Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 3127 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 3127 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 30/11/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME, nata a Torino il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 30/09/2022 della Corte d’appello di Torino visti gli atti, il provvedimento impugnato, il ricorso e i motivi nuovi presentat dall’AVV_NOTAIO, difensore di COGNOME NOME;
letta la memoria dell’AVV_NOTAIO, difensore della parte civile RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, il quale ha chiesto che il ricorso sia rigettato;
letta la memoria dall’AVV_NOTAIO, difensore di COGNOME NOME, di replica alla memoria dell’AVV_NOTAIO, difensore della parte civile RAGIONE_SOCIALE;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME, la quale ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile;
udito l’AVV_NOTAIO, in difesa della parte civile RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, il quale ha concluso chiedendo la conferma delle statuizioni penali e civili della sentenza impugnata e ha depositato conclusioni scritte e nota spese;
udito l’AVV_NOTAIO, in difesa della ricorrente COGNOME NOME, il quale, dopo la discussione, ha concluso chiedendo l’accoglimento dei motivi di ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 30/09/2022, la Corte d’appello di Torino, in parziale riforma della sentenza del 17/01/2019 del Tribunale di Torino: a) assolveva NOME COGNOME e NOME COGNOME dal reato di estorsione pluriaggravata (dall’avere cagionato alla persona offesa un danno patrimoniale di rilevante gravità e dall’avere abusato di relazioni di prestazione d’opera) in concorso ai danni di NOME RAGIONE_SOCIALE di cui al capo B) dell’imputazione; b) confermava la condanna di NOME COGNOME per il reato di tentata estorsione pluriaggravata (dall’avere cagionato alla persona offesa un danno patrimoniale di rilevante gravità e dall’avere abusato di relazioni di prestazione d’opera) ai danni di NOME RAGIONE_SOCIALE di cui al capo A) dell’imputazione; c) rideterminava la pena irrogata a NOME COGNOME per quest’ultimo reato in un anno e quattro mesi di reclusione ed € 400,00 di multa.
Il reato di tentata estorsione pluriaggravata di cui al capo A) dell’imputazione era stato contestato alla COGNOME «perché, dopo essersi fatta firmare in bianco da RAGIONE_SOCIALE NOME tre fogli di carta in virtù di un rapporto professionale e di fiducia con la stessa intercorrente in quanto commercialista dapprima del di lei defunto marito COGNOME NOME e poi anche della stessa RAGIONE_SOCIALE, ed aver utilizzato arbitrariamente uno di detti fogli apponendovi la data del 3/10/2011 e stampandovi quale contenuto un mai avvenuto atto di conferimento di incarico professionale apparentemente a lei rilasciato dalla persona offesa ed ove le veniva apparentemente riconosciuto dalla RAGIONE_SOCIALE un compenso pari al 2,5% del valore totale delle attività patrimoniali del suddetto COGNOME oggetto di divisione tra la predetta ed i figli del “de cuius” nella ipotesi di suo esito positivo, compiva atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere con minaccia RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE a corrisponderle la somma di Euro 238.405,99 (calcolata quale quella pari al 2,5% del totale delle attività oggetto della sopra menzionata divisione), e a procurarsi così il relativo ingiusto profitto con pari danno della offesa, atti consistiti nell’invi alla suddetta persona offesa a mezzo legale richiesta di pagamento di detta somma nella dolosa consapevolezza dell’assoluta mancanza di fondamento di tale pretesa accompagnata dalla minaccia di attivare giudizialmente la medesima.
Con le aggravanti di aver tentato di cagionare alla persona offesa un danno patrimoniale di rilevante gravità e di aver abusato di relazioni di prestazione d’opera.
In Torino, in data 3.10.2014».
Avverso l’indicata sentenza del 30/09/2022 della Corte d’appello di Torino, ha proposto ricorso per cassazione, per il tramite del proprio difensore, NOME COGNOME, affidato a due motivi.
2.1. Con il primo motivo, la ricorrente lamenta, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e) , cod. proc. pen., la mancanza e l’illogicità della motivazione «concernente il giudizio di attendibilità della teste NOME COGNOME e la responsabilità della ricorrente».
La ricorrente rammenta anzitutto come la persona offesa NOME COGNOME avesse sempre affermato di avere contestualmente sottoscritto tre fogli di carta in bianco, su richiesta della stessa ricorrente che li aveva trattenuti, contestualità della sottoscrizione che sarebbe smentita da quanto sarebbe emerso in sede di incidente probatorio (con il quale si era proceduto alla perizia grafologico-chimica sui due fogli, contrassegnati dai periti con la sigla X1 e X2, di cui al capo A dell’imputazione, e sul foglio, contrassegnato dai periti con la sigla X3, di cui al capo B dell’imputazione).
La COGNOME ricorda poi come la sentenza impugnata sia pervenuta alla conclusione che «la RAGIONE_SOCIALE non supera positivamente il rigoroso vaglio di attendibilità richiesto». A tale proposito, la ricorrente rappresenta come, nel ritenere come «la dichiarazione risulti contraddetta dalle acquisizioni probatorie acquisite nel prosieguo del processo» (pag. 13 della sentenza impugnata), la Corte d’appello di Torino avrebbe trascurato ulteriori circostanze, le quali sarebbero dimostrative del fatto che «le parti più importanti della testimonianza resa dalla parte civile sono smentite dai fatti accolti in sentenza», segnatamente: a) «se i tre documenti in atti non furono contestualmente sottoscritti, la RAGIONE_SOCIALE non ha detto il vero»; b) la RAGIONE_SOCIALE aveva affermato di avere consegnato altri fogli da lei sottoscritti in bianco all’AVV_NOTAIO, il quale, però, l aveva negato; c) la RAGIONE_SOCIALE aveva affermato di non essersi mai giovata di NOME COGNOME per reperire documenti «che le consentirono di ottenere la quota ereditaria di sua spettanza» (così il ricorso), in ciò smentita sia «dai documenti prodotti (i numerosi sms versati in atti)» sia da una «”registrazione acquisita nel dibattimento” di appello»; d) anche l’affermazione della RAGIONE_SOCIALE di non avere «mai promesso alloggio a NOME COGNOME» (così il ricorso) era smentita dalla menzionata registrazione; e) la RAGIONE_SOCIALE aveva ammesso di avere consegnato alla RAGIONE_SOCIALE delle promesse scritte di compensarla dell’aiuto ricevuto; f) la RAGIONE_SOCIALE non aveva mai versato alla COGNOME C 75.000,00, affermazione che costituiva un refuso della sentenza impugnata. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Ciò esposto, la ricorrente denuncia la contraddittorietà della motivazione in quanto la Corte d’appello di Torino, «dopo avere negato che la teste sia credibile, utilizza le sue dichiarazioni nei confronti della odierna ricorrente».
Secondo la ricorrente, la Corte d’appello di Torino avrebbe poi «capovo[Itoi la prospettiva di analisi dei fatti e del diritto», là dove, nel confermare l responsabilità della COGNOME per il reato di tentata estorsione di cui al capo A)
dell’imputazione, afferma che «on le medesime premesse giuridiche e il medesimo parametro valutativo delle fonti di prova occorre poi esaminare le censure mosse alla sentenza di primo grado in relazione al capo a)» (pag. 14 della sentenza impugnata).
Nell’affermare che i due profili di rilievo sarebbero costituiti dall «correttezza» o no della motivazione là dove la Corte d’appello di Torino ha ritenuto la falsità dei documenti contrassegnati con le sigle TARGA_VEICOLO e X2 e la «sostenibilità» della stessa motivazione «sul residuo compendio probatorio», la ricorrente, quanto al primo di tali profili, lamenta che, a parte il «laconico» asserto della Corte d’appello di Torino «ome ampiamente ricordato sopra, infatti, i documenti X1 e X2 sono risultati non autentici» (pag. 14 della sentenza impugnata), la stessa Corte d’appello avrebbe del tutto trascurato di confrontarsi con quanto era stato dedotto nel proprio atto di appello, nel quale veniva «analiticamente confutata la scientificità delle conclusioni alle quali erano pervenuti i periti» e veniva richiesta la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale per conferire un nuovo incarico peritale «da eseguirsi con asportazione dei frammenti di inchiostro (rectius: toner) al fine di accertare, oltre ogni ragionevole dubbio, se sia stata apposta prima la firma o la stampa»; richiesta neppure considerata dalla Corte d’appello di Torino.
Ancora, sarebbe «singolare» che la parte della sentenza impugnata relativa all’affermazione di responsabilità della ricorrente per il reato di tentata estorsione di cui al capo A) dell’imputazione «non faccia neppure menzione delle gravi contraddizioni delle testimonianze raccolte», trascurando, in particolare, la critica della credibilità dei testimoni AVV_NOTAIO e AVV_NOTAIO «i quali omisero d riferire l’effettivo svolgimento dei fatti, accodandosi alla inattendibile NOME COGNOME».
La ricorrente «segnal» quindi che: a) la RAGIONE_SOCIALE avrebbe mentito sulla causale del pagamento, da parte sua alla COGNOME, della somma di C 75.000,00 «relativa ad una parcella emessa prima che il COGNOME morisse per prestazioni non riconducibili alla presente vicenda»; b) la COGNOME ricevette un incarico «in base al quale collaborò con l’AVV_NOTAIO e con gli altri legali»; c) il lavoro da lei svolto adempimento di tale incarico «è documentato dalle centinaia di mail prodotte e dalle testimonianze raccolte e non è messo in discussione dalla sentenza». La ricorrente deduce che «il tema rilevante in sede di legittimità è la incomprensibile sottovalutazione dell’apporto della ricorrente alla trattazione della vicenda: una minimizzazione esaltata dalla teste COGNOME, secondo la quale la professionista si sarebbe limitata a catalogare qualche documento, ma smentita dai documenti in atti e dalle testimonianze raccolte. Su questo punto, la Corte d’appello ha del tutto
omesso di confrontarsi con l’atto di appello, il quale ha analiticamente illustrat le risultanze processuali dalle quali si evince la mole di lavoro svolto».
2.2. Con il secondo motivo, la ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) , cod. proc. pen., l’inosservanza e l’erronea applicazione degli artt. 393 e 629 cod. pen.
La ricorrente premette che: a) secondo la Corte d’appello di Torino, la qualificazione del fatto come tentato esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone sarebbe stata impedita dal fatto che l’imputata aveva predisposto la falsa scrittura contenente l’incarico professionale e il riconoscimento del relativo compenso; b) costituirebbe un dato di fatto che ella ricevette effettivamente l’incarico di collaborare con l’AVV_NOTAIO ricostruendo il patrimonio del defunto NOME COGNOME (recte: NOME COGNOME) e svolse effettivamente tale incarico; c) come affermato dalla stessa Corte d’appello, ella era «convinta di avere diritto alla somma indicata nei documenti, artatamente predisposti» (pag. 14 della sentenza impugnata). Diritto che sarebbe stato confermato anche delle testimonianze degli AVV_NOTAIOti COGNOME, COGNOME e COGNOME.
Ciò premesso, verrebbero meno le parti della contestazione, contenute nel capo d’imputazione, relative al «mai avvenuto atto di conferimento di incarico professionale» e alla «dolosa consapevolezza della assoluta mancanza di fondamento di tale pretesa». Inoltre, contrariamente a quanto affermato dalla Corte d’appello di Torino, nessuna iniziativa giudiziaria – questa, peraltro, mai contestata – era stata intrapresa per ottenere il pagamento del compenso.
Tornando alla tesi della Corte d’appello di Torino secondo cui la riqualificazione del fatto come esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alla persona sarebbe stata impedita dall’essersi l’imputata «procurata una prova del credito vantato, e una precisa determinazione della sua quantificazione, sottraendosi quindi agli accertamenti che l’ordine dei commercialisti o il giudice civile [… avrebbero eventualmente potuto effettuare. Oltre alla preordinazione della prova, quindi, vi è stata anche una autoliquidazione del credito» (pagg. 14-15 della sentenza impugnata), la COGNOME deduce che: a) la somma da lei richiesta «rientrava nei parametri previsti dalla legge in base al valore della massa ereditaria che regola il tariffario dei commercialisti» ed era il frutto di una legittim determinazione dei propri onorari, il che escluderebbe l’elemento dell’ingiustizia del profitto; b) il ragionamento della Corte d’appello di Torino «trasferisce il requisito dell’ingiustizia del profitto (e, ovviamente, della sua consapevolezza) dalle modalità dell’azione alla sostanza della pretesa, qualificandola illegittima e priva di fondamento legittimante l’azione giudiziaria non già perché ne difettavano i requisiti essenziali, ma soltanto perché realizzata sulla base di un presupposto (i documenti X1 e X2) asseritannente illecito».
Pertanto, poiché la propria pretesa di pagamento di onorari era legittima, non sproporzionata e suscettibile di accertamenti, non si poteva ritenere né che il profitto fosse ingiusto né, sul piano dell’elemento soggettivo del reato, che l’imputata perseguisse un siffatto profitto. Insomma: «ingiusto non è il profitto, bensì, semmai, il modo con il quale si intese raggiungerlo». Né la consapevolezza di essersi avvalsa di documenti falsi «abbraccia la ingiustizia del profitto, perché non di profitto si trattava, ma di onorari professionali, per un lavoro effettivamente e proficuamente svolto».
NOME COGNOME ha presentato motivi nuovi, relativi alle censure di cui al secondo motivo del suo ricorso, con i quali ribadisce che: a) come riconosciuto dalla Corte d’appello di Torino, ella era «convinta di avere diritto alla somma indicata nei documenti, artatamente predisposti», il che, anche alla stregua di Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027-02, escluderebbe l’elemento psicologico del delitto di estorsione; b) «quand’anche i documenti impiegati a sostegno della richiesta di pagamento fossero e dovessero essere considerati artefatti, questo solo non implicherebbe in alcun modo la ingiustizia del profitto perseguito», «vale a dire l’esosità ingiustificata della somma richiesta e la sua evidente sproporzione rispetto ai parametri stabiliti dal tariffario professionale [… Questo non è avvenuto, essendosi la Corte limitata a censurare una procedura auto liquidatoria consentita dalla legge siccome consistente nella determinazione degli onorari pretesi, in assenza di qualunque elemento che potesse in qualche modo dimostrare che NOME COGNOME aveva preteso una somma largamente superiore a quella che le sarebbe comunque spettata, trascurando del tutto inopinatamente, essendo il tariffario professionale approvato con decreto ministeriale – il fatto che i parametri vigenti furono del tutto rispettati».
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo è manifestamente infondato.
1.1. Secondo la costante giurisprudenza di legittimità, occorre effettuare un rigoroso riscontro della credibilità soggettiva e oggettiva della persona offesa, specie se costituita parte civile, accertando l’assenza di elementi che facciano dubitare della sua obiettività, senza la necessità, però, della presenza di riscontri esterni, stabilita dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. per il dichiarante coinvolto nel fatto (cfr., ex plurimis, Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, RAGIONE_SOCIALE, Rv. 25321401; Sez. 5, n. 12920 del 13/02/2020, COGNOME, Rv. 279070-01; Sez. 5, n. 21135 del 26/03/2019, S., Rv. 275312-01; Sez. 2, n. 41751 del 04/07/2018, COGNOME, Rv. 274489-01; Sez. 2, n. 43278 del 24/09/2015, COGNOME, Rv. 265104-01; Sez. 5, n. 1666 del 08/07/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 261730-01).
Le Sezioni unite hanno anche statuito che «la valutazione della credibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale fornito dal giudice e non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni» (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, cit.; più di recente: Sez. 4, n. 10153 del 11/02/2020, C., Rv. 278609-01).
Così come, più in generale, non è sindacabile in sede di legittimità, salvo il controllo sulla congruità e logicità della motivazione, la valutazione della prova testimoniale operata dal giudice di merito, al quale spetta il giudizio sulla rilevanza e sull’attendibilità di tale fonte di prova (Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, COGNOME, Rv. 271623-01; Sez. 2, n. 20806 del 05/05/2011, COGNOME, Rv. 25036201).
La Corte di cassazione ha altresì chiarito che è legittima una valutazione frazionata delle dichiarazioni della parte offesa e l’eventuale giudizio di inattendibilità, riferito ad alcune circostanze, non inficia la credibilità delle a parti del racconto, a meno che non esista un’interferenza logica tra le parti del narrato per le quali non si ritiene raggiunta la prova della veridicità e le altre par che siano intrinsecamente attendibili e adeguatamente riscontrate (Sez. 6, n. 3015 del 20/12/2010, dep. 2011, COGNOME, Rv. 249200-01. In senso analogo: Sez. 4, n. 21886 del 19/04/2018, COGNOME, Rv. 272752-01; Sez. 6, n. 20037 del 19/03/2014, L., Rv. 260160-01).
1.2. Nel caso in esame, la Corte d’appello di Torino ha legittimamente scisso la valutazione di credibilità della persona offesa NOME COGNOME, disattendendo la parte delle sue dichiarazioni relativa alla vicenda di cui al capo B) dell’imputazione e ritenendo, invece, veritiera, la parte della deposizione della COGNOME relativa alla vicenda di cui al capo A) dell’imputazione.
Tale scissione risulta del tutto evidente alla luce del fatto che la Corte d’appello di Torino ha evidenziato contraddizioni nelle dichiarazioni della RAGIONE_SOCIALE con esclusivo riferimento a quelle relative alla vicenda di cui al capo B) dell’imputazione (si veda la pag. 13 della sentenza impugnata), senza nulla osservare con riguardo alle dichiarazioni della stessa RAGIONE_SOCIALE relative alla vicenda di cui al capo A) dell’imputazione, con ciò evidentemente adeguandosi alla conforme sentenza del Tribunale di Torino – che aveva diffusamente motivato in ordine all’attendibilità delle dichiarazioni della RAGIONE_SOCIALE relative alla vicenda di cui al capo A) dell’imputazione (si veda, in particolare, la pag. 15 della sentenza di primo grado) – e sottolineando come le stesse dichiarazioni avessero trovato adeguato riscontro negli esiti della perizia grafologico-chimica alla quale si era proceduto con incidente probatorio, la quale aveva accertato la falsità dei testi dattiloscritti presenti s fogli contrassegnati dai periti con le sigle X1 e X2, in quanto tali testi erano stati
redatti successivamente all’apposizione, in calce agli stessi fogli, della firma “NOME“.
La valutazione frazionata della credibilità delle dichiarazioni della persona offesa NOME COGNOME in ordine alla parte di esse relativa alla vicenda di cui al capo A) dell’imputazione si deve perciò ritenere, come si è anticipato, del tutto legittima, sia perché tale parte non costituisce un antecedente logico della parte delle dichiarazioni della COGNOME relativa alla vicenda di cui al capo B) dell’imputazione, ritenuta, invece, non credibile, sia perché la parte delle dichiarazioni relative alla vicenda di cui al capo A) dell’imputazione è stata adeguatamente ritenuta riscontrata dagli esiti della menzionata perizia.
Pertanto, considerato che la motivazione con la quale la Corte d’appello di Torino ha recepito come credibili queste ultime dichiarazioni della persona offesa risulta priva di contraddizioni manifeste, tale valutazione di credibilità si sottrae a censure in questa sede di legittimità.
Quanto al riscontro costituito dal ricordato esito della perizia grafologicochimica alla quale si era proceduto con incidente probatorio, si deve osservare come, dalla struttura argomentativa della sentenza impugnata, risulti del tutto agevole comprendere le ragioni dell’implicito rigetto della richiesta di parziale rinnovazione dell’istruzione dibattimentale per conferire un nuovo incarico peritale. La Corte d’appello di Torino ha infatti espressamente affermato come le conclusioni della perizia già espletata, quanto ai documenti contrassegnati con le sigle X1 e X2, erano «assistite da certezza tecnica», nel senso che esse avevano acclarato, in termini, appunto, di certezza, che i testi dattiloscritti presenti sui fog X1 e X2 erano stati redatti successivamente all’apposizione, in calce agli stessi fogli, della firma “NOME COGNOME” – sicché l’atto di conferimento di incarico professionale e di riconoscimento del relativo compenso contenuto negli stessi testi si doveva ritenere non autentico – con la conseguente possibilità di decidere allo stato degli atti, senza procedere al conferimento di un nuovo incarico peritale.
Le ulteriori deduzioni della ricorrente in ordine all’asserita effettività de conferimento dell’incarico professionale di cui ai menzionati fogli X1 e X2, oltre che all’asserito svolgimento dello stesso incarico, essendo sostanzialmente dirette a ottenere una differente valutazione dell’attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, degli esiti dell’espletata perizia tecnica e, più in generale, degli elementi probatori, non sono consentite in questa sede di legittimità.
2. Il secondo motivo è manifestamente infondato.
In tema di estorsione, l’elemento dell’ingiusto profitto si individua in qualsiasi vantaggio, non solo di tipo economico, che l’autore intenda conseguire e che non si collega a un diritto, ovvero è perseguito con uno strumento antigiuridico o con uno strumento legale ma avente uno scopo tipico diverso (Sez. 2, n. 16658 del
31/03/2008, COGNOME, Rv. 239780-01; Sez. 2, n. 29563 del 17/11/2005, dep. 2006, COGNOME, Rv. 234963-01).
Nel caso in esame, la Corte d’appello di Torino ha correttamente ritenuto la sussistenza dell’elemento dell’ingiustizia del profitto, atteso che il vantaggio economico che la COGNOME intendeva conseguire era da essa sia perseguito mediante uno strumento antigiuridico, costituito dai due falsi titoli contenuti nei fogli poi contrassegnati dai periti con le sigle X1 e X2, sia relativo a un quantum che, in quanto determinato, nei medesimi falsi titoli, in una misura unilateralmente determinata, in assenza di qualsiasi pattuizione, non era collegato a un diritto che si potesse ritenere effettivamente spettante in quella misura.
Appare quindi evidente come la pretesa che l’imputata intendeva conseguire non potesse in alcun modo formare oggetto, sulla base di quei titoli e nella misura che da essi risultava, di un’azione giudiziaria; del che l’imputata, autrice dei falsi titoli, non poteva che essere pienamente cosciente.
Pertanto, la richiesta di pagamento della somma risultante dagli stessi titoli, accompagnata dalla minaccia di attivare giudizialmente tale pretesa (Sez. 2, n. 16618 del 16/01/2003, NOME, Rv. 224399-01), è stata correttamente ritenuta integrare il reato di tentata estorsione e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna della ricorrente, ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento, nonché, essendo ravvisabili profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento della somma di C 3.000,00 in favore della cassa delle ammende.
Ai sensi dell’art. 585, comma 4, secondo periodo, cod. proc. pen., l’inammissibilità del ricorso si estende ai motivi nuovi.
L’imputata deve anche essere conseguentemente condannata alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile NOME COGNOME, che si liquidano in complessivi C 3.700,00, oltre accessori di legge.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Condanna, inoltre, l’imputata la rifusione delle spese di rappresentanza
e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile RAGIONE_SOCIALE che
liquida in complessivi euro 3700/00, oltre accessori di legge. Così deciso il 30/11/2023.