Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 10381 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 10381 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 13/02/2025
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Reggio Calabria ha confermato la condanna di NOME COGNOME alla pena di anni due e mesi otto di reclusione (con la diminuente del rito abbreviato) per il reato di cui agli artt. 56-319-quater cod. pen. commesso in Caulonia fino al 20 novembre 2015, giorno in cui veniva tratto in arresto in flagranza di reato all’atto della consegna della somma di euro 700 euro, consegnatagli da NOME COGNOME.
Il ricorrente, dottore commercialista, nominato custode giudiziario nel procedimento di esecuzione (n. 22/93) in corso a carico dei genitori del COGNOME, aveva compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco a indurre il COGNOME a consegnargli somme di denaro, in parte per sè e in parte da destinare ad altra persona non meglio identificata, per agevolare il COGNOME nell’operazione di acquisto all’asta dell’immobile pignorato ai suoi genitori nella suddetta procedura esecutiva. Risulta che NOME COGNOME ricevuta la proposta del COGNOME dopo avere tergiversato perché non voleva invischiarsi in procedimenti penali temendo anche di danneggiare ulteriormente i suoi genitori, il 16 giugno 2015, dopo che il COGNOME lo aveva contattato il giorno prima attraverso il padre convocandolo presso il suo studio, aveva proposto denuncia contro il COGNOME che aveva incontrato più volte. Gli incontri erano stati ricostruiti puntualmente – e il loro contenuto è riportato per esteso nella sentenza di primo grado- perché era stato attivato un servizio di intercettazioni telefoniche sia sull’utenza del COGNOME che su quella del COGNOME che, peraltro, si era presentato agli incontri debitamente nnicrofonato.
2.Con i motivi di ricorso, sintetizzati ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen. nei limiti strettamente indispensabili ai fini della motivazione, il ricorrente denuncia:
2.1. violazione di legge (artt.56-319-quater cod. pen.) e vizio di omessa motivazione della sentenza impugnata che, condividendo l’impostazione della sentenza di primo grado secondo la quale il reato di induzione indebita non costituisce una fattispecie bilaterale, non ha esaminato l’aspetto della ricostruzione dell’elemento psicologico del reato che deve essere scrutinato sotto due distinti profili e, per quanto riguarda la posizione dell’indotto, deve essere accertato che questi si determini alla dazione per effetto esclusivo del metus che dal pubblico agente sia stato “innescato”. La sentenza impugnata ha svolto sul tema una motivazione apparente e ha esaminato la posizione dell’indotto quale soggetto passivo del reato, viceversa esclusa nella giurisprudenza di legittimità, a partire dalla sentenza Maldera e ribadita nella sentenza della Corte di Cassazione n. 31890 del 29 ottobre 2020. La configurabilità del reato di induzione indebita come reato a concorso necessario – in cui l’abuso prevaricatore e il vantaggio indebito costituiscono una combinazione sinergica- comporta che, in mancanza di una combinazione tra il processo volitivo dell’agente e quello del privato, si è in presenza di una istigazione non accolta e, dunque, non punibile e non ricorre la fattispecie di tentativo. Non è spiegato, nella giurisprudenza di legittimità, il passaggio alla tesi della norma a due fattispecie in luogo di quella del reato a concorso necessario individuata dalla sentenza COGNOME.
Vieppiù, nel caso in esame, la fattispecie non si è perfezionata avendo il privato agito come “agente provocatore”: non è, dunque, configurabile, neppure in astratto, l’ipotesi della induzione. Difetta, in capo all’imputato, il requisit soggettivo: la Corte di merito ha ravvisato la natura pubblicistica dell’incarico nello svolgimento di funzioni amministrative, estranee alla figura del custode giudiziario che non svolge funzioni autoritative o certificative, neppure in senso lato amministrative: con l’appello si era contestato che il COGNOME avesse mai posto in essere atti funzionali riconducibili all’esercizio di pubbliche funzioni;
2.2. violazione di legge (art. 603 cod. proc. pen.) e carenza di motivazione per la mancata acquisizione, richiesta con i motivi di appello, del fascicolo relativo alla procedura esecutiva n 22/93 incardinato presso l’Ufficio Esecutivo del Tribunale di Locri. In appello era stato evidenziato che il COGNOME, per ben 11 volte, aveva contattato il COGNOME e che il COGNOME, sui fondi pignorati, era stato beneficiario di fondi regionali, almeno fino al 2002 conoscendo molto bene il fascicolo processuale tanto da indicare al COGNOME dove reperire gli atti di interesse. L’acquisizione del fascicolo era necessaria per valutare la condotta del privato che, agendo autonomamente e in maniera illecita, aveva ottenuto, senza l’aiuto dell’imputato, vantaggi indebiti e, quindi, la prova richiesta era rilevante;
2.3. violazione di legge e vizio di motivazione per la mancata applicazione delle circostanze attenuanti generiche richieste in appello. La Corte di merito ha omesso qualsiasi motivazione sul punto;
2.4. erronea applicazione della legge penale (art. 133 cod. pen.) non essendo indicati i criteri utilizzati per la quantificazione.
Il ricorso è stato trattato con procedura scritta, ai sensi dell’art. 611, comma 1-bis cod. proc. pen. modificato dall’art. 11, comma 3, d.l. n. 29 del 6 giugno 2024, convertito, con modificazioni, dalla I. n. 120 del 8 agosto 2024 n. 120.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.11 ricorso proposto non è, con riferimento alle censure che investono la qualificazione giuridica del fatto, manifestamente infondato, tenuto conto che viene prospettata una tesi in diritto che appare in linea con un precedente delle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 12228 del 24/10/2013, dep. 2014, Maldera) che, all’indomani della modifica legislativa operata sulle disposizioni di cui agli artt. 317 e 319-quater cod. pen., aveva ricostruito gli elementi strutturali dei reati in parola individuandone i requisiti sui quali, proprio con riferimento al reato di tentativo di induzione indebita (56-319-quater cod. pen.) non si registra
una convergenza nella successiva giurisprudenza di legittimità che il Collegio, viceversa, condivide.
Si impone, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata per intervenuta prescrizione del reato, commesso fino al 20 novembre 2015 (data dell’arresto dell’imputato) e che, in assenza di sospensioni, risulta prescritto alla data del 20 luglio 2023.
Si procede, infatti, per il reato di tentata induzione indebita sicché sulla pena massima di anni dieci e mesi sei di reclusione prevista, all’epoca dei fatti, per il reato di cui all’art. 319-quater cod. pen., va operata la diminuzione di un terzo per il tentativo pervenendo, così, alla pena di anni sette, sulla quale va operato l’aumento di un quarto per la interruzione: alla data innanzi indicata era, pertanto, decorso il termine massimo di prescrizione del reato.
Non sono apprezzabili, peraltro, elementi che, ai sensi dell’art. 129, comma 2, cod. proc. pen., permettano di rilevare “ictu oculi”, con una mera attività di “constatazione”, l’evidenza” della prova di innocenza dell’imputato, idonea ad escludere l’esistenza del fatto, la sua commissione da parte di lui, ovvero la sua rilevanza penale.
2. Il secondo motivo di ricorso è generico e manifestamente infondato.
Va ricordato che in tema di ricorso per cassazione, può essere censurata la mancata assunzione in appello, a seguito di giudizio abbreviato non condizionato, di prove richieste dalla parte solo nel caso in cui si dimostri l’esistenza, nell’apparato motivazionale posto a base della decisione impugnata, di lacune o di manifeste illogicità, ricavabili dal testo del medesimo provvedimento e concernenti punti di decisiva rilevanza, che sarebbero state presumibilmente evitate provvedendosi all’assunzione o alla riassunzione di determinate prove in appello (Sez. 3, n. 3028 del 15/12/2023, dep. 2024, D., Rv. 285745). Il ricorrente non spiega, rispetto alla motivazione della sentenza impugnata che si fonda sul contenuto dei dialoghi intercettati e sulla ricostruzione dell’attività svolta dall’imputato quale pacificamente risultate dalle intercettazioni e dagli atti acquisiti, la influenza di pregressi contatti telefonici con il COGNOME né la rilevanza del contenuto del fascicolo processuale relativo all’espropriazione,tenuto conto che l’ammissione al contributo regionale era molto risalente rispetto ai fatti per cui si procede (si precisa anche nel ricorso al 2002) e che l’imputato si era offerto di aiutare il COGNOME a conseguire la liquidazione del contributo stesso, anche falsificando gli atti di sua competenza attraverso appositp interpolazioni, dopo essersi debitamente informato del regime legale del contributo stesso la cui documentazione, ammesso che fosse presente nel fascicolo, non era in concreto rilevante ai fini della disponibilità che il ricorrente aveva offerto al Perri.
3.La sentenza impugnata ha ritenuto acquisita la prova, attraverso il contenuto delle conversazioni intercettate, che il ricorrente aveva sollecitato la dazione della somma (dell’importo di euro duecento a suo favore e di euro cinquecento a favore di “un amico” che avrebbe perorato la causa del COGNOME).
Tale dazione, frutto di una reiterata sollecitazione, era direttamente correlata all’esercizio dei poteri dell’imputato, quale custode giudiziario nel procedimento di espropriazione immobiliare, sia alla possibilità di pervenire ad un contratto di locazione degli immobili al COGNOME (o a sua madre) sia alla possibilità di conseguire, in vista dell’asta, un ribasso del prezzo di vendita degli immobili individuando un prezzo che avrebbe potuto mettere in gioco il Perri o la sua famiglia nell’acquisto.
E’ accertato che all’udienza del 1 ottobre 2015, su richiesta del custode che l’aveva istruita, era stata autorizzata dal giudice la locazione degli immobili, contratto che il custode avrebbe dovuto trascrivere, mentre sulla possibilità di ribasso il giudice si era riservato la decisione, che avrebbe assunto ad esito di ulteriori informazioni.
In occasione dell’arresto, NOME COGNOME aveva consegnato all’imputato proprio la somma di 500 euro, contenuta in una busta bianca, quale “regalino destinato ad un amico”, e 200 euro, richiesti, invece, dall’odierno imputato per la disponibilità offerta, somma che si trovava, sfusa, sulla scrivania del COGNOME.
Sia l’imputato che il COGNOMEche accettava di recarsi agli incontri munito di microfono) venivano intercettati (operazione, questa, svolta a sorpresa dello stesso COGNOME).
4.Ritiene il Collegio che la ricostruzione della cadenza temporanea del rapporto intercorso tra l’imputato e NOME COGNOME e il contenuto della dinamica di tale rapporto è riconducibile al reato di tentata induzione indebita, come ritenuto.
Il ricorrente, che contesta la sussistenza del tentativo potendo, al più, inquadrarsi i fatti nella fattispecie di cui all’art. 322, comma 3, cod. pen., muove dall’analisi della sentenza COGNOME (Sez. U, n. 12228 del 24/10/2013, dep. 2014, COGNOME, ivi, punto 23.4), nella parte in cui ricostruisce la fattispecie di cui all’art. 319-quater cod. pen. inquadrandola nello schema del reato plurisoggettivo proprio o normativamente plurisoggettivo.
Lo schema normativo, si afferma nella sentenza COGNOME, “postula per l’esistenza del reato, la necessaria convergenza, sia pure nell’ambito di un rapporto squilibrato, dei processi volitivi di più soggetti attivi e la punibilità del medesimo”, ma, secondo il ricorrente, la sentenza impugnata – muovendo dall’erroneo presupposto che la fattispecie in esame non sia reato a concorso necessario ma riconducibile a due condotte monosoggettive – non avrebbe
esaminato, se non in termini apparenti, l’aspetto della sudditanza psicologica dell’indotto quale evento innescato dall’abuso del pubblico funzionario.
Si tratta, tuttavia, di un inquadramento che la giurisprudenza successiva non ha condiviso (come lo stesso ricorrente non manca di rilevare) ed al quale si sono riportate le sentenze di merito, ravvisando, a prescindere dalla questione della bilateralità della condotta, il delitto di tentata induzione indebita nel caso in cui la relazione che si instaura tra il pubblico agente e il privato si risolva in una condotta sollecitatoria e pressante del pubblico agente alla quale non corrisponda una “trattativa” ma l’accondiscendenza dell’interlocutore che, immediatamente, si rechi a denunciare il fatto.
La giurisprudenza di questa Corte afferma che, in tale evenienza, risulta evidente che la condotta del soggetto pubblico che induce e del privato indotto sono suscettibili di valutazione autonoma e che l’evento non si verifica per la resistenza opposta dal privato alle illecite pressioni del pubblico agente.
A tale conclusione, come anticipato, si è pervenuti proprio in quei casi in cui il soggetto passivo aveva denunciato la richiesta di denaro formulata dal pubblico ufficiale, consentendo anche la registrazione del colloquio nel corso del quale la richiesta veniva reiterata (Sez. 6, n. 35271 del 22/06/2016, COGNOME e altro, Rv. 267986; Sez. 6, n. 6846 del 12/01/2016, COGNOME e altro, Rv. 265901; Sez. 6 n. 32246 del 11/04/2014, Sorge, Rv. 262075).
Si è rilevato che, in tal caso, il tentativo di induzione indebita – sussumibile nella fattispecie degli artt. 56 e 319-quater cod., pen.-, non implica la necessità dell’ulteriore requisito costituito dal perseguimento di un indebito vantaggio da parte del privato, là dove detto requisito, giustifica – in coerenza con i principi fondamentali del diritto penale e con i valori costituzionali in tema di colpevolezza, pretesa punitiva dello Stato, proporzione e ragionevolezza – la punibilità dell’indotto che abbia dato o promesso l’utilità al pubblico ufficiale.
Le Sezioni Unite COGNOME hanno sottolineato, e il ricorrente non manca di richiamare tale aspetto, che il requisito (extratestuale) costituito dal perseguimento di un indebito vantaggio da parte del privato assurge al rango di “criterio di essenza” della fattispecie induttiva. Nondimeno, detto elemento si è ritenuto necessario solo nell’ipotesi della consumazione del reato di cui all’art. 319quater cod. pen. e non anche in quella del tentativo atteso che, qualora il privato – come nel caso sub iudice non dia o non prometta denaro o altra utilità al pubblico ufficiale, resistendo alle illecite richieste di quest’ultimo, viene meno la ratio posta a base del requisito del perseguimento di un indebito vantaggio da parte del privato.
Va, pertanto, ribadito che nel caso in cui il privato resista alla condotta abusiva del pubblico ufficiale e si rivolga alle forze dell’ordine prima di porre validamente
in essere una delle due condotte tipiche (promessa o dazione), è integrato il tentativo di induzione indebita, a prescindere dal perseguimento/conseguimento di un ingiusto vantaggio da parte del destinatario della richiesta.
Una conclusione, questa, che risulta in linea con la giurisprudenza di questa Corte in materia di rilevanza della condotta del cd. “agente provocatore” ai fini della configurabilità del tentativo quando la denuncia preceda la condotta tipica dell’extraneus anche nei reati a cd. concorso necessario.
5.Va rammentato, per completezza dell’analisi anche tenuto conto dei rilievi del Sostituto Procuratore generale, che la sentenza COGNOME, ricostruendo il criterio di distinzione tra il delitto di induzione indebita e le fattispecie corruttive, ha esaminato anche il caso “difficoltoso” della distinzione tra la istigazione alla corruzione attiva (art. 322, commi terzo e quarto, cod. pen.) e la induzione indebita nella forma tentata (S.U. n. 12228 cit. Rv. 258475). Entrambe tali fattispecie – si osserva- implicano forme di interazione psichica, nel senso che sia l’una che l’altra si configurano attraverso comportamenti di “interferenza motivazionale sull’altrui condotta”. Sotto il profilo linguistico, il concetto di “induzione”, prosegue la sentenza COGNOME, presuppone un quid pluris rispetto al concetto di “sollecitazione” di cui all’art. 322, commi terzo e quarto, cod. pen. e deve essere colto nel carattere perentorio ed ultimativo della richiesta e nella natura reiterata ed insistente della medesima. Sul piano strutturale, inoltre, la condotta induttiva, diversamente dalla sollecitazione, deve coniugarsi dinamicamente con l’abuso, sì da esercitare sull’extraneus una pressione superiore rispetto a quella conseguente alla mera sollecitazione che rimane integrata nell’ipotesi in cui il pubblico agente propone al privato un semplice scambio di favori, senza fare ricorso ad alcun tipo di prevaricazione, sicché il rapporto tra i due soggetti si colloca in una dimensione paritetica. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
6.0sserva conclusivamente il Collegio che, a prescindere dalla verifica in concreto dello stato di soggezione del privato, l’indagine sulla configurabilità del reato non può prescindere dall’accertamento dell’abuso della qualità o dei poteri dell’agente pubblico rispetto ai quali va ricostruita anche la posizione del destinatario della richiesta, che non è indifferente o neutra.
La sentenza impugnata ha correttamente ricostruito la qualifica pubblicistica dell’imputato ed ha sviluppato sul punto adeguata motivazione evidenziando che il custode giudiziario è ausiliario del giudice nonché titolare di autonomi poteri autoritativi e certificativi nell’attività di gestore autonomo del compendio, poteri nel caso esercitati promuovendo un atto di gestione quale la locazione del compendio in sequestro, con un’attività che non si era risolta nello svolgimento di
mere mansioni esecutive poiché, invece, il custode giudiziario gode di ampia discrezionalità nella istruttoria e propone al giudice l’adozione di atti dopo averne ricostruito l’ammissibilità e verificato l’economicità.
Ma la sentenza impugnata – da qui la infondatezza dei rilievi svolti dal Pubblico Ministero – ha anche esaminato la connotazione prevaricatrice della condotta dell’imputato desumendola non – sotO dalla iniziativa del contatto con il COGNOME e dalla insistenza delle richieste ma evidenziando la posizione di soggezione del COGNOME alla posizione di preminenza del pubblico ufficiale che, abusando dei suoi poteri, faceva leva, per indurre il COGNOME alla dazione,11a possibilità di ottenere la locazione dell’immobile, quale mezzo che avrebbe reso possibile la fruizione del contributo regionale ela possibilità di acquistare l’immobile riducendo il prezzo di acquisto, che veniva prospettata come riconducibile proprio a iniziative dell’imputato ingenerando, così, nel Perri la convinzione che l’imputato, a suo arbitrio, potesse nuocergli o giovargli.
Né emergono concreti elementi, al di là delle prospettazioni dell’imputato al COGNOME del ricorso “all’aiuto di un amico”, della presenza di terzi in qualche modo coinvolti nella vicenda.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il reato è estinto per prescrizione.
Così deciso il 13 febbraio 2025
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La Consigliera relatrice
Il Presidente