Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 1730 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 1730 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 13/11/2024
SENTENZA
Sui ricorsi proposti da:
COGNOME NOME nata il 14/07/1966 a VERONA COGNOME NOME nato il 01/03/1954 a MONOPOLI avverso la sentenza in data 06/03(2024 della CORTE DI APPELLO DI BARI;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
letta la requisitoria del Pubblico ministero, nella persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità dei ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
NOME COGNOME e NOME COGNOME per il tramite dei rispettivi procuratori speciali e con separati ricorsi, impugnano la sentenza in data 06/03/2024 della Corte di appello di Bari, che ha confermato la sentenza in data 11/05/2017 del Tribunale di Bari, che li aveva condannati per i reati di tentativo di estorsione e di estorsione loro rispettivamente ascritti.
Deducono:
1. COGNOME
1.1. Inosservanza di norma processuale e mancanza assoluta di motivazione in relazione agli artt. 525, comma 2, cod. proc. pen..
Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente premette che con motivi aggiunti aveva dedotto la nullità della sentenza di primo grado, in quanto i giudici persone fisiche che avevano deliberato la sentenza non erano i medesimi che avevano partecipato all’istruttoria.
Specifica che la dottoressa COGNOME interveniva nel giudizio di primo grado soltanto in occasione della decisione finale, all’udienza del giorno 11/05/2017, ma non anche all’istruzione della prova, con la conseguente violazione del principio di immutabilità del giudice.
Si osserva che la Corte di appello, pur ricorrendone i presupposti, non ha dichiarato la nullità della sentenza di primo grado e non ha fornito alcuna motivazione sul punto.
1.2. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 110 e 629 cod. pen. e in riferimento all’affermazione di responsabilità per i reati contestati ai capi G) e H).
A tale proposito si osserva che la Corte di appello ha apoditticamente ritenuto credibile il racconto di NOME COGNOME nonostante la contraddittorietà della sua testimonianza, smentita da quella dell’Avvocato NOME COGNOME e dalla documentazione prodotta dalla difesa e ignorata dai giudici.
Aggiunge che già la formulazione dell’imputazione sul capo G) risulta paradossale, atteso che non considera come dalla condotta realizzata da COGNOME e COGNOME -in particolare dal pagamento della somma di denaro sotto forma di tangentederivasse una compromissione degli interessi dell’imputata.
A sostegno dell’assunto vengono illustrati e compendiati i contenuti delle dichiarazioni rese da COGNOME, il riferimento agli amici di Mola di Bari, la documentazione prodotta dalla difesa, tra cui gli scambi epistolari, il contratto di cessione del ramo d’azienda, le cambiali, la quietanza liberatoria autenticata, gli assegni, il contratto di locazione e quant’altro descritto dalla pagina 3 alla pagina 10 del ricorso, al fine di risaltare la figura di COGNOME e la sua inattendibilità soggettiva e oggettiva.
1.3. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla mancata qualificazione giuridica del fatto ai sensi dell’art. 640, comma secondo, n. 2, cod. pen..
Sotto tale profilo si assume che il fatto andava qualificato come truffa vessatoria, atteso che il pericolo paventato da COGNOME e COGNOME non proveniva da nessuno di loro, ma da generici amici di Mola di Bari, mai palesati nella vicenda e neanche fatti oggetto d’indagine.
Si rimarca come la stessa persona offesa (ossia COGNOME) precisava che COGNOME e COGNOME non minacciavano direttamente nulla, ma si limitavano a ribadirgli che le ritorsioni sarebbe avvenute a opera di soggetti terzi.
Si sottolinea, inoltre, come l’azione minacciosa di COGNOME e COGNOME non potesse avere una concreta efficacia coercitiva.
1.4. Violazione di legge e vizio di motivazione per avere ritenuto che i fatti descritti ai capi G) e H) configurassero due autonome ipotesi di reato e non, invece, una condotta unica, con le conseguenti ricadute in punto di trattamento sanzionatorio.
In questo caso la difesa fa presente che, con motivi aggiunti depositati in data 03/09/2019, non considerati dalla Corte di appello, aveva evidenziato che l’integrale ricostruzione del fatto non aveva consentito di apprezzare un elemento di cesura netta tra la fase del tentativo, contestata al capo G) e la successiva fase consumata, contestata al capo H), relativa ai pagamenti eseguiti da COGNOME per l’interessamento degli imputati COGNOME e COGNOME e infine al saldo delle somme portate dalle cambiali scadute.
Secondo la ricorrente, l’intera vicenda andava ricondotta a un unico fatto estorsivo, consumato nel momento in cui COGNOME pagava a COGNOME e a COGNOME la somma di denaro richiesta per l’intermediazione, costituente l’ingiusto profitto, distinto e separato dalla somma dovuta da COGNOME a COGNOME.
1.5. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla sussistenza del tentativo di estorsione in seno al capo G) e al conseguente doppio aumento di pena per la continuazione.
A tale proposito si osserva che in relazione al capo G) i giudici hanno ritenuto la sussistenza di due ipotesi di estorsione, una tentata e l’altra consumata, così applicando un primo aumento per il tentativo di conseguire l’originario importo pari a euro 8.000,00 e un ulteriore aumento per avere conseguito la diversa somma pari a euro 3.700,00 in relazione al reato consumato.
Ciò a fronte del costante orientamento di legittimità secondo il quale il conseguimento di una somma inferiore rispetto a quella richiesta dall’agente, non vale a fare ritenere una doppia ipotesi di reato, stante l’unicità della condotta e la sua inscindibilità.
1.6. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 116, comma secondo cod. pen..
Secondo la ricorrente, la fattispecie configura un’ipotesi di concorso anomalo, in quanto la COGNOME non poteva prefigurarsi quale fosse l’effettiva intenzione di COGNOME e del suo complice, essendo l’iniziativa promossa da questi imputati assolutamente incompatibile rispetto alla volontà di un pronto recupero di un credito, invece legittimo ed esigibile, in quanto ormai scaduto, o anche alla restituzione del ramo d’azienda.
2. RECCHIUTO NOME
2.1. Inosservanza di norma processuale e vizio di motivazione, per violazione del diritto di difesa, in relazione agli artt. 178, lett. c), 108 cod. proc. pen. e dell’a 111, comma secondo della costituzione. Travisamento dei fatti e manifesta illogicità della sentenza di appello.
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Il ricorrente premette che, all’udienza del 29/01/2015, il difensore chiedeva al Collegio un rinvio ai sensi dell’art. 108 cod. proc. pen., evidenziando che aveva ricevuto l’incarico soltanto il giorno stesso dell’udienza, così rendendosi necessario un termine per apprestare la difesa, dovendosi preparare in relazione all’esame dei testimoni del pubblico ministero.
Fa presente che l’istanza veniva rigettata dalla Corte di appello sul presupposto che COGNOME avesse un co-difensore.
Osserva, però, che COGNOME all’epoca non era assistito da nessun co-difensore, così che la Corte di appello aveva violato l’art. 108 cod. proc. pen. sulla base di un travisamento del fatto.
2.2. Violazione dell’art. 507 cod. proc. pen. e vizio di motivazione per elisione del diritto dell’imputato all’acquisizione di nuovi mezzi di prova risultati assolutamente necessari.
Il ricorrente premette che, all’udienza del 10/11/2016, a chiusura della fase dibattimentale, il difensore depositava una precisa lista di testimoni da assumere ai sensi dell’art. 507 cod. proc. pen., indicando i nomi di soggetti chiamati in causa dai testi esaminati in dibattimento, mai interrogati dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero.
Fa presente che l’istanza veniva tuttavia rigettata dalla Corte di appello con motivazione generica e non condivisibile in diritto e nel merito, in presenza dei presupposti dell’assoluta necessità e della decisività.
Secondo la ricorrente, la Corte di appello disponeva contraddittoriamente una rinnovazione parziale dell’istruttoria dibattimentale, di cui non teneva poi in alcun conto al momento della decisione.
2.3. Violazione dell’art. 90 cod. proc. pen. per la mancata citazione della persona offesa e lesione del diritto di partecipazione al processo, ai sensi dell’art. 178, lett. c), cod. proc. pen..
Il ricorrente fa presente che i giudici non hanno correttamente individuato la persona offesa del capo A), che andava identificata nella società RAGIONE_SOCIALE e non in COGNOME NOME e NOME NOME.
Osserva che tale inesatta individuazione provocava la mancata citazione in giudizio della persona offesa, con la conseguente nullità dell’intero procedimento fin dalle origini, così travolgendosi ogni decisione e sentenza, atteso il diritto della persona offesa di partecipare al processo.
2.4. Inosservanza di norma processuale, ai sensi degli artt. 64, 350 e 187 cod. proc. pen., per il mancato avviso al testimone persona offesa delle facoltà difensive riconosciute all’indagato in un procedimento connesso e/o collegato, ovvero della impossibilità di testimoniare.
Secondo il ricorrente, dall’esame dei cinque testi persone offese (COGNOME Cesare, COGNOME NOME, COGNOME Cosimo, NOME COGNOME NOME e COGNOME NOME) emergevano indizi di reati connessi o collegati ai fatti di causa.
Vengono dunque esposte le circostanze in forza delle quali la difesa faceva emergere tali elementi nel corso dell’esame di ciascun testimone, tanto che ognuno di essi risulta attualmente indagato per quei fatti.
Pur in presenza di tali condizioni, il Collegio decideva di non interrompere l’esame e di proseguire con l’audizione dei testi con conseguente configurazione della denunciata nullità.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. GLYPH Il ricorso di COGNOME
1.1. Con il primo motivo di ricorso si pone una questione che non risulta sollevata con l’atto di appello, con conseguente interruzione della catena devolutiva.
Tale rilievo non viene superato dalla circostanza che la questione sia stata sollevata con i motivi aggiunti contenuti in una memoria depositata il 03/09/2019, quando il termine per l’impugnazione era ampiamente spirato, atteso che essa risulta priva di alcun collegamento con i motivi tempestivamente esposti con l’appello principale.
Va ribadito, infatti, che «in materia di impugnazioni, la facoltà del ricorrente di presentare motivi nuovi incontra il limite del necessario riferimento ai motivi principali, di cui i primi devono rappresentare mero sviluppo o migliore esposizione, ma sempre ricollegabili ai capi e ai punti già dedotti, sicché sono ammissibili soltanto motivi aggiunti con i quali si alleghino ragioni di carattere giuridico diverse o ulteriori, ma non anche motivi con i quali si intenda allargare l’ambito del predetto “petitum”, introducendo censure non tempestivamente formalizzate entro i termini per l’impugnazione» (Sez. 6, n. 36206 del 30/09/2020, Tobi, Rv. 280294 – 01).
Da ciò discende che l’obiezione contenuta nei motivi aggiunti non può intendersi devoluta davanti al giudice dell’impugnazione di merito, con la sua conseguente inammissibilità in questa sede, atteso che «nel giudizio di legittimità, il ricorso proposto per motivi concernenti le statuizioni del giudice di primo grado che non siano state devolute al giudice d’appello, con specifico motivo d’impugnazione, è inammissibile, poiché la sentenza di primo grado, su tali punti, ha acquistato efficacia di giudicato (Massime Conformi n. 4712 del 1982, Rv. 153578; n. 2654 del 1983 Rv. 163291)» (Sez. 3, n. 2343 del 28/09/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 274346).
1.2. Con il secondo motivo d’impugnazione la ricorrente si duole del giudizio di attendibilità della persona offesa e della mancata valutazione delle circostanze e della documentazione versata in atti.
La doglianza si presenta come la mera reiterazione delle identiche deduzioni di merito sollevate con l’atto di appello e puntualmente affrontate dalla Corte di
merito, che ha spiegato come la responsabilità della COGNOME emergesse dalla testimonianza di COGNOME NOME e dal colloquio intercettato il 6 aprile 2012 e intercorso tra COGNOME NOME e COGNOME NOME.
Proprio in relazione al contenuto di tale intercettazione, i giudici scrivono: «Inoltre vi è la conversazione del 6 aprile 2012 che dimostra in modo inequivoco il ruolo della COGNOME ovvero quello di mandante nella vicenda estorsiva allorquando il COGNOME rassicura NOME COGNOME del fatto che il COGNOME aveva parlato direttamente con “NOME” e che era “tutto a posto”. La frase di COGNOME è particolarmente eloquente perché è indicativa del fatto che la dominus fosse proprio la COGNOME ».
Va, dunque, rilevato che il contenuto di tale intercettazione -con il valore probatorio attribuitole dai giudici- risulta del tutto oscurato e non se ne trova traccia nell’impugnazione, là dove la ricorrente sviluppa argomenti esclusivamente intesi a sindacare il giudizio di attendibilità espresso sulla persona offesa, reiterando le identiche argomentazioni di merito esposte con l’atto di appello e respinte dalla Corte di merito (anche) con la motivazione in parte riportata.
Da qui plurime ragioni d’inammissibilità:
1.2.1. Anzitutto, il motivo si mostra aspecifico, in quanto -obliterando i contenuti dell’intercettazione del 12.04.2012 e il valore decisivo a esso attribuito dai giudici di merito- elude il confronto con la sentenza, che va considerata nel suo complessivo e unitario iter argomentativo.
Tale rilievo porta al vizio di aspecificità, che si configura non solo nel caso della indeterminatezza e genericità, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità conducente, a mente dell’art. 591 comma 1 lett. c), all’inammissibilità (Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, COGNOME, Rv. 268823; Sez. 2, n. 11951 del 29/01/2014, Lavorato, Rv. 259425; Sez. 4, n. 5191 del 29/03/2000, Barone, Rv. 216473; Sez. 1, n. 39598 del 30/09/2004, COGNOME, Rv. 230634; Sez. 4, n. 34270 del 03/07/2007, COGNOME, Rv. 236945; Sez. 3, n. 35492 del 06/07/2007, Tasca, Rv. 237596).
1.2.2. A ciò si aggiunga che tutte le argomentazioni spese per sostenere l’inattendibilità di COGNOME Daniele (oltre che priva di confronto rispetto ai contenuti dell’intercettazione di cui si è detto) propone questioni improponibili in sede di legittimità, atteso che ogni vaglio critico circa il giudizio di attendibilità del deposizione della persona offesa ovvero dei testimoni è precluso innanzi alla Suprema Corte in ossequio al principio incontroverso in giurisprudenza secondo il quale la valutazione della credibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio
motivazionale fornito dal giudice e non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni (in tal senso,cfr. Sez. U., n. 41461 del 19/07/2012, RAGIONE_SOCIALE, in motivazione).
1.2.3. Ulteriore causa di inammissibilità si rinviene nella natura meramente reiterativa delle questioni dedotte. A tale riguardo, questa Corte ha costantemente chiarito che “è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che si risolvono nella ripetizione di quelli già dedotti in appello, motivatamente esaminati e disattesi dalla corte di merito, dovendosi i motivi stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto non assolvono la funzione tipica di critica puntuale avverso la sentenza oggetto di ricorso” (Così, Sez. 5, n. 11933 del 27/01/2005, Rv. 231708; più di recente, non nnassinnate: Sez. 2, n. 25517 del 06/03/2019, COGNOME; Sez. 6, n. 19930 del 22/02/2019, Ferrari). In altri termini, è del tutto evidente che, a fronte di una sentenza di appello che ha fornito una risposta ai motivi di gravame, la pedissequa riproduzione di essi come motivi di ricorso per cassazione non può essere considerata come critica argomentata rispetto a quanto affermato dalla Corte d’appello.
1.2.4. Il motivo risulta parimenti inammissibile quanto alla doglianza, diffusamente esposta in tutto il ricorso, circa la mancata considerazione di tutte le circostanze dedotte.
Tale censura, invero, si risolve in una valutazione di merito alternativa a quella della Corte di appello, che ha evidentemente ritenuto infondata la prospettazione difensiva. Si deve considerare, infatti, che il giudice di merito non ha l’obbligo di soffermarsi a dare conto di ogni singolo elemento eventualmente acquisito in atti, potendo egli invece limitarsi a porre in luce quelli che, in base al giudizio effettuato, risultano gli elementi essenziali ai fini del decidere, purché tale valutazione risulti logicamente coerente.
A tal proposito questa Corte ha già avuto modo di affermare che «non è censurabile, in sede di legittimità, la sentenza che non motivi espressamente in relazione a una specifica deduzione prospettata con il gravame, quando il suo rigetto risulti dalla complessiva struttura argomentativa della sentenza», (Sez. 4, n. 5396 del 15/11/2022 Ud., dep. 2023, COGNOME, Rv. 284096 – 01; Sez. 5 , n. 6746 del 13/12/2018 Ud., dep. 2019, COGNOME, Rv. 275500 – 01).
1.3. Anche il terzo motivo di ricorso è reiterativo della medesima doglianza sollevata con l’atto di appello e correttamente risolta dalla Corte di appello, che ha fatto esatta applicazione dei principi fissati da questa Corte in relazione alla differenza tra estorsione e truffa c.d. vessatoria.
A tale proposito, va ricordato che «il criterio distintivo tra il delitto estorsione mediante minaccia e quello di truffa cd. vessatoria consiste nel diverso atteggiarsi del pericolo prospettato, sicché si ha truffa aggravata ai sensi dell’art.
640, comma secondo, n.2, cod. pen. quando il danno viene prospettato come possibile ed eventuale e mai proveniente direttamente o indirettamente dall’agente, di modo che la persona offesa non è coartata nella sua volontà, ma si determina all’azione od omissione versando in stato di errore, mentre ricorre il delitto di estorsione quando viene prospettata l’esistenza di un pericolo reale di un accadimento il cui verificarsi è attribuibile, direttamente o indirettamente, all’agente ed è tale da non indurre la persona offesa in errore, ma, piuttosto, nell’alternativa ineluttabile di subire lo spossessamento voluto dall’agente o di incorrere nel danno minacciato» (Sez. 2, n. 24624 del 17/07/2020, COGNOME, Rv. 279492 – 01). Non dovute per arginare conseguenze più sfavorevoli in relazione al ritardo nei pagamenti delle cambiali rilasciate a fronte del contratto di cessione di azienda.
Nel fatto, così come ritenuto, il male prospettato quale conseguenza dell’inottemperanza alle richieste patrimoniali proviene dagli stessi soggetti che rivolgono la minaccia, con la conseguente correttezza della qualificazione giuridica ritenuta dai giudici.
I giudici dell’appello, infatti, hanno sottolineato che «COGNOME è stato minacciato e costretto a eseguire i pagamenti per effetto della carica intimidatoria esercitata nei suoi confronti dagli agenti che lo hanno costretto -essi stessi- a versare somme di denaro». Nel caso in esame il danno viene prospettato quale conseguenza delle condotte degli stessi agenti, i quali hanno minacciato di elevare la sanzione amministrativa in caso di mancato pagamento della somma richiesta.
Da ciò discende la correttezza della qualificazione giuridica operata dai giudici della doppia sentenza conforme e la manifesta infondatezza del contrario assunto difensivo, in palese contrasto rispetto a un orientamento assolutamente consolidato della Corte di cassazione, cui si è conformata la Corte di appello con motivazione sostanzialmente ignorata dalla ricorrente.
1.4. Il quarto motivo di ricorso, con il quale si assume che ii fatti descritti ai capi G) e H) devono considerarsi come un’unica fattispecie di reato è inammissibile, perché non può considerarsi devoluto con l’atto di appello, così che non può essere proposto per la prima volta con il ricorso per cassazione.
Anche in questo caso, invero, la questione è stata sollevata con i motivi aggiunti contenuti nella già menzionata memoria depositata quando erano oramai spirati i termini per la presentazione dell’appello e senza alcun collegamento con i motivi esposti con l’impugnazione tempestivamente propostas.
Perciò, vanno richiamati i rilievi esposti al paragrafo 1.1..
1.5. Il quinto motivo di ricorso è fondato.
A tale proposito la ricorrente osserva che in relazione al capo G) i giudici hanno ritenuto la sussistenza di due ipotesi di estorsione, l’una tentata e l’altra consumata.
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Secondo i giudici di merito si verrebbe a configurare un’estorsione tentata per la somma originariamente richiesta e poi un’estorsione consumata in relazione alla somma effettivamente percepita in forza delle minacce.
In base a tale costrutto è stato applicato un primo aumento per il tentativo di conseguire l’originario importo pari a euro 8.000,00 e un ulteriore aumento per avere conseguito la diversa e inferiore somma, pari a euro 3.700,00, in relazione al reato consumato.
Ciò premesso, dalla sola lettura del capo d’imputazione, emerge -in effettil’unitarietà della vicenda estorsiva e, con essa, la fondatezza del motivo in esame, in quanto in essa si descrivono delle minacce intese a ottenere una somma pari a 8.000,00 euro che, tuttavia, facevano conseguire un minor profitto, pari a euro 3.700,00.
Il fatto che l’agente abbia conseguito un profitto minore di quello originariamente voluto, non vale a operare una cesura nella condotta delittuosa, che va considerata unitariamente, in quanto intesa a realizzare con la violenza o con la minaccia un ingiusto profitto, che effettivamente viene realizzato, sia pure in misura inferiore rispetto alla pretesa originaria.
A fronte di tale evenienza, questa Corte, invero, ha già avuto modo di spiegare che «l’avvenuta consegna, sia pure per pochi attimi, di una somma di denaro inferiore a quella richiesta dall’agente non vale ad escludere la consumazione del reato di estorsione, nè – stante l’unicità dell’azione criminosa – a scindere il reato stesso in un delitto consumato limitatamente alla somma consegnata e tentato per la differenza, ma riguarda soltanto l’entità del danno materiale, da commisurarsi alla somma per la quale la dazione si è verificata e che, se di speciale tenuità, rende applicabile l’attenuante prevista dall’art. 62 n. 4 cod. pen.. (V mass n 153396; V mass n 160748; V mass n 161914; V mass n 168541)», (Sez. 2, n. 10458 del 13/06/1985, Polese, Rv. 171005 – 01).
Ne discende che la sentenza va annullata sul punto, dovendosi escludere la configurabilità del tentativo di estorsione.
1.6. L’ultimo motivo di ricorso, relativo alla configurabilità di un concorso anomalo, non è stato devoluto con l’atto di appello, così che non può essere proposto per la prima volta con il ricorso davanti alla Corte di cassazione. Valga quanto già affermato al paragrafo 1.1..
1.7. All’esito di quanto esposto, dunque, il ricorso va annullato in relazione al tentativo di estorsione di cui al capo G).
L’annullamento, tuttavia, può essere disposto senza rinvio, ai sensi dell’art. 620, comma 1, lett. I), cod. proc. pen., atteso che la pena può essere rideterminata sulla base delle statuizioni del giudice di merito, nel seguente modo: pena base per il reato di cui al capo H), anni tre di reclusione ed euro 1.500,00 di multa, aumentata
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di mesi otto di reclusione ed euro 800,00 per l’estorsione consumata di cui al capo G), così pervenendosi alla pena finale di anni tre, mesi otto di reclusione ed euro 2.300,00 di multa. Il ricorso è inammissibile nel resto.
2. Il ricorso di COGNOME NOME.
2.1. In relazione a tutti e quattro i motivi di ricorso non può che rilevarsi come essi siano la mera riproduzione delle medesime questioni sollevate con l’atto di appello, correttamente risolte dalla Corte di merito e ora pedissequamente riproposte davanti alla Corte dì legittimità.
2.1.1. Con riguardo alla mancata concessione del termine a difesa richiesto al Tribunale ai sensi dell’art. 108 cod. proc. pen., la Corte di appello ha rigettato la deduzione difensiva osservando che COGNOME era assistito da altro difensore, correttamente richiamando e facendo applicazione del principio di diritto a mente del quale «La previsione di cui all’art. 108 cod. proc. pen.- che prevede la concessione di un termine a difesa nei casi di rinuncia, revoca, incompatibilità e abbandono della difesa – costituisce norma di stretta interpretazione, dettata a tutela dell’imputato che abbia un solo difensore; ne consegue che essa non trova applicazione nel caso in cui l’imputato nomini, nell’immediatezza dell’udienza, un secondo difensore di fiducia. (Fattispecie in cui la Suprema Corte ha ritenuto legittimo il rigetto da parte del giudice di merito, della richiesta di concessione del predetto termine avanzata dal difensore di fiducia nominato, in aggiunta al precedente, la sera prima della data di celebrazione del processo)» (Sez. 2, n. 5255 del 11/01/2017, COGNOME, Rv. 269415 – 01).
Il ricorrente, soltanto in sede di legittimità, per la prima volta, aggiunge che in realtà l’imputato non era assistito da altro difensore, osservando che anche il giudice di primo grado aveva rigettato l’istanza ritenendo erroneamente che COGNOME fosse assistito da altro difensore.
Deve rilevarsi, come la ragione per cui il giudice aveva rigettato l’istanza (ossia la presenza di altro co-difensore) non risulta specificamente censurata con l’appello, nel quale l’odierno ricorrente si limitava a insistere sulla nullità della richiesta di rinvio, senza esporre alcuna censura quanto all’esistenza di altro difensore, con la conseguenza che in relazione a tale aspetto la sentenza di primo grado deve ritenersi passata in giudicato, per l’interruzione della catena devolutiva sul punto.
Così che vale quanto già espresso al paragrafo 1.1. in merito agli effetti dell’interruzione della catena devolutiva.
A ciò si aggiunga -comunque e peraltro- che l’eccezione -genericamente sollevata- è smentita dall’esame del verbale dell’udienza del 29/01/2015 -il cui accesso è consentito dalla natura processuale della questione sollevata-, dove
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.),.)
COGNOME -diversamente da quanto eccepito- risulta assistito da altro difensore (Avvocato NOME COGNOME, di fiducia), insieme all’Avv. NOME COGNOME nominato in udienza.
In particolare, nel verbale di udienza ora menzionato risulta annotato che «COGNOME NOME nomina difensore di fiducia l’Avv. NOME COGNOME unitamente al difensore Avv. P.le COGNOME“.
Ne discende la manifesta infondatezza della dedotta eccezione di nullità.
2.2. Manifestamente infondata e inammissibile risulta anche la doglianza secondo cui sarebbe stato violato l’art. 507 cod. proc. pen.
Oltre a quanto correttamente rilevato dalla Corte di appello -là dove ha evidenziato che i giudici hanno ritenuto che i mezzi istruttori non fossero assolutamente necessari ai fini del decidere- va altresì ricordato che «la mancata assunzione di una prova decisiva, quale motivo d’impugnazione ex art. 606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen., può essere dedotta solo in relazione ai mezzi di prova di cui sia stata chiesta l’ammissione ai sensi dell’art. 495, comma 2, cod. proc. pen., sicché il motivo non potrà essere validamente articolato nel caso in cui il mezzo di prova sia stato sollecitato dalla parte attraverso l’invito al giudice di merito ad avvalersi dei poteri discrezionali di integrazione probatoria di cui all’art. 507 cod. proc. pen. e da questi sia stato ritenuto non necessario ai fini della decisione» (Sez. 2, n. 884 del 22/11/2023, dep. 2024, COGNOME, Rv. 285722 – 01).
Lo stesso ricorrente evidenzia che la richiesta di integrazione istruttoria veniva avanzata soltanto all’esito dell’esame dei testi escussi in dibattimento, così che non vi era stata una previa richiesta di loro ammissione ai sensi dell’art. 495, comma 2, cod. proc. pen..
A parte tale preliminare e assorbente rilievo, va altresì osservato che le prove che si assumono decisive e per le quali è stato esposto il motivo in esame hanno tutte natura dichiarativa (testimonianze).
Tale rilievo conduce all’ulteriore causa di inammissibilità, dovendosi ribadire che «la prova decisiva, la cui mancata assunzione può essere dedotta in sede di legittimità a norma dell’art. 606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen., deve avere ad oggetto un fatto certo nel suo accadimento e non può consistere in un mezzo di tipo dichiarativo, il cui risultato è destinato ad essere vagliato per effettuare un confronto con gli altri elementi di prova acquisiti al fine di prospettare l’ipotesi di un astratto quadro storico valutativo favorevole al ricorrente», (Sez. 5, n. 37195 del 11/07/2019, D., Rv. 277035 – 01).
2.3. Con riguardo alla mancata citazione a giudizio della persona offesa non può che rimarcarsi la carenza d’interesse del ricorrente.
Va ricordato che l’interesse a impugnare, così come richiamato dall’art. 568, comma 4, cod. proc. pen. quale condizione di ammissibilità di qualsiasi
impugnazione, deve essere correlato agli effetti primari e diretti del provvedimento da impugnare e sussiste solo se l’impugnazione sia idonea a costituire, attraverso l’eliminazione di un provvedimento pregiudizievole, una situazione pratica più vantaggiosa per l’impugnante rispetto a quella esistente; id est sussiste un interesse concreto solo ove dalla denunciata violazione sia derivata una lesione dei diritti che si intendono tutelare e nel nuovo giudizio possa ipoteticamente raggiungersi un risultato non solo teoricamente corretto, ma anche praticamente favorevole (cfr. Sez. U, n. 42 del 13/12/1995,COGNOME, Rv. 203093 – 01 seguita da moltissime conformi, fino alla più recente Sez. 3, n. 30547 del 06/03/2019, COGNOME, Rv. 276274 – 01). In altre parole, l’interesse ad impugnare si identifica con l’interesse a conseguire un vantaggio concreto dalla riforma o dall’annullamento del provvedimento impugnato.
Vantaggio concreto che -invero- non si rinviene nel caso in esame, né viene prospettato dal ricorrente. Va rilevato, anzi, come dall’accoglimento del motivo ne discenderebbe un effetto deteriore per l’imputato, visto che la norma è intesa a consentire alla persona offesa di costituirsi parte civile nel giudizio penale e a chiedere il risarcimento del danno all’imputato, sul quale verrebbe a gravare la relativa domanda.
Da ciò discende che, anche in questo caso, la Corte di appello ha correttamente richiamato il principio di diritto a mente del quale «la nullità derivante dall’omessa citazione della persona offesa ex art. 178 cod. proc. pen. non può essere eccepita dall’imputato, poiché egli manca di interesse all’osservanza della disposizione violata, il cui unico scopo è quello di consentire l’eventuale costituzione di parte civile al destinatario della citazione. (In motivazione la Corte ha evidenziato che l’imputato ha sempre la facoltà di citare la persona offesa come testimone)». (Sez. 2, n. 51556 del 04/12/2019, COGNOME, Rv. 277812 – 01).
2.4. Con riguardo alla somministrazione degli avvisi ai testimoni indagati o imputati in reato connesso, la Corte di appello ha fatto corretta applicazione del principio di diritto in forza del quale «in tema di prova dichiarativa, l’omissione dell’avvertimento previsto dall’art. 64, comma 3, lett. c), cod. proc. pen. nei confronti del soggetto che riveste la qualità di indagato o di imputato in un procedimento connesso o collegato (art. 210 cod. proc. pen.) dà luogo all’inutilizzabilità delle dichiarazioni assunte, a condizione che la situazione di incompatibilità a testimoniare, ove non già risultante dagli atti, sia stata dedotta prima dell’esame. (Fattispecie nella quale la Corte ha escluso l’inutilizzabilità dell’esame testimoniale di una persona della quale, soltanto in udienze successive a quella di assunzione della prova, era stata documentata la qualità di imputato in un procedimento per reato cd. reciproco) » (Sez. 5, n. 13391 del 23/01/2019, COGNOME, Rv. 275624 – 01).
A tale proposito, la Corte di appello ha rimarcato come non vi fossero state eccezioni prima dell’inizio dell’esame testimoniale di ciascuno dei testimoni indicati, con conseguente, manifesta infondatezza del motivo in esame.
2.5. Alla luce di quanto esposto, il ricorso di COGNOME risulta complessivamente inammissibile.
Alla sua posizione, tuttavia, si estendono gli effetti favorevoli rivenienti dall’accoglimento del motivo di ricorso di COGNOME in relazione al tentativo di estorsione contestato al capo G), attesa l’identità oggettiva della situazione giudicata e alla natura non esclusivamente personale dei motivi dedotti.
Va ricordato, infatti, che «Ai fini dell’operatività dell’istituto dell’estensione dell’impugnazione, di cui all’art. 587 cod. proc. pen., deve considerarsi non ricorrente anche il coimputato presente nel giudizio di cassazione che non abbia impugnato il punto della decisione annullata dalla S.C. in accoglimento di motivi non esclusivamente personali proposti da altro imputato» (Sez. 2, n. 4159 del 12/11/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278226 – 01).
La sentenza, dunque, va annullata in relazione al tentativo di cui al capo G), anche nei confronti di COGNOME.
Anche in questo caso l’annullamento può essere disposto senza rinvio, atteso che la pena può essere rideterminata in questa sede, secondo la seguente scansione: pena base per estorsione consumata aggravata, anni sei di reclusione ed euro 5000,00 di multa, aumentata per ognuna delle sei estorsioni tentate di mesi due di reclusione ed euro 200,00 di multa (rispetto alle sette originariamente considerate dal giudice di primo grado e confermate dalla Corte di appello), così pervenendosi alla pena di anni sette di reclusione ed euro 6.200,00 di multa; pena ulteriormente aumentata di mesi due, giorni quindici di reclusione ed euro 275,00 di multa per ciascuna delle quattro ipotesi di estorsione consumata, così pervenendosi alla pena finale di anni sette, mesi dieci di reclusione, ed euro 7.300,00 di multa.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di COGNOME NOME e di COGNOME NOME limitatamente al tentativo di estorsione contestato al capo G) e ridetermina la pena inflitta a COGNOME NOME in anni tre, mesi otto di reclusione ed euro 2.300 di multa e nei confronti di COGNOME NOME in anni sette, mesi dieci di reclusione ed euro 7.300 di multa. Dichiara inammissibili nel resto i ricorsi.
Così è deciso, 13/11/2024
Così è deciso, 13/11/2024