Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 43747 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 43747 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 06/11/2024
SENTENZA
Sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a Catanzaro il 19/01/1966 rappresentato e difeso dall’avv.
NOME COGNOME di fiducia;
avverso la sentenza del 06/02/2024 della Corte di appello di Ancona, sezione penale;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
preso atto che non è stata richiesta dalle parti la trattazione orale ai sensi degli artt. 611, comma 1-bis cod. proc. pen., 23, comma 8, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito con modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, prorogato in forza dell’art. 5-duodecies del d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 dicembre 2022, n. 199 e, da ultimo, dall’art. 17 del d.l. 22 giugno 2023, n. 75, convertito con modificazioni dalla legge 10 agosto 2023, n. 112 e che, conseguentemente, il procedimento viene trattato con contraddittorio scritto;
udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME;
lette le conclusioni scritte depositate dal sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME che ha chiesto declaratoria di inammissibilità del ricorso;
letta la memoria scritta di replica depositata in data 28/10/2024 dal difensore del ricorrente, avv. NOME COGNOME ha chiesto l’accoglimento del proprio ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con l’impugnata sentenza la Corte di Appello di Ancona ha confermato la pronuncia emessa in data 05/04/2022 dal Tribunale di Ancona che, all’esito di giudizio dibattimentale, aveva dichiarato NOME COGNOME responsabile del delitto di tentata estorsione, con conseguente irrogazione della pena di un anno mesi dieci di reclusione ed euro 400,00 di multa.
L’addebito contestato è quello di essersi presentato presso l’abitazione di NOME COGNOME, responsabile di una condotta di truffa in danno di soggetti calabresi ed all’epoca ristretto in carcere, e di essersi rivolto al padre di costui (NOME COGNOME) con le seguenti espressioni: “io sto facendo un favore a quei signori, ma lo sto facendo anche a voi, perché se quelli vengono su … non sono persone.. quelle sono belve…”, così compiendo atti idonei diretti in modo non equivoco a farsi corrispondere NOME COGNOME la somma di euro 500,00, profitto della truffa, evento che non si verificava perché quest’ultimo si rivolgeva alle forze dell’ordine.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, tramite il difensore di fiducia.
2.1. Con il primo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. e), cod. proc. pen., vizio di motivazione sotto il profilo della erronea valutazione e del travisamento degli elementi di prova (esposto della presunta persona offesa acquisito in dibattimento su accordo delle parti e relativa testimonianza, atti allegati al presente ricorso) laddove entrambi i giudici di merito hanno individuato in COGNOME il destinatario della condotta estorsiva, invece che il figlio di questi, così incorrendo in un errore percettivo, idoneo a disarticolare il costrutto motivazionale.
2.2. Con il secondo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. b), cod. proc. pen., per violazione dell’art. 629 cod. pen. sotto il profilo del difett dell’elemento costitutivo della minaccia .
Rileva la difesa che il ricorrente non ha esercitato alcuna violenza ma neppure ha pronunciato frasi di natura minacciosa. NOME COGNOME in dibattimento ha riferito che NOME si era rivolto a lui ” in maniera assolutamente pacifica … sempre con modi gentili, senza nulla… neanche minaccioso … sempre in maniera cordiale” e che, dopo avere appreso dello stato di detenzione del figlio NOME, se
ne era andato, senza avere avanzato alcuna richiesta di pagamento della somma dovuta da quest’ultimo.
L’assenza di perturbamento in capo alla persona offesa trova, del resto, conferma anche nel fatto che costei aveva atteso due giorni a denunciare la vicenda, dopo avere avuto conferma della truffa da parte del figlio e su consiglio di un legale, in quanto preoccupata del fatto che varie altre persone si erano recate presso la sua abitazione affermando di essere state a loro volta truffate da NOME
2.3. Con il terzo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. b), cod. proc. pen., violazione di legge per mancata riqualificazione del fatto nel meno grave reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
Si osserva al riguardo che la vittima della truffa in dibattimento aveva spiegato di avere versato a NOME COGNOME, tramite bonifico, la somma di euro 500,00 per la locazione di un appartamento rivelatosi non disponibile e di avere richiesto a NOME di rintracciare costui; l’imputato quindi è intervenuto come intermediario nella consapevolezza di agire per una pretesa lecita, determinata e giuridicamente tutelabile sia in sede penale che in sede civile da parte della vittima della truffa.
Il discrimine tra l’estorsione e l’esercizio arbitrario non va individuato ( come affermato dalla Corte di appello) nel grado di intensità e gravità della violenza o minaccia ovvero nella sproporzione delle stesse rispetto al fine perseguito, bensì nell’elemento psicologico, come affermato dalla pronunzia a Sezioni Unite n. 29541 del 17/07/2020 laddove la prima condotta è caratterizzata dalla consapevolezza dell’agente di perseguire un profitto ingiusto, mentre la seconda (configurabile nel caso di specie) dal convincimento, anche eventualmente erroneo, di esercitare una pretesa giuridicamente tutelabile.
2.4. Con il quarto motivo si deduce, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. b) ed e), cod. proc. pen., violazione di legge e vizio di motivazione per mancata riqualificazione del fatto nel meno grave reato di truffa tentata
Richiamate alcune pronunce di legittimità in punto di criterio distintivo tra la fattispecie della truffa e quella di estorsione, rileva il ricorrente che prospettazione difensiva in termini di azione fraudolenta (dedotta con l’atto di appello e non esaminata dalla Corte territoriale) trova fondamento nella stessa ricostruzione dei fatti offerta dalla persona offesa la quale ha riferito come nessun male certo e realizzabile era stato a lei prospettato dall’imputato, così da porla nella inevitabile alternativa di soddisfare la pretesa di questo ovvero di subire il pregiudizio minacciato.
2.5. Con il quinto motivo ed il sesto motivo si deduce, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. b) ed e), cod. proc. pen., violazione di legge con riferimento all’art.
125 codice di rito e vizio di motivazione in punto di applicazione della ritenuta recidiva specifica.
La Corte territoriale ha fondato l’aumento di pena per la ritenuta recidiva esclusivamente sull’unico e datato (quasi trenta anni fa) precedente penale specifico a carico dell’imputato, e ha pretermesso l’indagine circa il fatto che il reato oggetto del presente giudizio sia effettivo sintomo di riprovevolezza e di pericolosità secondo i parametri indicati dalla Corte Costituzionale e dalla giurisprudenza di legittimità.
2.6. Con il settimo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. b) ed e) cod. proc. pen., violazione di legge con riferimento all’art. 629 cod. pen. e vizio di motivazione in punto di mancato riconoscimento della attenuante del fatto lieve introdotta con sentenza n. 120 del 15/06/2023 della Corte Costituzionale che era stata richiesta alla Corte di appello mediante deposito di motivi aggiunti.
La sentenza impugnata reca al riguardo una motivazione apparente indicando elementi fattuali non emersi in sede istruttoria (e cioè l’insistenza della richiesta della somma pretesa e la gravità della minaccia) e, di contro, non prende in considerazione gli indici fattuali che fondano la attenuante in questione e cioè l’entità del danno, nonché le circostanze di tempo e di luogo della condotta che si è concretizzata in un accesso presso l’abitazione della persona offesa.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.11 ricorso è fondato limitatamente alla doglianza in punto di applicazione della recidiva relativa oggetto del quinto e sesto motivo di ricorso.
Inammissibile è il primo motivo di doglianza con il quale si deduce il vizio di motivazione della sentenza impugnata sotto il profilo del travisamento probatorio con riferimento al contenuto dell’esposto presentato da COGNOME alle forze dell’ordine (acquisito nel giudizio di primo grado con l’accordo delle parti) e della testimonianza dibattimentale resa da costui.
Trattasi di censura che, di fatto, finisce per proporre surrettiziamente un diverso apprezzamento di elementi di prova, non consentita in questa sede e, in particolare, una lettura alternativa della ricostruzione della vicenda.
2.1. Il vizio di travisamento della prova deducibile in cassazione, ai sensi dell’art. 606 lett. e) cod. proc. pen., può essere desunto non solo dal testo del provvedimento impugnato ma anche da altri atti del processo specificamente indicati ed è configurabile quando si introduce nella motivazione una informazione rilevante che non esiste nel processo o quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia (Sez. 2, n. 47035 del 03/10/2013,
Giugliano, Rv. 257499; Sez. 2, n. 27929 del 12/06/201929, Pg / COGNOME, Rv. 276567).
2.2. In ossequio al principio di autosufficienza dell’impugnazione, la difesa ricorrente ha allegato al presente ricorso entrambi gli atti da porre in comparazione con la motivazione della sentenza.
Il confronto porta ad escludere qualsivoglia errore percettivo della Corte territoriale rispetto al portato dichiarativo della persona offesa (indubitabilmente prova decisiva) che ha valutato nel suo reale contenuto nella parte in cui COGNOME sia nell’esposto presentato alle forze dell’ordine che nella deposizione dibattimentale, ha affermato- esattamente come riportato in sentenza- che l’imputato aveva, con lui personalmente (nonostante egli nulla c’entrasse con la vicenda), reclamato la somma di 500 euro, profitto di una truffa realizzata dal proprio figlio NOME ed aveva accompagnato la pretesa con la frase: “io sto facendo un favore a quei signori, ma lo sto facendo anche a voi perché se quelli vengono su… non sono persone, quelle sono belve”.
Inammissibile è anche il secondo motivo di ricorso con il quale si deduce violazione di legge in relazione all’art. 629 cod. pen. per difetto dell’elemento costitutivo della minaccia.
Il ricorrente non si confronta con la sentenza impugnata (pagg. 2 e 5) che ha evidenziato, da un lato, il carattere intrinsecamente intimidatorio delle espressioni verbali utilizzate da COGNOME nei confronti di COGNOME prospettando l’arrivo di calabresi che erano” belve” e che sarebbero “venute su” appositamente per risolvere la questione (non escluso per il solo fatto che esse fossero state proferite con tono pacato) e, dall’altro, la circostanza che l’esposto era stato presentato proprio in ragione del serio timore ingenerato nell’esponente per l’incolumità propria e di quella dell’intera famiglia.
La Corte territoriale ha quindi argomentato in piena aderenza ai principi di diritto elaborati dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui costituisce minaccia qualsiasi comportamento deciso, perentorio e univoco dell’agente che, secondo una valutazione ex ante, sia astrattamente ed oggettivamente idoneo a turbare o diminuire la libertà psichica e morale del soggetto passivo; l’eventuale atteggiamento minaccioso o provocatorio non influisce sulla sussistenza del reato, potendo eventualmente sostanziare una circostanza che ne diminuisce la gravità (Sez. 2, n. 21684 del 12/02/2019,COGNOME, Rv. 275819; Sez. 5 n. 11708 del 15/10/2029, COGNOME, Rv. 278925).
Analogo giudizio di manifesta infondatezza va formulato in relazione al terzo e quarto motivo di ricorso con i quali si lamenta violazione di legge in punto
5 GLYPH
NOME
di mancata riqualificazione del fatto nel meno grave delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ovvero in truffa.
4.1. La natura della doglianza prospettata rende opportuno il richiamo ai principi di diritto espressi dalla sentenza a Sezioni Unite n. 29541 del 16/07/2020, COGNOME Rv. 280027-02 e richiamata dallo stesso ricorrente.
Con tale pronuncia si è affermato che il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione si differenziano tra loro, non per la materialità del fatto, bensì in relazione essenzialmente all’elemento psicologico: nel primo, l’agente mira al conseguimento di un profitto nella convinzione non meramente astratta ed arbitraria, ma ragionevole, anche se in concreto infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nel secondo, invece, la condotta è connotata dall’intento di conseguire un profitto nella piena consapevolezza della sua ingiustizia.
Si è inoltre statuito che configura il delitto di estorsione, e non quello di cui all’art. 393 cod. pen., la condotta con cui l’agente eserciti la pretesa con violenza o minaccia in danno di un terzo estraneo al rapporto obbligatorio, per costringere il debitore a adempiere; che l’elemento piscologico del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello del delitto di estorsione devono essere accertati secondo le ordinarie regole probatorie, per cui la speciale veemenza con cui viene perpetrato il comportamento violento o minaccioso può avere valenza di elemento sintomatico del dolo di estorsione;
Si è anche ulteriormente precisato che, ai fini della integrazione della fattispecie di ragion fattasi, la pretesa arbitrariamente coltivata dall’agente deve, peraltro, corrispondere esattamente all’oggetto della tutela apprestata in concreto dall’ordinamento giuridico, e non risultare in qualsiasi modo più ampia, ciò che caratterizza il reato in questione è la sostituzione dello strumento di tutela pubblico con quello privato, e l’agente deve, quindi, essere animato dal fine di esercitare un diritto con la coscienza che l’oggetto della pretesa gli possa competere giuridicamente. È pertanto, configurabile, il delitto di estorsione nei casi in cui l’agente abbia esercitato la pretesa con violenza e/o minaccia in danno di un terzo assolutamente estraneo al rapporto obbligatorio esistente inter partes, dal quale scaturisce la pretesa azionata, per costringere il debitore ad adempiere, condotta in concreto diretta a procurarsi un profitto ingiusto poiché consistente nell’ottenere il pagamento del debito da un soggetto estraneo al sottostante rapporto contrattuale.
4.2. Tanto premesso, la motivazione della sentenza impugnata ( pagg. 5 e 6) è rispettosa dei principi soprarichiamati laddove evidenzia che l’imputato –
pacificamente intermediario del soggetto truffato – si era reso responsabile di una condotta estorsiva perché, pur avendo fatto valere una ragione economica non era di per sé ingiusta, tuttavia, da un lato, aveva agito nei confronti di un soggetto diverso dal debitore (da identificarsi in NOME COGNOME) e, dall’altro, aveva chiesto l’intero profitto della truffa pari alla somma di euro 500,00, quando invece il suo autore ne aveva già restituita una parte, sicchè l’eccedenza rappresentava una pretesa ingiusta.
4.3. La Corte di appello ha altresì escluso la riqualificazione del fatto in altre fattispecie delittuose perseguibili a querela di parte, così implicitamente disattendo quella in termini di truffa prospettata dalla difesa.
Anche sotto questo profilo la statuizione è conforme al consolidato indirizzo ermeneutico che individua il criterio distintivo tra il delitto di estorsione mediante minaccia e quello di truffa cd. vessatoria nel diverso atteggiarsi del pericolo prospettato, sicché si ha truffa aggravata ai sensi dell’art. 640, comma secondo n.2, cod. pen. quando il danno viene prospettato come possibile ed eventuale e mai proveniente direttamente o indirettamente dall’agente, di modo che la persona offesa non è coartata nella sua volontà, ma si determina all’azione od omissione versando in stato di errore, mentre ricorre il delitto di estorsione quando viene prospettata l’esistenza di un pericolo reale di un accadimento il cui verificarsi è attribuibile, direttamente o indirettamente, all’agente ed è tale da non indurre la persona offesa in errore, ma, piuttosto, nell’alternativa ineluttabile di subire lo spossessamento voluto dall’agente o di incorrere nel danno minacciato.
A fronte della GLYPH complessiva ricostruzione fattuale della vicenda (non sindacabile in questa sede, dovendosi escludere escluso il dedotto travisamento probatorio) i giudici di appello hanno evidenziato che l’imputato aveva agito in qualità di intermediario del truffato e la minaccia era consistita nel rappresentare che i calabresi vittime del raggiro non erano persone ma “belve”, così implicitamente escludendo, nel caso concreto, la prospettazione di un danno solo possibile ed eventuale rispetto al quale, tra l’altro, l’atto di appello (pagg. 25 e 26) appare generico poiché, al di là dei principi di diritto richiamati, non spiega in quali concreti termini il male minacciato fosse stato immaginario e comunque eventuale.
E’ inammissibile anche il settimo motivo di ricorso con il quale si deduce violazione di legge e motivazione meramente apparente con riferimento al mancato riconoscimento della attenuante della lieve entità introdotta con la sentenza n. 120 del 15/06/2023 della Corte Costituzionale.
Ben diversamente da quanto sostiene il ricorrente, i giudici di appello hanno escluso, con motivazione esaustiva e puntuale (pagg. 7 e 8), il riconoscimento
della diminuente in questione facendo diretta applicazione proprio degli specifici parametri individuati dal Giudice delle leggi con riferimento a “natura, specie, mezzi, modalità o circostanze dell’azione”, ovvero alla “particolare tenuità del danno o del pericolo”.
La Corte territoriale ha infatti valorizzato, in senso ostativo alla diminuente, le modalità della condotta sotto il profilo della gravità della minaccia, della sua peculiare natura (“nello stile della criminalità organizzata”) e dell’insistenza con cui l’imputato aveva cecato di perseguire la somma pretesa.
Sono invece fondate le doglianze contenute nel quinto e sesto motivo in punto di applicazione in concreto della ritenuta recidiva specifica.
Effettivamente la sentenza impugnata (pag. 8) ha disatteso la richiesta difensiva di disapplicazione di detta aggravante fondandosi esclusivamente sulla pregressa condanna riportata dall’imputato, senza confrontarsi con le deduzioni sviluppate nell’atto di appello ove si evidenziava che la stessa era relativa a fatti commessi nel lontanissimo anno 1990 e che COGNOME, dopo tale risalente illecito, aveva condotto per molti anni una via regolare fondata su famiglia e lavoro, sicchè la ricaduta nel reato era da considerarsi occasionale.
Trattasi di motivazione carente e non in linea con il principio di diritto dettato dalle Sezioni Unite con sentenza n. 35738 del 27/05/2010, COGNOME, Rv. 247838 secondo cui, in presenza di contestazione della recidiva a norma di uno dei primi quattro commi dell’art. 99 cod. pen., il giudice è tenuto a verificare in concreto se la reiterazione dell’illecito sia sintomo effettivo di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore, avuto riguardo alla natura dei reati, al tipo di devianza di cui essi sono il segno, alla qualità e al grado di offensività dei comportamenti, alla distanza temporale tra i fatti e al livello di omogeneità esistente tra loro, all’eventuale occasionalità della ricaduta e a ogni altro parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero e indifferenziato riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali.
Sul punto la sentenza va dunque annullata per nuovo giudizio.
PQM
Annulla la sentenza impugnata limitatamente all’applicabilità della recidiva e rinvia per nuovo giudizio alla Corte di appello di Perugia.
Dichiara inammissibile il ricorso nel resto e definitivo l’accertamento di responsabilità.
Così deciso il 06/11/2024