Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 6593 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 6593 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 30/01/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
NOME COGNOME nato a LULA il DATA_NASCITA COGNOME nato a ROMA il DATA_NASCITA
NOME COGNOME nato a ROMA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 21/03/2023 della CORTE APPELLO di BRESCIA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere AVV_NOTAIO; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore AVV_NOTAIO che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso; udito il difensore degli imputati, AVV_NOTAIO, il quale ha insistito per l’accoglimento del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Brescia, con sentenza del 21 marzo 2023 confermava la sentenza di primo grado nella parte in cui disponeva la condanna di COGNOME NOME e COGNOME NOME per i reati di tentata estorsione di cui ai capi 1) e 2) e di COGNOME NOME per il reato di cui al capo 2); in particolare, si trattava di tentate estorsioni commesse ai danni di NOME NOME, gestore di un bar pasticceria (sottoposto a sequestro nell’ambito di un procedimento di prevenzione nei confronti di COGNOME NOME), intestato a COGNOME NOME e COGNOME NOME, ma gestito da NOME, per il quale gli imputati avrebbero preteso somme per permettergli di continuare nella gestione
Il difensore osserva che la consegna del denaro alla COGNOME da parte di NOME (di cui al capo 1) era stata concordata con largo anticipo con i carabinieri, malgrado nessuno degli imputati gli avesse chiesto soldi; in nessuna delle conversazioni intercettate era mai stato chiesto denaro ad NOME da parte della COGNOME, né vi erano mai state minacce; per quanto riguardava il reato di cui al capo 2), vi era stata un palese errore nella ricostruzione del fatto storico e nella qualificazione giuridica, visto che le condotte descritte rappresentavano eventualmente un corollario all’imputazione di cui al capo 1) piuttosto che una
1.1 Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione il difensore di COGNOME NOME, COGNOME NOME NOME e COGNOME NOME, lamentando che la Corte di appello aveva compiuto una errata valutazione sulla idoneità degli atti e sulla loro univocità alla commissione del reato di estorsione; non si comprendeva il motivo per cui erano state richiamate alcune conversazioni fra gli imputati e la persona offesa, senza considerare che mai alcuna richiesta di denaro (in maniera diretta o indiretta) era stata avanzata da parte degli imputati; era poi stato dimenticato il contenuto della conversazione del 22 gennaio 2016 in cui COGNOME esplicitava alla moglie la sua volontà di non voler assolutamente incontrare NOME e la sua ritrosia a che la stessa compagna andasse all’incontro programmato dalla persona offesa; era stato trascurato anche che erano passati sei mesi senza che NOME avesse avuto alcun contatto con gli imputati e che era stato NOME che aveva deciso di richiamare la COGNOME; gli unici due elementi posti a base della condanna erano stati le dichiarazioni di NOME e il taglio degli pneumatici operato sull’autovettura del suo compagno, bagaglio probatorio esiguo per costruire un inesistente clima implicitamente minaccioso; quanto al primo aspetto, NOME aveva tutto l’interesse di far credere di aver subìto un’estorsione al fine di coprire le sua responsabilità di distruzione economica del bene affidatogli; quanto al secondo, la denuncia presentata era stata archiviata. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
fattispecie autonoma di reato: la condotta descritta nei due capi di imputazione rappresentava in realtà un unicum, in cui le condotte annoverate nel secondo capo di imputazione rappresentavano il presupposto all’azione di denaro rubricata al capo numero 1 (a riprova di ciò si poteva notare come cronologicamente itlfatti enucleati al capo uno erano successivi alle condotte contestate al capo 2).
1.2 Il difensore rileva che la premessa da cui erano partiti i giudici di appello nell’argomentare la condanna per il reato di cui al capo 2) era erronea ed infondata in punto di diritto: in relazione alle aspettative della famiglia COGNOME di rientrare in possesso del bar, la sentenza impugnata non si era confrontata con l’intercettazione del 22 gennaio 2016, da cui risultava che COGNOME NOME voleva rientrarne in possesso solo dopo aver vinto il ricorso avverso la misura di prevenzione: era difficile credere che un soggetto che vuole mettere in atto minacce estorsive confidi alla propria compagna di voler attendere la sentenza per riprendersi le chiavi del bar.
Passando ad esaminare l’imputazione di cui al capo 2), secondo i giudici di merito la richiesta estorsiva e le minacce sarebbero emerse da un messaggio whatsapp che COGNOME NOME avrebbe fatto leggere ad NOME, per cui la presunta minaccia non proveniva direttamente dagli imputati, ma da un’amica di NOME che aveva motivi di risentimento verso la famiglia COGNOME, il tutto condito da una serie di episodi che rappresentavano invero il corollario di quanto accaduto 1’11 febbraio 2016 (arresto della COGNOME); non vi era prova della motivazione che avrebbe spinto gli imputati a formulare una richiesta di 2.000,00 euro, ma si era ritenuto credibile NOME, che aveva più volte cambiato versione, prima affermando che la richiesta inizialmente di 2.000 euro si era trasformata in 2.000 sterline, poi che la prima richiesta di denaro era stata fatta ad opera della RAGIONE_SOCIALE quando RAGIONE_SOCIALE era ancora detenuto; era poi impossibile addebitare agli imputati l’invio del messaggio whatsapp da parte della COGNOME ad NOME, visto che non vi era alcun collegamento tra il messaggio ed una presunta richiesta estorsiva dei COGNOME, di cui non vi era prova; né potevano ritenersi riscontro le conversazioni effettuate tra i COGNOME a distanza di mesi dal messaggio: NOME non era mai venuto a conoscenza delle conversazioni avvenute tra COGNOME NOME ed i suoi familiari e non aveva mai ricevuto richieste di denaro.
Il difensore ribadisce la inattendibilità delle dichiarazioni della persona offesa riguardo alla riunione tenutasi con il proprietario dei muri del locale ed all’episodio del 21 giugno 2015, e riguardo alle motivazioni che avevano spinto NOME a spedire le mail all’amministratore giudiziario dei beni in sequestro (COGNOME) in cui lamentava l’accaduto, piuttosto che sporgere denuncia, osserva che scopo delle
mail era sviare l’attenzione da parte dell’amministrazione giudiziaria sulla cattiva gestione del bar da parte sua ed addebitare le proprie responsabilità per il dissesto finanziario che stava creando all’ingerenza di COGNOME e dei suoi familiari.
1.3 Il difensore lamenta che erroneamente non era stata disposta la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, relativamente alla audizione di NOME e del suo compagno COGNOME sul tema del viaggio negli Stati Uniti per l’operazione di maternità surrogata e le risorse da loro utilizzati per tale scopo; si voleva evidenziare che il dissesto economico del bar era dipeso dalle somme necessarie per il viaggio e per la surrogazione di maternità; in merito poi alla nascita della figlia, le domande (non ammesse dal Tribunale) erano più che legittime, visto che NOME aveva parlato di minacce di morte rivolte nei confronti della figlia, quando la stessa non era neppure nata.
1.4 Il difensore eccepisce che nella quantificazione della pena, nessuna analisi sulla personalità degli imputati e sulla capacità a delinquere era stata svolta, così come non era stata operata alcuna distinzione tra i ruoli di COGNOME NOME, la COGNOME e COGNOME NOME; vista l’assoluzione di quest’ultimo dal reato di cui al capo 1), sarebbe stata necessaria un motivazione circa l’eventuale coinvolgimento della COGNOME per gli stessi fatti, visto che la donna, come NOME, non aveva avuto alcun ruolo nella vicenda; avrebbe dovuto essere motivato Mie l’apporto materiale ed il coinvolgimento psicologico di COGNOME per i fatti di cui al capo 2); la sentenza andava censurata anche in ordine alla ingiustificata mancanza di motivazione in merito al diniego delle attenuanti di cui all’art. 62-bis cod. pen.; inoltre, non era stato giustificato in alcun modo l’elevato distacco dal minimo edittale previsto per il reato di estorsione; si era parlato di una particolare forza intimidatrice di COGNOME “per come da questi reiteratamente riferito nel corso delle conversazioni su riportate”, quanto nessuna delle conversazioni era giunta a conoscenza della persona offesa.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.11 ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
1.1 Si deve premettere che con riguardo alla decisione in ordine all’odierna parte ricorrente ci si trova dinanzi ad una cd. “doppia conforme” e cioè doppia pronuncia di eguale segno per cui il vizio di travisamento della prova può essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l’argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione della motivazione del provvedimento di secondo grado; il vizio di motivazione può infatti essere fatto valere solo nell’ipotesi in cui l’impugnata decisione ha riformato quella di primo
grado nei punti che in questa sede ci occupano, non potendo, nel caso di cd. “doppia conforme”, superarsi il limite del devolutum con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice d’appello, per rispondere alle critiche de motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice (Sez. 4, n. 19/10/2009, COGNOME, Rv. 243636; Sez. 1, n. 24667 del 15/6/2007, COGNOME, Rv. 237207; Sez. 2, n. 5223 del 24/1/2007, COGNOME, Rv 236130; Sez. 4, n. 5615 del 13/11/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 258432).
Nel caso in esame, invece, il giudice di appello ha esaminato lo stesso materiale probatorio già sottoposto al tribunale e, dopo aver preso atto delle censure degli appellanti, è giunto, con riguardo alla posizione degli imputati, alla medesima conclusione della sentenza di primo grado
Altra doverosa premessa è che riguardo alla valutazione delle dichiarazioni della persona offesa, il collegio condivide la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui le regole dettate dall’art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di responsabilità, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che in tal caso deve essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello a cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone.
Peraltro questa Corte, anche quando prende in considerazione la possibilità di valutare l’attendibilità estrinseca della testimonianza dell’offeso attraverso la individuazione di precisi riscontri, si esprime in termini di “opportunità” e non di “necessità”, lasciando al giudice dì merito un ampio margine di apprezzamento circa le modalità di controllo della attendibilità nel caso concreto; inoltre, costituisce principio incontroverso nella giurisprudenza di legittimità l’affermazione che la valutazione della attendibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale fornito dal giudice e non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni (ex plurimis Sez. 6, n. 27322 del 2008, COGNOME, cit.; Sez. 3, n. 8382 del 22/01/2008, COGNOME, Rv. 239342; Sez. 6, n. 443 del 04/11/2004, dep. 2005, COGNOME, Rv. 230899; Sez. 3, n. 3348 del 13/11/2003, COGNOME, Rv.NUMERO_DOCUMENTO).
Contraddizioni che non si rinvengono nel caso in esame, nel quale la Corte di appello ha fornito congrua motivazione della attendibilità del racconto della persona offesa, evidenziando che lo stesso è stato riscontrato da numerosi elementi probatori, tra cui il messaggio ricevuto da NOME ad opera della COGNOME
che lo avvisava delle iniziative che gli imputati volevano prendere nei suoi confronti, le conversazioni tra gli imputati intercettate, le visite di COGNOME NOME presso il locale documentate dalla polizia giudiziaria, le mail inviate da NOME all’amministratore COGNOME, le dichiarazioni del teste COGNOME (riscontrate a loro volta dalle conversazioni intercettate tra gli imputati); pertanto, una volta ritenuto attendibile NOME, la Corte di appello è giunta alla conferma della sentenza di condanna in quanto i fatti narrati da NOME corrispondono esattamente a quanto contestato agli imputati.
Né può essere accolta l’eccezione secondo la quale i fatti contestati dovessero essere ricompresi in un unico capo di imputazione trattandosi di episodi ben distinti, in quanto non proposta in appello: infatti, alla luce di quanto disposto dall’art. 609, comma 2, cod. proc. pen., non possono essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunciare perché non devolute alla sua cognizione, ad eccezione di quelle rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del giudizio e di quelle che non sarebbe stato possibile proporre in precedenza (Sez. 2, n. 19411 del 12/03/2019, COGNOME, Rv. 276062, in motivazione; Sez. 3, n. 57116 del 29/09/2017, COGNOME., Rv. 271869; Sez. 2, n. 29707 del 08/03/20; Sez. 2, n. 8890 del 31/01/2017, COGNOME, Rv. 269368; Sez. 3, n. 16610 del 24/01/2017, COGNOME, Rv. 269632; Sez. 2, n. 6131 del 29/01/2016, COGNOME, Rv. 266202; da ultimo v. Sez. 2, n. 23338 del 07/07/2020, COGNOME, non mass.). Il principio trova la sua ratio nella necessità di evitare che possa sempre essere rilevato un difetto di motivazione della sentenza di secondo grado con riguardo ad un punto del ricorso non investito dal controllo della Corte di appello, perché non segnalato con i motivi di gravame.
1.2 Quanto al terzo motivo di ricorso, la giurisprudenza di questa Corte è costante nel sostenere che il giudice di appello che intende respingere una specifica richiesta di parte di rinnovazione del dibattimento ha l’obbligo di dare conto dell’assenza di decisività degli incombenti proposti e cioè della loro inidoneità ad eliminare contraddizioni nei dati già raccolti o ad inficiarne la loro valenza (Cass. sez. 5 n. 15606 del 03/12/2014, dep. 2015, Rv. 263259; Cass. sez. 6 n. 1249 del 26/09/2013, dep. 2014Rv. 258758).
Nel caso di specie la Corte territoriale ha motivato la decisione di non rinnovare l’istruttoria dibattimentale, ritenendo sufficiente il materiale probatorio acquisito ed evidenziando che le ragioni del viaggio dei testi NOME e COGNOME negli Stati Uniti ed alle somme utilizzate a tale scopo fossero del tutto irrilevanti rispetto alle accuse mosse agli imputati, con motivazione logica e coerente con le risultanze processuali.
1.3 Relativamente alla mancata concessione delle attenuanti generiche, si deve ricordare che in tema di attenuanti generiche, posto che la ragion d’essere della relativa previsione normativa è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all’imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all’obbligo, per il giudice, ove questi ritenga invece di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo, l’affermata insussistenza. Al contrario, è proprio la suindicata meritevolezza che necessita, quando se ne affermi l’esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio.
Nel caso in esame, non viene indicato per quale ragione gli imputati fossero meritevoli della concessione delle attenuanti generiche, indicazione che mancava anche nell’atto di appello, per cui nessun onere motivazione aveva la Corte di appello sul punto.
Quanto al trattamento sanzionatorio, si deve ribadire che soltanto l’irrogazione di una pena base pari o superiore al medio edittale (e tale non è il caso in esame) richiede una specifica motivazione in ordine ai criteri soggettivi ed oggettivi elencati dall’art. 133 cod. pen., valutati ed apprezzati tenendo conto della funzione rieducativa, retributiva e preventiva della pena. (così sez. 5 n. 35100 del 27/06/2019, Torre, Rv. 276932 – 01).
Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, le parti private che lo hanno proposto devono essere condannate al pagamento delle spese del procedimento, nonché – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di C 3.000,00 così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti;
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di C 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende, Così deciso il 30/01/2024