visionò le telecamere, che tutto il gruppo degli aggressori, ivi compreso l’imputato, dopo il fatto oggetto di contestazione, non si diedero alla fuga, allontanandosi da quel luogo con un’andatura normale.
Da ultimo, il ricorrente lamenta l’omessa valutazione del percorso di recupero intrapreso dall’imputato, come attestato dai medici operanti nelle strutture pubbliche che l’hanno, a vario titolo, preso in carico.
In conclusione – giusta la tesi del ricorrente – i giudici di merito, pur alla presenza di esplicite circostanze che evidenziavano l’assoluta assenza di volontà di uccidere, si sarebbero «concentrati sul pedigree dell’imputato», valorizzando – ai fini dell’individuazione dell’atteggiamento psicologico per il reato sub 1) – quanto accaduto poco prima, nei pressi dell’esercizio commerciale INDIRIZZO.
3.2. Con il secondo motivo deduce il vizio di motivazione in punto di ribadito diniego delle
circostanze attenuanti generiche.
Il ricorrente lamenta in primo luogo l’erroneità dell’affermazione del Giudice d’appello secondo cui il motivo riguardante le circostanze attenuanti generiche sarebbe privo di specificità.
Inoltre, denuncia l’evidente, errato, collegamento tra il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e il comportamento processuale dell’imputato, che i Giudici di merito hanno posto a fondamento della decisione recettiva. Si osserva che – diversamente da quanto affermato dal Giudice di secondo grado in merito alla neutralità della scelta dell’imputato, per il tramite del difensore, di prestare il consenso all’utilizzabilità degli atti d’indagine, salvo a chiedere l’ascolto dei testi presenti al fatto di cui al capo 1) – detta scelta aveva, comunque, consentito una rapida conclusione del giudizio di primo grado. In ogni caso, la motivazione imperniata sulla scelta processuale, si scontrerebbe con il principio espresso in sede di legittimità secondo cui Ł illegittimo il diniego delle circostanze attenuanti generiche in ragione del comportamento processuale dell’imputato.
Sotto altro profilo, il ricorrente denuncia la non adeguata considerazione il comportamento successivo al reato e, segnatamente, la circostanza che nei dieci mesi successivi ai fatti oggetto del processo l’imputato non Ł stato mai segnalato per fatti integranti reato, espressione del già iniziato percorso di riflessione sulla propria condotta. Il Giudice di appello, dunque, non avrebbe fatto buon governo del principio espresso in sede di legittimità, secondo cui la valutazione delle circostanze attenuanti generiche non può prescindere dalla condotta tenuta dall’imputato in seguito alla commissione del reato, perchØ rivelatrice della sua personalità e, dunque, della sua capacità a delinquere.
Il Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME intervenuto con requisitoria scritta in data 6 febbraio 2025, ha concluso chiedendo la declaratoria d’inammissibilità del ricorso.
In data 18 febbraio 2025 la difesa del ricorrente ha depositato conclusioni scritte con le quali ha insistito nell’accoglimento dei motivi di ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Nessuno dei motivi supera il vaglio di ammissibilità.
Il primo motivo, con il quale il ricorrente lamenta la mancata diversa qualificazione del fatto come lesioni volontarie aggravate, Ł inammissibile sotto piø profili.
1.1. In primo luogo esso, per il suo carattere discorsivo, si risolve in una generalizzata critica della sentenza di appello, ben lontana dalla necessaria ragionata censura del provvedimento impugnato, non permettendo di percepire con esattezza l’oggetto delle censure e un ordinato inquadramento delle ragioni di doglianza nella griglia dei vizi di legittimità deducibili ai sensi dell’art. 606 cod. proc. pen. (Sez. 2, n. 3126 del 29/11/2023, dep. 2024, COGNOME, Rv. 285800 – 01; Sez. 2, n. 29607 del 14/05/2019, COGNOME, Rv. 276748 – 01). Si Ł, in particolare, chiarito (Sez. 2, n. 38676 del 24/05/2019, COGNOME, Rv. 277518 – 02) che il ricorrente che intenda denunciare contestualmente, con riguardo al medesimo capo o punto della decisione impugnata, i tre vizi della motivazione deducibili in sede di legittimità ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., ha l’onere – sanzionato a pena di a-specificità, e quindi di inammissibilità, del ricorso – di indicare su quale profilo ritenga
mancante, in quali parti si appalesi contraddittoria, in quali manifestamente illogica, non potendo attribuirsi al giudice di legittimità la funzione di rielaborare l’impugnazione, al fine di estrarre, dal coacervo indifferenziato dei motivi, quelli suscettibili di un utile scrutinio, in quanto i motivi aventi a oggetto tutti i vizi della motivazione sono, per espressa previsione di legge, eterogenei e incompatibili, quindi non suscettibili di sovrapporsi e cumularsi in riferimento ad un medesimo segmento della motivazione.
Sotto altro, connesso, profilo il primo motivo si risolve in una pedissequa reiterazione di quello già dedotto in appello e puntualmente disatteso dalla Corte di merito – come si dirà al seguente § 1.2), dovendosi pertanto considerare non specifico e soltanto apparente, in quanto omette di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Sez. 2, n. 42046 del 17/07/2019, COGNOME, Rv. 277710 – 01).
Da ultimo, il ricorrente prospetta versioni alternative dell’occorso, che presupporrebbero il diretto accesso al merito da parte di questa Corte, secondo lo schema tipico di un gravame puro, che viceversa esula dalle funzioni dello scrutinio di legittimità (Sez. 6 n. 13442 dell’8/03/2016, Rv. 266924; Sez. 6 n. 43963 del 30/09/2013, Rv. 258153). Quest’ultimo non può concernere nØ la ricostruzione del fatto, nØ il relativo apprezzamento probatorio, ma deve limitarsi al riscontro dell’esistenza di un solido e convincente apparato motivazionale, ossia alla verifica della rispondenza degli elementi, posti a base della decisione, alle regole della logica e a canoni di rigore argomentativo, che rendano giustificate sul piano della consequenzialità, le conclusioni tratte (cfr. Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, COGNOME, Rv. 226074). A tali regole e canoni la sentenza impugnata si conforma appieno. Essa offre, infatti, una lettura ineccepibile delle risultanze processuali, passate esaustivamente in rassegna, e dà puntuale conto dei convergenti elementi, anche di natura logica, che integrano il quadro di responsabilità di NOME, per il reato di tentato omicidio oggetto di ricorso; quadro per nulla intaccato dalle censure difensive.
1.2. Ciò premesso, la sentenza impugnata (p. 11 e s.), in linea con le valutazioni già espresse dal Giudice di primo grado, ha chiarito che l’animus necandi Ł stato accertato assegnando valore determinante alla complessiva condotta di NOME, attraverso una corretta valorizzazione della pericolosità dell’arma (un coltello a scatto di quattordici cm e avente lama di circa sette cm), del numero dei fendenti (quattro) e dei distretti corporei attinti (schiena e torace), infine della presenza di numerosi colpi “andati a vuoto”.
La Corte di appello ha superato l’assunto difensivo secondo il quale le ferite inferte potessero essere qualificate come «mere punzecchiature», richiamando (p. 13) le risultanze delle certificazioni mediche che hanno dato contezza di «una ferita penetrante all’emitorace sinistra e due ferite penetranti a livello dorsale paravertebrale», osservando altresì che anche la ferita a livello della coscia sinistra aveva provocato un copioso sanguinamento, tanto che era stata tamponata con mezzi di fortuna prima dell’intervento dell’autoambulanza.
E’ stata fornita risposta alla deduzione difensiva riguardante la mancata fuga dell’imputato dopo il fatto, evidenziandosi – con motivazione assolutamente priva di fratture razionali – che costituiva un dato irrilevante che l’imputato non avesse completato il proposito criminoso inseguendo la vittima dopo averla ripetutamente colpita, poichØ, una volta consumato già il reato nei termini indicati, detta scelta era stata dettata da un fattore occasionale, indipendente dalla sua volontà, costituito dall’intervento degli amici della persona offesa, che – intervenuti in suo aiuto – erano riusciti a trascinarlo in una zona illuminata, così esponendo l’imputato alla scelta sul se proseguire nell’azione (rischiando di poter essere piø facilmente identificato) oppure allontanarsi, come effettivamente avvenuto.
La circostanza – enfatizzata nell’appello, così come nel ricorso – dell’allontanamento dell’imputato senza “darsi alla fuga” Ł stata ritenuta, senza alcuna manifesta illogicità, tutt’altro che
un elemento a favore di NOME al contrario dimostrativa della sua capacità criminale poichØ questi, per nulla turbato da ciò che aveva fatto, si era allontanato con una «freddezza paragonabile a quella dei delinquenti professionali».
Infine, Ł del tutto destituita di fondamento la censura che addebita alla Corte di appello di non avere tenuto conto della condotta successiva al reato, invece analiticamente presa in considerazione a p. 15 della sentenza impugnata, laddove si sono indicati numerosi elementi convergenti in senso contrario a quanto dedotto con l’appello.
Quanto alle attenuanti generiche, la censura difensiva Ł inammissibile, perchØ a-specifica e, comunque, manifestamente infondata.
Com’Ł noto, in materia, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione Ł parimenti insindacabile in sede di legittimità, purchØ sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione (Sez. 5, n. 43952 del 13/4/2017, COGNOME, Rv. 271269; Sez. 2, n. 3896 del 20/1/2016, COGNOME, Rv. 265826; Sez. 3, n. 28535 del 19/3/2014, COGNOME, Rv. 259899).
Ebbene, nel caso che ci occupa, non Ł superfluo porre in rilievo come (p. 17 della sentenza di appello) l’imputato abbia invocato il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche «solo nelle conclusioni dell’atto di gravame» ed in modo generico, senza l’indicazione di elementi positivamente valutabili a tali fini.
Ciò nonostante, rileva ancora il Collegio, entrambe le sentenze impugnate hanno correttamente argomentato il diniego del beneficio mediante il puntuale richiamo alla personalità negativa dell’imputato, del quale sono stati richiamati la gravità della condotta, il compiacimento da questi mostrato (attraverso le indagini svolte su telefoni cellulare e profili social) per il possesso di denaro, armi da sparo e da punta e taglio e stupefacente (p. 27 della sentenza di primo grado), in uno con l’assenza di elementi suscettibili di positiva valutazione.
Tale motivazione – non manifestamente illogica e non avversata dal ricorrente in modo specifico – si pone nell’alveo della giurisprudenza di legittimità secondo cui, ai fini della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti generiche, Ł sufficiente che il giudice di merito prenda in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 cod. pen., quello (o quelli) che ritiene prevalente e atto a consigliare o meno la concessione del beneficio; e il relativo apprezzamento discrezionale, laddove supportato da una motivazione idonea a far emergere in misura sufficiente il pensiero dello stesso giudice circa l’adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo, non Ł censurabile in sede di legittimità se congruamente motivato. Ciò vale anche per il giudice d’appello, che – pur non dovendo trascurare le argomentazioni difensive dell’appellante – non Ł tenuto a un’analitica valutazione di tutti gli elementi, favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti, ma, in una visione globale di ogni particolarità del caso, Ł sufficiente che dia l’indicazione di quelli ritenuti rilevanti e decisivi ai fini della concessione o del diniego, rimanendo implicitamente disattesi e superati tutti gli altri, pur in carenza di stretta contestazione ( ex multis Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Marigliano, Rv. 279549 – 02; Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010, Giovane, Rv. 248244 01).
Quanto, poi, al dedotto «buon comportamento successivo al reato» se Ł ben vero che «in tema di concessione delle circostanze attenuanti generiche, a seguito della sentenza della Corte Cost. n. 182 del 2011, rientra tra gli elementi di cui il giudice deve tener conto, secondo i criteri dell’art. 133 cod. pen., anche la condotta positiva del condannato successiva al reato», Ł stato chiarito che può «esserne escluso il rilievo con motivazione fondata su altre, preponderanti, ragioni della decisione, non sindacabile in sede di legittimità se non contraddittoria» (Sez. 3, n. 1913 del 20/12/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 275509 – 03, in cui Ł stata ritenuta corretta la mancata concessione motivata in
ragione della gravità del fatto); ciò che la Corte di appello ha fatto, con motivazione ineccepibile.
Per le ragioni sin qui esposte, l’impugnazione deve essere dichiarata inammissibile.
Alla declaratoria d’inammissibilità del ricorso consegue il pagamento delle spese processuali e – per i profili di colpa connessi all’irritualità dell’impugnazione (Corte cost. n. 186 del 2000) – della somma di euro tremila ciascuno in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spse processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così Ł deciso, 25/02/2025 Il Consigliere estensore NOME COGNOME
Il Presidente NOME COGNOME