Tentata estorsione: quando gli ‘avvertimenti’ completano il reato
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 13173 del 2024, offre un importante chiarimento sui confini del delitto di tentata estorsione. La pronuncia analizza il caso di un ricorso giudicato inammissibile, stabilendo principi chiari sulla sufficienza degli ‘avvertimenti’ per integrare il reato e sull’impossibilità di invocare la desistenza volontaria una volta che la volontà della vittima sia stata coartata.
I Fatti del Caso
Il caso trae origine da una condanna per tentata estorsione emessa dalla Corte d’Appello. L’imputato aveva posto in essere una serie di ‘avvertimenti’ minacciosi nei confronti di una persona, con lo scopo di ottenere un ingiusto profitto. Tali minacce si erano rivelate così efficaci da indurre la vittima, per timore di subire danni più gravi, a interrompere la propria attività lavorativa. Contro questa decisione, l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione, adducendo diverse motivazioni.
I Motivi del Ricorso e la tentata estorsione
Il ricorrente ha basato la sua difesa su quattro punti principali:
1. Vizio di motivazione: Contestava la valutazione della sua responsabilità penale.
2. Desistenza volontaria: Sosteneva di aver volontariamente interrotto la propria azione criminosa.
3. Errata qualificazione giuridica: Riteneva che i fatti dovessero essere inquadrati come tentativo di violenza privata, data l’assenza, a suo dire, di una finalità di profitto.
4. Trattamento sanzionatorio: Criticava il riconoscimento della recidiva e il diniego delle attenuanti generiche.
L’analisi di questi motivi ha permesso alla Corte di ribadire e consolidare principi fondamentali in materia di tentata estorsione.
La Decisione della Corte di Cassazione
La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, giudicando tutti i motivi proposti come reiterativi e manifestamente infondati. I giudici hanno smontato ogni argomentazione difensiva con un ragionamento logico e giuridicamente ineccepibile.
Le Motivazioni
La Corte ha spiegato che il primo motivo era infondato perché le prove raccolte (le ‘plurime emergenze dimostrative’) avevano ampiamente dimostrato l’idoneità degli ‘avvertimenti’ a coartare la volontà della vittima. La prova del successo dell’azione intimidatoria risiedeva proprio nella decisione della parte offesa di interrompere l’attività lavorativa, segno inequivocabile della paura di subire conseguenze peggiori.
Per quanto riguarda la desistenza, i giudici hanno chiarito che tale istituto non era applicabile. Il delitto di tentata estorsione aveva già superato la fase del semplice tentativo, diventando un ‘tentativo compiuto’ nel momento stesso in cui la minaccia aveva prodotto il suo effetto intimidatorio sulla vittima. Una volta raggiunto questo stadio, non è più possibile parlare di ritiro volontario.
Anche la richiesta di riqualificare il fatto come violenza privata è stata respinta. La Corte ha sottolineato come la ‘finalità di profitto’ della condotta minacciosa fosse del tutto evidente, elemento che distingue nettamente l’estorsione dalla violenza privata.
Infine, i motivi relativi alla pena sono stati giudicati generici, in quanto la Corte d’Appello aveva motivato in modo coerente e completo sia sul riconoscimento della recidiva sia sul diniego delle attenuanti, senza che il ricorrente riuscisse a evidenziare vizi logici o giuridici concreti.
Le Conclusioni
L’ordinanza in commento è di grande rilevanza pratica. Essa conferma che per configurare una tentata estorsione non è necessaria una violenza fisica, ma sono sufficienti ‘avvertimenti’ o minacce idonee a generare timore e a costringere la vittima a un determinato comportamento. Inoltre, stabilisce un punto fermo: una volta che la pressione psicologica ha avuto successo, il tentativo è da considerarsi ‘compiuto’ e non è più possibile invocare la desistenza. Questo provvedimento serve anche da monito sull’importanza di presentare ricorsi specifici e ben argomentati, poiché la genericità e la manifesta infondatezza dei motivi portano inevitabilmente a una dichiarazione di inammissibilità, con conseguente condanna al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria.
Quando un ‘avvertimento’ integra il reato di tentata estorsione?
Un ‘avvertimento’ integra la tentata estorsione quando è idoneo a coartare la volontà della vittima, inducendola a modificare il proprio comportamento (ad esempio, interrompendo un’attività lavorativa) per il timore di subire danni più gravi, e quando tale condotta è finalizzata a ottenere un ingiusto profitto.
È possibile invocare la desistenza volontaria dopo che la vittima è stata intimidita?
No. Secondo la Corte, una volta che la condotta minacciosa ha prodotto il suo effetto sulla vittima, costringendola a cedere alla pressione psicologica, il reato ha già superato la fase del tentativo. In questo stadio, definito ‘tentativo compiuto’, la desistenza volontaria non è più configurabile.
Perché il ricorso in questo caso è stato dichiarato inammissibile?
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile perché i motivi presentati sono stati giudicati dalla Corte come reiterativi, generici e manifestamente infondati. L’imputato non ha sollevato vizi specifici e apprezzabili nella motivazione della sentenza impugnata, limitandosi a riproporre questioni già valutate e respinte correttamente nei gradi di giudizio precedenti.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 13173 Anno 2024
Penale Ord. Sez. 7 Num. 13173 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 23/01/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a BARI il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 17/11/2022 della CORTE APPELLO di BARI
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
Ritenuto che il primo motivo di ricorso, con cui si contesta la violazione di legge e della motivazione quanto al giudizio di responsabilità per il delitto di tentata estorsi reiterativo, oltre che manifestamente infondato, avendo la Corte dato atto delle pluri emergenze dimostrative dell’idoneità degli “avvertimenti” diretti nei confronti della vittim coartarne la volontà, esito conseguito come dimostra la decisione di interrompere l’attiv lavorativa per il timore di subire più gravi danni;
che il secondo motivo di ricorso, sul profilo dell’ipotizzata desistenza, è del tutto gen oltre che manifestamente infondato, avendo correttamente escluso la Corte territoriale tal possibilità in ragione della natura del contestato delitto di estorsione e del sicuro superame della fase del tentativo compiuto;
manifestamente infondato anche il motivo che concerne il differente inquadramento del fatto nell’ipotesi del tentativo di violenza privata, risultando evidente la finalità di pro condotta di minaccia realizzata;
del tutto reiterativi, oltre che manifestamente infondati, i motivi concernenti il tratt sanzionatorio, con riguardo al riconoscimento della recidiva, al diniego delle circostan attenuanti generiche ed alla misura della pena irrogata, avendo la Corte motivato in modo coerente con i dati processuali e rispettando gli obblighi di motivazione su ciascuno dei pro indicati, senza che il ricorso abbia messo in luce vizi della motivazione apprezzabili su punti;
rilevato, pertanto, che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con la condanna d ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spes processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso, in data 23 gennaio 2024
Il Consigliere estensore ente