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Tentata subornazione: la minaccia velata in aula

Un avvocato è stato condannato per tentata subornazione per aver posto domande intimidatorie a un collaboratore di giustizia durante un controesame. La Cassazione ha confermato la condanna, respingendo la tesi del reato impossibile. Secondo la Corte, le allusioni dell’avvocato alla conoscenza dell’identità di copertura del testimone erano idonee a incutere timore e a interferire con la genuinità della sua deposizione, configurando così il tentativo del reato.

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Pubblicato il 27 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Tentata subornazione: la minaccia velata in aula

Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha affrontato un caso delicato di tentata subornazione, chiarendo i confini tra un legittimo controesame difensivo e una condotta intimidatoria penalmente rilevante. Il caso riguarda un avvocato condannato per aver tentato di influenzare la testimonianza di un collaboratore di giustizia attraverso domande allusive e minacciose sulla sua identità protetta. La pronuncia offre spunti fondamentali sull’idoneità dell’azione e sulla non applicabilità della scriminante del reato impossibile in contesti di elevata tensione processuale.

I fatti del processo: un controesame oltre i limiti

Durante un processo penale, un avvocato, difensore di alcuni imputati, conduceva il controesame di un importante collaboratore di giustizia sottoposto a programma di protezione. L’esame si rivelava particolarmente acceso. L’avvocato, nel tentativo di minare la credibilità del testimone, deviava dalle questioni puramente fattuali per porre domande sulla sua sfera personale: se vedesse ancora i familiari, quanto percepisse dallo Stato e, soprattutto, se avesse cambiato cognome. Dopo che il Presidente del Tribunale aveva dichiarato inammissibile quest’ultima domanda, il legale affermava: “Non è ammessa. Non sappiamo come si chiama oggi, io penso di saperlo però. Va bene”.

Questa frase, unita ad altre espressioni dal tono intimidatorio, provocava una forte reazione nel collaboratore, che si dichiarava terrorizzato, si sentiva “sotto scacco ‘ndranghetistico” e si rifiutava di proseguire l’esame per lo stato di paura e agitazione.

La questione giuridica: tentata subornazione o reato impossibile?

La difesa dell’avvocato ha basato il ricorso in Cassazione su due argomenti principali. In primo luogo, il travisamento della prova, sostenendo che le dichiarazioni del collaboratore fossero contraddittorie rispetto a precedenti deposizioni. In secondo luogo, e più centralmente, l’impossibilità del reato ai sensi dell’art. 49 c.p. Secondo la tesi difensiva, poiché il collaboratore di giustizia non aveva mai effettivamente cambiato generalità, l’allusione alla conoscenza del suo nuovo nome era una minaccia vuota, strutturalmente inidonea a produrre un effetto intimidatorio e, quindi, a configurare il delitto di tentata subornazione.

Le motivazioni della Cassazione sul reato di tentata subornazione

La Suprema Corte ha rigettato integralmente il ricorso, confermando la condanna emessa nei gradi di merito.

L’idoneità dell’azione intimidatoria

I giudici hanno stabilito che le domande dell’avvocato, considerate nel loro complesso, erano del tutto estranee all’oggetto del processo e finalizzate unicamente a incutere timore nel testimone. Le domande sulla famiglia, sui compensi statali e sull’identità di copertura erano dirette a minacciare la sicurezza sua e dei suoi familiari. L’intenzione intimidatoria era evidente e mirava a contaminare la genuinità della deposizione, inducendo il collaboratore a modificare le sue dichiarazioni in senso favorevole agli assistiti del legale. La reazione di terrore del testimone ha confermato l’efficacia della condotta intimidatoria.

Il rigetto della tesi del reato impossibile

La Cassazione ha smontato la tesi del reato impossibile con un’argomentazione cruciale. L’idoneità dell’azione non va valutata con il senno di poi (ex post), ma sulla base di una “prognosi postuma”, ovvero mettendosi nei panni del soggetto al momento del fatto. In quel contesto, il collaboratore di giustizia non poteva sapere con certezza se la sua identità di copertura fosse stata compromessa o meno. La materia è altamente riservata e l’affermazione dell’avvocato (“io penso di saperlo però”) era sufficiente a generare un concreto stato di paura. L’azione, dunque, non era affatto inidonea, ma possedeva tutta la carica intimidatoria necessaria per integrare il tentativo. A riprova di ciò, la Corte ha evidenziato che, a seguito di quell’episodio, il servizio centrale di protezione aveva disposto l’attribuzione di un nuovo nominativo al collaboratore per escludere ogni rischio futuro.

Le conclusioni: i confini della difesa in aula

La sentenza riafferma un principio fondamentale: il diritto di difesa, per quanto ampio, non può mai travalicare nel campo dell’intimidazione. Il controesame deve rimanere ancorato alla pertinenza dei fatti e al rispetto della persona, anche quando si tratta di un collaboratore di giustizia. Le minacce velate, le allusioni alla sfera privata e protetta di un testimone costituiscono una grave violazione che contamina il processo e integra il delitto di tentata subornazione. La valutazione della minaccia va fatta in concreto, considerando l’effetto psicologico sulla vittima al momento dell’azione, rendendo irrilevante che la circostanza minacciata sia poi risultata inesistente.

Quando le domande di un avvocato a un testimone possono integrare il reato di tentata subornazione?
Secondo la sentenza, ciò accade quando le domande, anche se non esplicitamente minacciose, sono finalizzate a intimidire il testimone e a interferire con la genuinità della sua deposizione, uscendo dai limiti del tema processuale per toccare la sfera personale e di sicurezza del dichiarante, come nel caso delle domande sull’identità protetta di un collaboratore di giustizia.

Perché la minaccia è stata considerata idonea anche se il testimone non aveva cambiato identità?
La Corte ha stabilito che l’idoneità dell’azione intimidatoria deve essere valutata con un giudizio “ex ante”, cioè al momento in cui viene posta in essere. In quel preciso istante, il collaboratore non poteva sapere con certezza se le sue generalità di copertura fossero state violate. La sola affermazione dell’avvocato di conoscerle era sufficiente a generare un concreto stato di paura, rendendo la minaccia efficace e la condotta punibile come tentativo.

Cosa si intende per “travisamento della prova” e perché è stato respinto il motivo di ricorso?
Il travisamento della prova è un vizio della motivazione che si verifica quando il giudice fonda la sua decisione su una prova inesistente o ne omette la valutazione di una decisiva. La Cassazione ha respinto questo motivo perché, in caso di “doppia conforme” (due sentenze identiche nei gradi di merito), tale vizio può essere eccepito solo se il dato probatorio travisato è stato introdotto per la prima volta in appello, cosa non avvenuta nel caso di specie. Inoltre, i giudici di merito avevano correttamente confrontato le dichiarazioni, ritenendole conformi.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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