Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 26178 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 26178 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 22/05/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto dal Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Catanzaro nei confronti di: COGNOME NOME, nato a Curinga (CZ) il DATA_NASCITA e di: COGNOME NOME, nato a Catanzaro in data DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 3.7.2023 della Corte di appello di Catanzaro.
Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME AVV_NOTAIO, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio; uditi i difensori degli imputati, AVV_NOTAIO e AVV_NOTAIO COGNOME COGNOME, COGNOME che COGNOME hanno concluso COGNOME chiedendo COGNOME la inammissibilità del ricorso.
(2,
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza sopra indicata, la Corte di appello di Catanzaro – in parziale riforma della sentenza emessa dal Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Catanzaro- assolveva per insussistenza del fatto NOME COGNOME ed NOME COGNOME, imputati il primo del reato di favoreggiamento personale e il secondo dei reati di favoreggiamento personale e di falsa testimonianza, aggravati dall’agevolazione mafiosa, e confermava nel resto la condanna per tentata estorsione a carico di NOME COGNOME e NOME COGNOME.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso il Procuratore generale presso la Corte di appello di Catanzaro, denunziando contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.
La Corte distrettuale- nell’affermare che la richiesta estorsiva non fosse venuta a conoscenza dei fratelli COGNOME– aveva offerto una ricostruzione della vicenda contrastante:
con il giudicato di condanna formatosi sul reato presupposto di tentata estorsione sub capo a) a carico di NOME COGNOME e NOME COGNOME, non essendo la fattispecie – in base alla differente ricostruzione operata dalla Corte- sussumibile nel tentativo di estorsione, ma riconducibile ai cc.dd. “atti preparatori” non punibili;
con la “contestazione”, laddove la mancata consumazione del reato di estorsione era dipesa dal fermo di PG e non dalla mancata conoscenza della richiesta estorsiva in capo alle vittime.
La Corte di appello aveva omesso di valutare le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, che consentivano di affermare come la richiesta estorsiva avanzata dal clan COGNOME venne a conoscenza degli COGNOME.
Il PG e i difensori dei ricorrenti hanno concluso come in epigrafe. Il difensore della P.C., Comune di Lametia Terme, in data 3 maggio 2024, ha inoltrato memorie scritte, chiedendo raccoglimento del ricorso presentato dal Procuratore generale e la condanna degli imputati al risarcimento del danno oltre spese processuali
CONSIDERATO IN DIRITTO
Ritiene la Corte che il ricorso non superi il vaglio di ammissibilità.
(;n
1.1. La trama argomentativa della sentenza, saldamente ancorata al dato probatorio, non presenta alcuno dei vulnus motivazionali, denunciati dal ricorrente. Il ragionamento svolto dalla Corte distrettuale non è affatto monco ed incongruo, perché basato su rigorosa valutazione della prova dichiarativa e lettura sinottica del compendio probatorio. I Giudici di appello, pur evidenziando che il COGNOME avesse incaricato NOME COGNOME di veicolare la richiesta estorsiva ai fratelli COGNOME ( «di seguire la questione con gli COGNOME») e che lo stesso COGNOME avesse ammesso di avere avvicinato le “vittime” per il tramite di NOME COGNOME, ritenevano che gli COGNOME potessero ragionevolmente ignorare l’an della richiesta estorsiva loro rivolta, perché il COGNOME non era stato in grado di riferire se e in che termini il predetto COGNOME, nelle more deceduto, si fosse adoperato (sent. pagg. 9 e ss ).
1.2. raccusa” di una lettura parziale e parcellizzata della informazione probatoria non si confronta con tale apparato motivazionale e declina nella sostanza una rilettura e reinterpretazione nel merito dell’elemento di prova, non consentita. Ora per quanto la produzione dei verbali, aventi ad oggetto le dichiarazioni rese dai collaboratori, sembri evocare il vizio di motivazione sub specie di “travisamento della prova”, purtuttavia è lo stesso contenuto della doglianza che- palesando una erronea interpretazione del dato probatorio e sollecitando la Corte ad una nuova lettura – esclude ab imis il paventato travisamento.
Al proposito, è utile osservare che il travisamento della prova si configura solo quando il giudice di merito abbia utilizzato una prova inesistente o abbia presupposto come esistente una prova mai assunta, e sempreché il travisamento abbia avuto ad oggetto una prova decisiva nell’ambito dell’apparato motivazionale che si critica (Sez. 5, n 3044 del 22/06/2006). Al contrario, la critica che investa l’apprezzamento della valenza dimostrativa del “dato probatorio”, ossia del suo “significato”, postula una rivisitazione dell’iter costruttivo del fatto, che esula dai poteri della Corte di cassazione ed è riservata in via esclusiva al giudice di merito. Non può quindi mai integrare vizio di legittimità la prospettazione di una diversa valutazione delle risultanze processuali ritenute dal ricorrente più adeguate (Sez. U, n. 6402 del 2/07/1997, Dessimone, Rv. 207944).
Costituisce ius receptum il principio secondo cui la sentenza non può essere annullata sulla base di ricostruzioni alternative che si risolvano in una rilettura orientata degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione ovvero nell’assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferire rispetto a quelli adottati dal giudice del
3 COGNOME
()r
merito, perché considerati maggiormente plausibili, o perché assertivamente ritenuti dotati di una migliore capacità esplicativa (ex multis, Sez. 6, n 47204 del 7/10/2015, COGNOME, rv. 265482; Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006, COGNOME, rv. 234148). Compito del giudice di legittimità – nel sindacato sui vizi della motivazione- non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito, ma quello di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando completa e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre. Sono dunque censure di merito, inammissibili nel giudizio di legittimità, tutte quelle che attengono a “vizi” diversi dalla mancanza di motivazione, dalla sua “manifesta illogicità”, dalla sua “contraddittorietà su aspetti essenziali”, perché idonei a condurre ad una diversa conclusione del processo (così, Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015).
E’ evidente, allora, come il ricorso in esame, dietro il fragile schermo del vizio di motivazione intenda in realtà suffragare una diversa lettura delle risultanze processuali rispetto a quelle compiuta dal giudice di merito: il che – non sussistendo alcun profilo di illogicità manifesta e travisamento della prova nel ragionamento svolto con la pronuncia oggetto di ricorso – si colloca al di là del perimetro in cui è chiamato ad operare il giudizio di legittimità.
L’apparato motivazionale non è censurabile nemmeno sotto il profilo della “insanabile intrinseca contraddizione”, rinvenibile -secondo il ricorrente- nell’avere la Corte di appello ravvisato il delitto di tentat estorsione nonostante gli COGNOME fossero rimasti all’oscuro della richiesta esto rs i va .
Ancora una volta è utile evidenziare come dalla ricostruzione in fatto, operata in sentenza, sia emerso che il capo clan NOME COGNOME non solo avesse pensato di estorcere danaro ai fratelli COGNOME, ma avesse manifestato tale proposito criminoso e dato l’input all’iter criminis, incaricando il fidato COGNOME.
Un tale modus operandi a prescindere dalla effettiva conoscenza in capo agli COGNOME della richiesta di danaro – è sussumibile nella fattispecie del delitto tentato ex art. 56 cod. pen. perché si è comunque in concreto tradotto nel compimento di atti univocamente diretti e finalizzati alla commissione del reato di cui all’art. 629 cod. pen.; l’attività è ex se univoca , perché oggettivamente rivelatrice- per il contesto nella quale si è inserita e
secondo l’id quod plerumque acdditdel fine per -seguito, ovvero ottenere sine titulo dai due imprenditori danaro per potere eseguire i lavori edili in “tranquillità” (ex multis, Sez.1, n. 9284 del 10/01/2014,COGNOME; Sez. 6, n 46796 del 18/10/2023 « la direzione non equivoca degli atti non indica un parametro probatorio ma una caratteristica oggettiva della condotta, nel senso che gli atti posti in essere devono di per sè rivelare l’intenzione dell’agente sulla base di un giudizio ex ante, tenendo conto delle circostanze in cui opera l’agente e delle modalità dell’azione, in modo da determinarne la reale adeguatezza causale e l’attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto dalla norma incriminatrice»).
Ovviamente, nonostante la idoneità ed univocità degli atti, il delitto può non giungere a consumazione, o perché l’azione non si compie o perché l’evento non si verifica (ex art. 56 cod. pen.). Può infatti accadere che, nei reati di evento, come quello in oggetto, l’evento può non realizzarsi perché la condotta non è stata completamente realizzata (i.e. tentativo incompiuto).
3.1. Ora, nel caso di specie, poiché la condotta si è dipanata lungo un «processo esecutivo frazionabile» e non si è esaurita in un unico atto, è possibile sul piano logico e anche giuridico che la richiesta estorsiva, esternata e fuoriuscita dal foro interno del propalante, non sia tuttavia giunta, per cause non dipendenti dalla volontà degli “estorsori”, a conoscenza delle vittime designate.
Nessuna incompatibilità logico giuridica permea il ragionamento seguito dalla Corte di appello.
Per completezza, aggiungasi che, già sulla base della ricostruzione operata dai giudici di merito, il reato di favoreggiamento personale contestato agli COGNOME non sarebbe comunque ipotizzabile. Nemmeno di ausilio appare il ricorso del Procuratore generale che non ha prospettato alcun elemento da cui inferire che la condotta reticente degli COGNOME trItrà§”reabz3e fosse finalizzata ad aiutare il clan COGNOME o ad eludere le investigazioni.
Al proposito si osserva che il reato di favoreggiamento consiste in una condotta “mirata” ad impedire/ostacolare le indagini, rispetto alla quale è sufficiente il dolo generico. (ex pluribus, Cass., Sez. 1, 9 ottobre 2002, COGNOME ed altri; Cass., Sez. 1, 18 giugno 1999, COGNOME ed altro; Cass., Sez. 1, 6 maggio 1999, COGNOME; Sez. 6 n. 15923 del 05/03/2013 Rv. 254707 – 01 Imp. COGNOME; Sez. F, n. 38236 del 03/09/2004,Rv. 229649 – 01). Occorre, dunque, la volontà cosciente di aiutare colui- che si sa sottoposto alle investigazioni o ricerche- a sottrarsene e la conoscenza in capo
all’agente del presupposto della condotta; inoltre, la condotta, pur oggettivamente apprezzabile in termini di ausilio, deve essere stata percepita e voluta dall’agente come diretta a frustrare l’attività di investigazione o di ricerca dell’autorità. Di conseguenza, dovrà escludersi la configurabilità del favoreggiamento ogni qualvolta l’aiuto prestato, pur se tale da ostacolare in concreto l’attività di investigazione o di ricerca dell’autorità, non risulti essere stato soggettivamente diretto a tale scopo (ex multis Sez. F, n. 38236 del 03/09/2004, Rv. 229649-01: «ai fini della configurabilità dei reati di favoreggiamento personale e reale occorre, sotto il profilo soggettivo, che la condotta favoreggiatrice sia stata posta in essere ad esclusivo vantaggio del soggetto favorito, per cui i suddetti reati restano esclusi qualora l’agente abbia avuto di mira il conseguimento di interessi propri»).
Le sentenze di merito non forniscono informazioni utili al riguardo, registrandosi piuttosto una commistione tra piani -che debbono rimanere distinti- non potendo dalla mera reticenza, che può rinvenire la genesi in tante ragioni (paura, compiacenza, aiuto), trarsi eo ipso la prova di una condotta mirata ad aiutare e/o ad eludere le investigazioni.
P. Q. M.