Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 34321 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2   Num. 34321  Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 07/10/2025
SENTENZA
Sui ricorsi proposti da:
1.COGNOME NOME NOME a Torre del Greco il DATA_NASCITA
2.COGNOME NOME NOME in Argentina il DATA_NASCITA
3.COGNOME NOME NOME a Vico Equense il DATA_NASCITA
avverso  la  sentenza  del  14/10/2024  della  Corte  di  appello  di  Napoli,  seconda sezione penale;
visti gli atti, il provvedimento impugNOME e i ricorsi;
preso atto che l’ AVV_NOTAIO ha avanzato rituale richiesta di trattazione orale in presenza, ai sensi dell’art. 611, commi 1 -bis e 1ter , cod. proc. pen.
udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME;
udita  la  requisitoria  con  la  quale  il  Sostituto  Procuratore  generale,  NOME COGNOME, ha concluso chiedendo declaratoria di inammissibilità dei ricorsi:
udita la discussione dell ‘AVV_NOTAIO, difensore dei ricorrenti COGNOME NOME e COGNOME NOME, che  ha chiesto l’accoglimento dei ricorsi proposti nell’interesse dei suoi assistiti ;
udita  la  discussione  dell’AVV_NOTAIO,  difensore  del  ricorrente COGNOME,  che  ha  chiesto l’accoglimento  del  ricorso  proposto  nell’interesse  del proprio assistito.
Sent. n. 1277/2025 sez.
R.G.N. NUMERO_DOCUMENTO
PU – 07/10/2025
RITENUTO IN FATTO
Con l’impugnata sentenza la Corte di Appello di Napoli ha confermato la pronunzia del 07/06/2022 del Tribunale di Napoli che, all’esito di giudizio dibattimentale, aveva dichiarato NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME responsabili, in concorso tra loro, del delitto di tentata estorsione aggravata e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla aggravante di cui al capoverso dell’art. 629 cod. pen . e, per COGNOME e COGNOME, alla recidiva specifica e reiterata, aveva irrogato la pena di anni tre di reclusione ed euro 600,00 di multa ciascuno, con interdizione dai pubblici uffici per anni cinque.
Avverso la sentenza hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati, tramite i rispettivi difensori di fiducia.
Nell’interesse di NOME COGNOME e di NOME COGNOME , con l’unico ricorso proposto, sono stati articolati due motivi.
3.1. Con il primo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 606, comma 1 , lett. b) ed e), cod. proc. pen., l’ inosservanza o erronea applicazione della legge penale con riferimento agli artt. 110, 56 e 629, 393 cod. pen.,  nonché contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riferimento al giudizio di responsabilità per il delitto di tentata estorsione.
Rileva il ricorrente che nella vicenda in esame difettano gli elementi costitutivi della fattispecie di cui agli artt. 56- 629 cod. pen., dovendosi, al più, riqualificare il fatto nella diversa fattispecie di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
La Corte di appello si è limitata a richiamare integralmente la ricostruzione fattuale operata nella sentenza di primo grado, senza indicare quale sarebbe stata in  concreto la condotta estorsiva messa in atto dagli imputati nei confronti del commerciante COGNOME che, escusso in dibattimento, ha reso un racconto per nulla circostanziato riferendo comunque di un atteggiamento ‘un po’ gentile’ di costoro, in particolare non sono state descritte le modalità di violenza e la minaccia.
Quanto al profilo del dolo, si assume che i ricorrenti hanno agito per la tutela di una pretesa legittima (ovvero il credito vantato da NOME COGNOME rispetto al quale era stato emesso un decreto ingiuntivo nei confronti della persona offesa) e su  mandato  del  titolare  della  stessa,  costoro  erano  animati  dal l’ intento  di recuperare solo quanto a quest ‘ultimo spettante.
3.2. Con il secondo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 606, comma 1 , lett. b), cod. proc. pen., la violazione dell’art. 62 -bis cod. pen. con riferimento al mancato
riconoscimento delle già concesse circostanze attenuanti generiche in termini di prevalenza sulle ritenute aggravanti.
La Corte di appello ha escluso un bilanciamento più favorevole ricorrendo a mere formule di stile anziché applicare i criteri enunciati nell’art. 133 cod. pen. per adeguare la sanzione al caso concreto.
Nell’interesse di NOME COGNOME sono stati articolati tre motivi.
4.1. Con il primo motivo e il secondo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., la violazione degli artt. 56 e 629 cod. pen. per mancata riqualificazione del fatto in esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
Deduce  la  difesa  ricorrente  che  la  persona  offesa  COGNOME -la  quale, diversamente  da  quanto  affermato  dalla  Corte  di  appello,  non  parla  e  non comprende la lingua italiana, così da avere reso in dibattimento una testimonianza pressochè incomprensibile -è stata comunque chiara su un punto e cioè sul fatto di non avere ‘mai percepito paura’.
Sotto altro profilo, richiamati i principi di diritto affermati dalla pronuncia della Suprema Corte a Sezioni Unite n. 29541 del 16/07/2020, COGNOME, Rv. 280027 01, si rileva l’erroneità dell a sentenza impugnata che non ha riqualificato il fatto nella fattispecie di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
Rileva la difesa ricorrente che NOME COGNOME ha semplicemente richiesto il pagamento di quanto a lui dovuto nella ragionevole convinzione della fondatezza della propria pretesa.
I giudici di merito hanno escluso l’esistenza di un debito di COGNOME nei confronti dell’imputato, nonostante le produzioni difensive che dimostrano come COGNOME sia subentrato, con contratto di cessione di ramo di azienda, nel supermercato RAGIONE_SOCIALE di NOME il quale aveva un debito nei confronti della RAGIONE_SOCIALE di cui COGNOME NOME è socio e come, rispetto a tale obbligazione non adempiuta, ammontante a circa 10.000,00 euro, sono stati emessi due decreti ingiuntivi ormai esecutivi, in quanto non opposti.
L’esistenza di tale debito nei confronti di COGNOME è stata confermata anche dai testimoni COGNOME e COGNOME.
4.2. Con il terzo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 606, comma 1 , lett. b), cod. proc. pen., la violazione degli artt. 62bis e 133 cod. pen. con riferimento al mancato  riconoscimento  delle  già  concesse  attenuanti  generiche  in  termini  di prevalenza sulle ritenute aggravanti e alla quantificazione della pena che avrebbe dovuto essere contenuta nei minimi edittali.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono inammissibili.
2. I l primo motivo dedotto con l’atto di impugnazione proposto nell’interesse degli  imputati  COGNOME  e  COGNOME  ed  il  primo  e  secondo  motivo  del  ricorso interposto  nell’interesse  dell’imputato  COGNOME  sono trattabili  congiuntamente  in quanto di contenuto pienamente sovrapponibile.
Si tratta di doglianze, per un verso, non consentite in quanto si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelle già prospettate negli atti di appello e disattese dalla Corte territoriale in virtù di una motivazione priva di manifeste illogicità con la  quale  le  difese  ricorrenti  non  si  confrontano  e,  per  altro  verso,  comunque manifestamente infondate.
Il Collegio di merito ha richiamato la ricostruzione fattuale operata dal giudice di  primo  grado  nella  parte  non  contestata  dagli  imputati  appellanti,  per  poi puntualmente esaminare i motivi di gravame proposti ai quali ha fornito adeguata risposta.
Quanto  alla valenza delle dichiarazioni rese dalla persona  offesa, ha evidenziato come NOME COGNOME, seppure di nazionalità straniera, aveva ricostruito la  vicenda  con  una  narrazione  ampia  ed  articolata  trasfusa  in  un  verbale  di denuncia debitamente sottoscritto, poi successivamente confermata in dibattimento  ove  costui  aveva  mostrato  di  comprendere  le  domande  poste  ed aveva ad esse risposto con coerenza e precisione.
Tale assunto è confutato solo genericamente dai ricorrenti che deducono come la testimonianza resa nel giudizio di primo grado sia incomprensibile e quindi inidonea ad assurgere ad elemento di prova, senza indicare e documentare alcunchè di specifico al riguardo e, al contrario, selezionando alcune parti del racconto a loro favorevoli (gli imputati avevano tenuto un atteggiamento ‘un po’ gentile’), così implicitamente conto di come lo stesso sia, in realtà, pienamente intelligibile.
Quanto alla  dedotta  natura  non  intimidatoria  della  richiesta  di  pagamento della somma di euro 10.000,00 rivolta a COGNOME dai ricorrenti COGNOME e COGNOME, su incarico del coimputato COGNOME, la doglianza è parimenti generica in quanto non si misura con le argomentazioni contenute, al riguardo nella sentenza impugnata.
Il Collegio di merito ha ricostruito le connotazioni concrete del fatto come descritte dalla persona offesa che aveva riferito del forte timore scaturito dalle modalità con le quali COGNOME e COGNOME – dopo un primo incontro nel quale si erano approcciati con toni ‘ gentili ‘ – nelle successive ulteriori tre occasioni, ravvicinate nel tempo, gli avevano richiesto la somma di 10.000,00 euro con modalità perentorie, tali da determinare in lui ‘molta paura’ e da indurlo a rivolgersi alle F orze dell’ Ordine; tale prospettazione trovava pieno riscontro nelle
immagini estrapolate dal sistema di videosorveglianza collocate nel luogo teatro dei  fatti  che  avevano  plasticamente  registrato l’a tteggiamento  prevaricatore serbato dai due imputati.
La Corte di appello ha, quindi, configurato in capo ai ricorrenti COGNOME e COGNOME, pacificamente incaricati da COGNOME, una condotta rientrante nel perimetro della minaccia costitutiva del delitto di estorsione che, può essere esplicita, palese e determinata, ma può anche manifestarsi in modi e forme differenti, ovvero in maniera implicita, larvata, indiretta ed indeterminata, purchè sia idonea ad incutere timore, come emerso nel caso di specie (Sez. 2, n. 11912 del 12/12/2012, dep. 2013, COGNOME, Rv. 254797 – 01; Sez. 2, n. 19724 del 20/05/2010, COGNOME, Rv. 247117 – 01; Sez. 2, n. 37526 del 16/6/2004, COGNOME, Rv. 229727 – 01).
Corretto  è  l’inquadramento  del  fatto  nell’alveo  della  fattispecie  di  tentata estorsione anziché in quella di esercizio arbitrario delle proprie ragioni dovendosi qualificare come ingiusta la pretesa azionata nei confronti di COGNOME.
Coerentemente alle risultanze probatorie e alle stesse dichiarazioni del ricorrente NOME COGNOME (acquisite in dibattimento con il consenso delle parti), la Corte di appello (pagg. 5 e 6 della sentenza impugnata) ha ritenuto che la pretesa di pagamento era stata attivata non presso l’effettivo debitore ma, in ragione della irreperibilità di quest’ultimo, nei confronti di un soggetto che nessun pagamento insoluto aveva nei confronti di NOME COGNOME, soggetto per conto del quale COGNOME e COGNOME avevano tentato la riscossione. In particolare, sul punto, il Collegio di merito ha ampiamente confutato la riqualificazione invocata dagli imputati appellanti e qui pedissequamente riproposta con identiche argomentazioni, in parte tendenti ad una rivalutazione fattuale non consentita. Ha, quindi, posto in luce: che la moglie di COGNOME era subentrata a NOME COGNOME nella gestione del supermercato sito in Napoli, previa stipula di un contratto di cessione di ramo di azienda il quale escludeva il passaggio di crediti e obbligazioni aziendali al cessionario; che il debito di cui era stato pr eteso l’adempimento riguardava un diverso esercizio commerciale sito in Capaccio Scalo alla cui titolarità e gestione COGNOME e la coniuge erano del tutto estranei; che i decreti ingiuntivi esecutivi prodotti dalle difese e notificati anche alla moglie di COGNOME avevano ad oggetto fatture insolute proprie relative alle forniture effettuate dal RAGIONE_SOCIALE al supermercato sito in Capaccio Scalo e che tali atti erano stati richiesti ed ottenuti a distanza di anni dall’insorgenza del credito e , assai significativamente, dopo la denuncia di COGNOME e l’esecuzione delle misure cautelari emesse nei confronti degli odierni ricorrenti, con l’evidente intento di suffragare la tesi difensiva di esercizio arbitrario.
La  qualificazione  del  fatto  in  termini  di  tentata  estorsione,  condotta  sulla scorta  delle  evidenze  probatorie  disponibili,  è  conforme  ai  principi  dettati  dalla
sentenza a Sezioni Unite n. 29541 del 16/07/2020, COGNOME, Rv. 280027 – 02 secondo cui configura il delitto di estorsione, e non quello di cui all’art. 393 cod. pen., la condotta dell’agente che, come nel caso di specie, eserciti la pretesa con violenza e/o minaccia in danno di un terzo assolutamente estraneo al rapporto obbligatorio esistente inter partes , trattandosi di un agire in concreto diretto a procurarsi un profitto ingiusto poiché volto ad ottenere il pagamento del debito da un soggetto non coinvolto nel sottostante vincolo contrattuale.
 Manifestamente  infondati  sono  il  secondo  motivo  di  ricorso  proposto nell’interesse degli imputati COGNOME e COGNOME e parte del terzo motivo dell’atto di impugnazione interposto nell’interesse dell’imputato COGNOME, anch’essi trattabili congiuntamente in quanto di contenuto pienamente sovrapponibile.
La Corte di merito (pag. 6 della sentenza impugnata) ha escluso il giudizio di prevalenza della già riconosciute circostanze attenuanti generiche sulla aggravante dell’avere commesso il fatto in più persone riunite e della recidiva ritenuta in capo a COGNOME e COGNOME; ha evidenziato come alcun elemento favorevole fosse stato, al riguardo, introdotto dagli appellanti e che, di contro, militavano in senso negativo la gravità del fatto reiterato in più occasioni, i precedenti penali di cui erano attinti gli imputati ad eccezione di NOME COGNOME il quale, pur incensurato, aveva ricoperto il ruolo di mandante dell’azione estors iva.
Si tratta di un giudizio discrezionale che non è stato affidato a mere formule di  stile,  ma  correttamente condotto sulla scorta di alcuni dei parametri indicati nell’art. 133 cod. pen., come tale non sindacabile in sede di legittimità.
 Identiche  considerazioni  valgono  anche  per  il  terzo  motivo  di  ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME nella parte in cui si deduce la violazione di  legge in punto di quantificazione della pena che, nei confronti dell’imputato, avrebbe dovuto essere contenuta nel minimo edittale.
Anche sotto il profilo della dosimetria della sanzione, il Collegio di merito ha correttamente operato il preciso richiamo all’art. 133 cod. pen. e cioè alla entità dei fatti, rispetto ai quali, peraltro, tutti gli imputati avevano ottenuto una significativa riduzione a titolo di tentativo rispetto alla forbice edittale prevista dall’art. 56 cod. pen. e si erano altresì giovati del mancato aumento di pena a titolo di continuazione interna che il giudice di primo grado aveva omesso di calcolare.
Alla inammissibilità dei ricorsi consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali relative al presente grado di giudizio e, ciascuno, al versamento della somma di euro tremila
in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso il 07/10/2025
Il Consigliere estensore NOME COGNOME
Il Presidente NOME COGNOME